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Alexander Hawkins: La Musica è uno Spazio generoso

Alexander Hawkins: La Musica è uno Spazio generoso

Courtesy Luciano Rossetti

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Nato a Oxford nel 1981, Alexander Hawkins è musicista di punta della propria generazione e della scena contemporanea internazionale. Persona di grande disponibilità e affabilità, è tra i pochissimi musicisti che nella sua fascia di età si confrontano in modo congruo al temperamento dei pionieri che dagli anni Sessanta in poi si sono avvicendati sulla scena della musica afroamericana. È costantemente chiamato a collaborare da questi personaggi per la sua duttilità stilistica, per la preparazione, per l'attitudine a esplorare, per la vasta competenza nei confronti di approcci e linguaggi differenti.

La sua figura artistica e la sua attività multiforme, ricca di contatti in ambiti diversi, è stata descritta in modo meticoloso e dettagliato da John Sharpe per All About Jazz in un'ampia intervista del 2013, alla quale rimandiamo senz'altro. Abbiamo incontrato Hawkins di recente al Berliner Jazzfest, dove era presente in due occasioni: contesti molto diversi, che rispecchiano parzialmente, ma efficacemente la sua attività così articolata ed esplorativa, così originale.

A Berlino si è esibito con il rodato trio Decoy alla Haus der berliner Festspiele, nella versione allargata alla presenza del polistrumentista Joe McPhee, che con i suoi ottantacinque anni, compiuti proprio in quei giorni, è una vera icona della musica nera e dell'improvvisazione contemporanea, un punto di riferimento profondo. Nello storico festival tedesco, che quest'anno compiva i suoi sessant'anni, Hawkins si è anche esibito in duo con la vocalist svedese Sofia Jernberg, in un concerto al club A—Train. La nostra chiacchierata ha preso il primo spunto proprio da questa significativa collaborazione.

All About Jazz: Nelle intenzioni di voi protagonisti e nelle note al vostro CD di David Toop, la proposta del duo con Sofia Jernberg invita a prendere in considerazione criteri forti, come spostamento, migrazione, identità, responsabilità, ascolto intuitivo... Nella tua percezione, il rapporto con queste componenti, in particolare l'ascolto, è cambiato dai tuoi inizi al momento attuale?

Alexander Hawkins: Penso che sia una domanda molto interessante, perché non siamo soliti pensare all'ascolto in modo prospettico. È come osservare qualcosa: se ti trovi a un'estremità di un ponte, la visione è diversa rispetto all'altra estremità. E penso che lo stesso valga per l'ascolto. Il contesto e l'esperienza cambiano il modo in cui percepiamo i suoni... li percepiamo e li organizziamo. Quindi, suppongo, inevitabilmente, di sentire le cose in modo diverso rispetto, diciamo, a vent'anni fa. La domanda più difficile è... "Come è cambiato l'ascolto?." In che modo è cambiato? Ad esempio, il mondo così com'è al momento mi rende consapevole che la musica è qualcosa di fondamentale e potenzialmente universale, ma anche qualcosa di molto fragile, di precario.

Sai, è un grande privilegio poter fare ciò che facciamo, in un momento in cui ci sono persone a pochissimi chilometri da qui che non hanno accesso all'acqua potabile o che vengono uccise quotidianamente. Siamo consapevoli che il suono è universale, ma anche che è un privilegio. Dovrebbe essere un diritto, ma oggi è un privilegio. In questo senso, ciò modella la nostra prospettiva d'ascolto. Un concerto permette di trasmettere delle esperienze condivise: una cosa molto interessante, che rende la musica davvero preziosa. Ma a volte ci si può sentire anche banali, se non c'è la consapevolezza di quanto si è fortunati. C'è una cosa rilevante, che penso abbiamo visto nel corso della storia della musica: questa può essere un potente strumento sociale. A certi livelli, però, siamo vulnerabili e impotenti.

AAJ: La tua è una riflessione profonda.

AH: Questa tematica mi sta a cuore, è molto interessante. So che ai musicisti piace presentare sé stessi come radicali e socialmente impegnati, e credo che questo sia importante, ma le persone davvero radicali sono quelle impegnate sul campo, sono le persone che lavorano nella sanità, che lavorano con i rifugiati. Ecco le cose che vanno a interagire con i nostri contesti di ascolto. Ci fanno pensare in un modo molto serio al mondo e al suono, alla canzone e all'esperienza. Purtroppo, trattandosi di un orizzonte così ampio, non so bene come affrontarle. Ecco, penso che la cosa importante di questioni così, sia che ci coinvolgono tanto come ascoltatori quanto come performer. Ci dovrebbero portare a riflettere sulla nostra situazione e forse alla fine questo fa parte delle potenzialità di questo approccio, che ci aiuta, si spera, a ragionare verso la realizzazione di un cambiamento sociale dalle ampie dimensioni.

AAJ: Grazie, Alexander, per questa risposta così articolata e sensibile. Fissiamo ora l'attenzione sul duo: ci sono tanti ingredienti: dalla musica popolare alla canzone, all'improvvisazione. Nel confronto con i numerosi altri incontri in duo che hai realizzato, qual è la caratteristica specifica di questo?

AH: Amo questo duo, ha qualcosa di speciale. Sofia è un genio. Uso questo termine consapevole del fatto che oggi è utilizzato troppo spesso. Intendo dire che lavorare con lei è una gioia totale. Da un punto di vista molto elementare, disponiamo di linguaggi condivisi, che entrambi possiamo utilizzare. Abbiamo familiarità con i linguaggi del jazz, ma poi entrambi abbiamo un'esperienza con la musica classica contemporanea. Beh, non solo contemporanea, anche musica classica in generale. Entrambi amiamo le tradizioni popolari di tutto il mondo, siamo molto curiosi in tal senso e spesso ci scambiamo delle cose che ci appaiono nuove. Questo ci aiuta a essere aperti, a non pensare troppo agli aspetti dello stile. Ovviamente, dobbiamo stare molto attenti e avere rispetto per le tradizioni a cui non apparteniamo.

Ma allo stesso tempo, la musica è uno spazio generoso, dentro il quale vogliamo essere in grado di lavorare insieme e di condividere tanti linguaggi. Accade la stessa cosa, ad esempio, quando suono con musicisti italiani: hanno un vocabolario diverso e mi accorgo che ci posso entrare. Entro un po' nella loro lingua. È una questione anche di rispetto: tu cerchi di capire, sai che parli con qualcuno e inizi a imparare un po' la sua lingua. Penso che il nostro duo sia proprio così. Abbiamo tante cose a cui possiamo attingere quando suoniamo e questo crea un'interessante tensione. Possiamo fare molte cose, ad esempio siamo profondamente coinvolti nella musica d'avanguardia. Poi, quando all'improvviso decidiamo di focalizzarci su una canzone, solo una canzone e nient'altro, questo porta un'energia particolare, perché sullo sfondo c'è sempre la possibilità che possa accadere qualcosa di nuovo.

Per un certo verso, è come nella musica di Albert Ayler; lui sceglieva delle melodie, ma il modo di sentire queste melodie per te come ascoltatore apriva degli spazi, perché tu intuivi cosa poteva accadere. Trovo questo fenomeno interessante: ciò che accade tra me e Sofia ha un nesso di questo tipo, certamente lo ha. Ci sono certi contesti musicali, alcuni duetti che possono essere estremamente interessanti da ascoltare, ma che sono molto difficili da suonare. Traggono l'energia e l'interesse dalla concentrazione. Ma questo non è uno di quelli: qui c'è solo un'intesa e una sorta di reciprocità. Suppongo che sia come una fiducia reciproca. Posso fare una cosa che sembra essere completamente estranea a quello che sta facendo lei, ma noi ci capiamo, seguiamo quello che sta accadendo. Facciamo qualcosa insieme e quindi c'è sempre la possibilità di controllarlo in questo modo.

AAJ: Come è nato l'incontro con Sofia?

AH: È successo per la prima volta alla BimHuis di Amsterdam nel 2016, al famoso October Meeting, dove, come sempre, c'era una quantità di grandi musicisti. Gli organizzatori fecero una proposta: i musicisti potevano esprimere il desiderio di esibirsi con certi altri, oppure potevano loro stessi suggerire alcune combinazioni. Sofia si era esibita in quell'occasione con il grande musicista etiope Hailu Mergia, che negli anni Sessanta ha registrato dischi importanti. Io avevo suonato con l'altro padre della musica etiope Mulatu Astatke per molto tempo (con lui di recente Hawkins ha fatto un tour europeo che ha toccato pure Bologna, N.d.R.). Qualcuno, mi sembra fosse Huub van Reel, direttore artistico della BimHuis per quarant'anni, suggerì che Sofia e io avremmo dovuto suonare insieme: così facemmo due canzoni, solo due canzoni etiopi. Brani tradizionali, che sono ancora nel nostro repertorio. Ma subito abbiamo trovato la sintonia. Sì, una scintilla di empatia.

Nel pubblico c'era Bogdan Benigar, del Lubiana Jazz Festival, che ci ha invitato a suonare in Slovenia l'anno successivo, con un programma completo. Da allora, la cosa è continuata. Anche se siamo molto occupati in una quantità di progetti, l'incontro si ripete ogni anno. Lo facciamo solo in certi contesti di festival, mai in tour da soli, e ogni volta che ci incontriamo, sembra che l'ultima sia stata solo il giorno prima. Abbiamo davvero un'intesa. Per una felice coincidenza, è scattata questa empatia musicale e personale, che aiuta la musica a funzionare in un certo modo.

AAJ: E la cosa sta crescendo?

AH: Sì, assolutamente. Inizialmente abbiamo suonato il repertorio etiope, ma poi volevamo creare qualcosa di più ampio. La tradizione etiope rappresenterà sempre una componente speciale, ma ce ne sono tante altre che significano qualcosa per noi. Inizialmente, Sofia ha portato brani tradizionali svedesi. Abbiamo poi aggiunto una canzone armena, una canzone inglese, scegliendo solo cose che per noi hanno un forte senso. Quindi il repertorio è cresciuto e l'approccio si è arricchito, al punto che, musicalmente, la gioia più grande per me oggi è questo duo. Mi piace davvero tanto.

AAJ: Musho è il titolo del CD pubblicato dal duo lo scorso aprile dall'etichetta Intakt. Cosa significa?

AH: Musho, è una parola amarica, una lingua dell'Etiopia, e significa canzone triste. Quindi un po' come un Otis Redding etiope. Certo, è una sorta di lamento.

AAJ: Passiamo a Decoy e al concerto con Joe McPhee a Berlino?

AH: Con Decoy siamo partiti come trio, con John Edwards al contrabbasso e Steve Noble alla batteria. Ci sono due album registrati proprio all'inizio del nostro lavoro, molto presto, esattamente nel 2009. Due volumi, il primo chiamato Spirit, il secondo dal titolo The Deep. Poi, molto presto nella vita del gruppo, abbiamo invitato Joe. Joe aveva conosciuto Steve e John durante un festival, penso fosse a Newcastle. In seguito, abbiano voluto fare sempre di più e penso che tutti noi abbiamo sentito che questa poteva essere un'opportunità ideale.

Poi, molto presto, abbiamo invitato Joe e lui ne è stato entusiasta. È un ospite, ma davvero fa parte della band. Il Decoy migliore è sempre con Joe, credo. Lui ha una storia tale, che la sua sola presenza è speciale sul palco. Conosci i suoi modi: ha una luminosità particolare, quando è infervorato. È una specie di magnete e, naturalmente, ora che ha ottantacinque anni, è diverso da quando ne aveva settanta o sessanta. Per noi si tratta di creare energia e una piattaforma a suo favore, perché faccia le sue cose.

Ma i concerti con lui possono davvero prendere diverse direzioni. L'altra sera abbiamo ascoltato le sue poesie (rivolte in particolare a Coltrane, N.d.R.). Per me è sempre molto interessante. In un certo senso, oggi è stato riscoperto: è stato spesso nel contesto di questa sorta di free jazz, cosa che ovviamente lui fa molto bene. Penso in particolare a dischi come Nation Time, con l'incredibile mescolanza di suggestioni. Tre brani classici e divertenti. Ma Joe è anche uno dei grandi sperimentatori: penso in particolare ad alcuni dei suoi album da solista degli anni Settanta, dove usa le tastiere e fa cose davvero, davvero incredibili.

È molto radicale, è bello suonare con lui. Penso sia bello con qualsiasi musicista, ma soprattutto con questi anziani, è positivo creare un contesto in cui possono esprimersi liberamente, nel quale non stai cercando di fargli fare una certa cosa. Joe è un artista che si esprime in un campo molto più ampio del semplice free jazz, e lo fa sempre brillantemente. Dunque, il trio vuole anche creare una tela, in cui lui possa esprimere tutte queste sfaccettature della sua personalità. Credo inoltre che sia un ensemble divertente da ascoltare dal vivo, perché l'organo Hammond ha un suono così viscerale, così fisico. Con l'aria che viene fatta vibrare dall'amplificatore Leslie, è un'esperienza davvero fisica: sentirla dal vivo è proprio qualcosa di speciale, credo.

AAJ: Senza dubbio, sono d'accordo: Il concerto a Berlino è stato davvero formidabile. A proposito di collaborazioni con i grandi, non è così facile trovare un musicista della tua generazione che suoni con questi veterani. Come hai fatto a inserirti in tale contesto, con tanti grandi esploratori come Anthony Braxton, Wadada Leo Smith, Evan Parker, John Surman, Han Bennink, Louis Moholo-Moholo?

AH: Sono stato veramente fortunato. Sì, mi viene chiesto di farlo spesso. Il fenomeno è interessante, perché di frequente ai giovani musicisti piace pensare di essere radicali, e molte volte lo sono. Ma spesso sono gli anziani che stanno ancora spingendo. Se pensi a chi sono i visionari della musica contemporanea, beh, sai che tra loro ci sono persone come Braxton, lo sai. Sono davvero dei senatori, quindi la cronologia salta: essere più giovani non significa essere musicisti più creativi. Certo, ci sono molte menti musicali davvero brillanti tra le giovani generazioni.

In parte, ho iniziato a suonare con questi musicisti più anziani perché volevo essere un vero studente di musica. Per cercare di sviluppare la mia musica, il mio approccio è sempre stato quello di cercare di essere molto consapevole di tutto ciò che è accaduto prima. Anche per evitare di ripeterlo. In questo modo, ho maturato una familiarità. Così, quando Louis Moholo mi ha chiesto per la prima volta di unirmi alla sua band, ho pensato che conoscevo il contesto e potevo farlo. Sono piccole cose di questo tipo: ero preparato, suppongo.

AAJ: Il problema è proprio legato all'educazione musicale.

AH: L'educazione musicale è una questione interessante. Sappiamo bene che il curricolo accademico può essere pericoloso, può essere molto conservatore. Questa è proprio una cosa che non ci sta nella nostra musica. Si tratta di libertà e di possibilità; così il tipo di apprendimento empirico, attraverso l'esperienza con gli anziani, o l'apprendimento mentre si suona in pubblico, diventa molto importante. Oggi questa è una cosa rara, anzi, sono sicuro che poterlo fare è un privilegio assoluto. Mi considero molto fortunato di aver avuto queste esperienze e di continuare ad averle. Però apprezzo molto anche imparare dai musicisti più giovani. Recentemente ho suonato con un ensemble di giovani musicisti italiani ed è stato altrettanto stimolante. Quindi, sai, le informazioni sono ovunque. Penso che il trucco stia nell'apertura, nel sapere che le informazioni sono ovunque.

AAJ: Dunque parliamo del tuo rapporto con musicisti italiani, Roberto Ottaviano in particolare. Cosa ci puoi dire di questa esperienza?

AH: Certo, da più di dieci anni ho rapporti con la scena italiana. Roberto mi contattò perché nel 2013 stava preparando un tributo a Steve Lacy. Io sono, ovviamente, un grande fan e studente della musica di Lacy. Credo che Roberto inizialmente fosse venuto a conoscenza del mio lavoro anche attraverso il suo amore per Louis Moholo: penso che Roberto mi avesse ascoltato con Louis, così mi invitò a suonare nel disco su Lacy. Da allora abbiamo fatto parecchie cose insieme. Abbiamo suonato in duo. Mal Waldron, uno dei miei eroi, ha suonato in duo con Lacy e Roberto, a sua volta, è stato per un lungo periodo un partner in duo di Mal.

AAJ: Di recente hai lavorato insieme a Marco Colonna: da poco è stato pubblicato un live in duo con lui al clarinetto basso, reperibile sulla piattaforma Bandcamp, dal titolo Dolphy Live Underlined!!!. Naturalmente dedicato a Eric Dolphy, registrato nell'ottobre di quest'anno al Multiphonics Festival di Colonia. Come siete entrati in relazione?

AH: Ho conosciuto Marco sempre attraverso il contatto di Roberto. Certo, con Marco abbiamo suonato recentemente un sacco di musica di Dolphy e un po' della sua stessa musica originale, che è davvero incredibile.

AAJ: E gli altri contatti con musicisti italiani?

AH: Con Zeno De Rossi ho suonato prima che con tutti gli altri italiani. Abbiamo lavorato con Wayne Horvitz, era forse il 2010, o forse un po' più tardi. In questo modo ho conosciuto Zeno, Danilo Gallo e altri di quella cerchia. Poi Massimiliano Milesi... davvero un sacco di gente. E Giovanni Maier, che ho conosciuto, ovviamente, attraverso l'ascolto dell'Italian Instabile Orchestra.

C'è una tradizione così straordinaria in Italia, con Giorgio Gaslini, Enrico Rava, Mario Schiano. Da queste persone arriva un'eredità molto profonda. E ho sempre ammirato i musicisti italiani, perché parlano la lingua jazz con un accento italiano: è una delle cose per me importanti. Sono in Europa, non voglio sentire persone che fanno finta di essere a New York, perché non lo sono. Quindi suona come sei. Certo, lo sappiamo, il jazz è una cosa globale, fin dall'inizio è un linguaggio creolo, quindi non è del tutto sincero fingere di non essere americano. Allora, parla quella lingua, ma mantieni il tuo accento. Questa è una delle cose che distinguono molti musicisti italiani, che ammiro davvero.

AAJ: Così tu dici che c'è una connessione mentale tra il linguaggio musicale e la lingua parlata?

AH: Certo, certo: i ritmi... voglio dire, uno dei miei chiodi fissi sta nel ritmo della parola. È così anche nella musica classica: ad esempio, sono ossessionato dalla musica di Leoš Janáček. E certo, non si può capire il suo linguaggio ritmico senza capire il suono delle lingue ceche. Ed è così che dovrebbe essere, ovunque.

AAJ: Molto interessante...

AH: Così anche nel duo con Sophia: quando canta in amarico, la musica si comporta in modo diverso da quando canta in svedese, o in inglese. E quindi, da parte mia, sono sempre interessato ai musicisti che tengono orecchie molto aperte, ma che allo stesso tempo non negano il contesto da cui provengono. Lo sai bene, ce ne sono tanti.

AAJ: Anche tra gli italiani conosci qualche nuovo talento?

AH: Recentemente ho avuto il privilegio di incontrare giovani musicisti italiani e di suonare con loro. Mi riferisco a Francesca Remigi per esempio, davvero eccezionale, a Giacomo Zanus, di Bologna, un chitarrista incredibile, al contrabbassista Ferdinando Romano. Ma delle generazioni più esperte, vorrei ancora ricordare Giorgio Pacorig, un incredibile pianista, e Pasquale Mirra. Conosco così tanti musicisti brillanti. Penso proprio che la scena musicale italiana sia incredibilmente interessante e molto sana. Sono un grande ammiratore di questa scena e mi ritengo molto fortunato a suonare tanto lì.

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