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Bologna Jazz Festival 2024

Courtesy Francesca Sara Cauli
Bologna Jazz Festival 2024
Bologna e Ferrara
23 ottobre17 novembre 2024
Per l'ampiezza della sua durata il Bologna Jazz Festival 2024 potrebbe essere definito un festival fiume, con le caratteristiche più di una rassegna che di un festival concentrato. Per la varietà delle proposte si è qualificato invece come una manifestazione multiforme, forse un po' possibilista; fra Lady Blackbird, Mulatu Astatke, Pat Metheny e Donald Harrison infatti la distanza stilistica è tale da conferire al cartellone un carattere disomogeneo, disinvolto e proprio per questo interessante, rispecchiando la molteplicità delle attuali espressioni di matrice jazzistica. Appunto da questa impostazione di base deriva il fatto che per dare spazi adeguati ai diversi approcci musicali, destinati ad audience inconciliabili fra loro, gli organizzatori hanno opportunamente coinvolto le istituzioni, le realtà logistiche e i partner più idonei.
Di conseguenza la mappa dei luoghi scelti di volta in volta per accogliere i concerti è risultata mirata, diffusa e diversificata, estendendosi anche al di fuori dei confini comunali. Se quattro dei più importanti teatri cittadini hanno ospitato i nomi più "nobili" e di maggior richiamo, cinque jazz club molto attivi, compreso il Torrione di Ferrara, hanno fornito il palcoscenico a svariate proposte jazzistiche, ora più ortodosse ora più trasversali; inoltre nei frequentati centri giovanili, il Locomotiv e lo Sghetto, un pubblico rigorosamente in piedi ha assistito ad alcune delle formazioni più alternative ed attuali. Il programma di questa edizione, dedicata alla memoria di Jimmy Villotti, comprendeva anche alcune iniziative collaterali, fra cui il progetto didattico Massimo Mutti e le lezioni-concerto su protagonisti della musica afroamericana tenutesi al Museo della Musica.
Al Teatro delle Celebrazioni c'era una vibrante attesa per l'apparizione dell'ottantenne etiope Mulatu Astatke, regista distaccato di un'assortita compagine già rodata da un lungo sodalizio. Nel complesso, ad un livello di amplificazione abbastanza contenuto, la musica di brano in brano si è snodata su una sequenza di temi semplici e diretti, per lo più medio-lenti e sostenuti da una fissità ritmica che è divenuta motoria sotto le mani del sempre trascinante John Edwards al contrabbasso, di Jon Scott alla batteria e di Richard Olatunde Baker alle percussioni. Su questo tessuto propulsivo, svariati interventi sono stati concessi ai vari strumentisti: ottimi per l'incisiva e volitiva vitalità quelli del pianista Alexander Hawkins e del violoncellista Danny Keane. Quanto ad Astatke, oltre che alle minute percussioni metalliche, al vibrafono ha profuso sonorità alonate, suffuse, dal timbro madreperlaceo, dipanando un fraseggio incantatorio nel suo procedere per lo più riflessivo e meditabondo. Il tenore di James Arben ha proteso un sinuoso arabesco di note verso il registro acuto, mentre più frammentata e slabbrata, eppure genuina, è parsa la pronuncia del trombettista Byron Wallen. Particolarmente evocativo e coinvolgente si è rivelato un trio in cui, sulle liquide sonorità della tastiera elettrica del leader, si sono stagliati e intrecciati i contrappunti cristallini di Hawkins e le brucianti sortite del violoncellista. Col procedere del concerto si è assistito ad un progressivo crescendo della tensione emotiva, divenendo i temi e gli sviluppi più complessi, più compatti i collettivi, più motivati i contributi dei singoli.
Se dedico poco spazio alle esibizioni di Cecile McLorin Salvant e Pat Metheny, due dei protagonisti di maggior richiamo, portabandiera da tempo di un'attualità autentica e originale, è perché ritengo già noti i loro approcci, i loro messaggi e l'affidabilità delle loro prestazioni. Negli ultimi anni ho già ascoltato e recensito troppe volte Cécile per poter trovare parole nuove per descrivere il suo canto magistrale. Al Teatro Duse ha confermato la sua classe d'interprete attraversando un repertorio composito e deformando le melodie originarie tanto da renderle talvolta irriconoscibili. È risultata larga l'intesa che la lega ai partner del suo quartetto, in particolare a Sullivan Fortner, che con la sua maestria pianistica trasversale ed eccentrica riesce a compendiare alcuni pianisti basilari del jazz classico.
Metheny, all'Auditorium Manzoni gremito all'inverosimile, si è dimostrato abile e logorroico gestore della sua soloperformance, alternando introduzioni verbali a vari tipi di chitarre per compendiare il suo mondo musicale. Alla chitarra acustica ha affrontato vari classici del suo repertorio ora con un tocco sgranato e melodicamente lineare ora con avvolgenti vampate armoniche, mentre alla chitarra elettrica ha fatto emergere cadenze più bluesy e jazzistiche, fino ad arrivare ad un brano noise e sperimentale di grande effetto, dagli intrecci complessi ma sempre ben leggibili. Su quella chitarra a 42 corde nota come Pikasso guitar per via del suo aspetto, il settantenne maestro ha elaborato situazioni armoniche ampie e sontuose, coinvolgenti anche se eccedenti verso una retorica ridondante.
Per motivi diversi non sono risultati memorabili due concerti a carico di esponenti di una tradizione jazzistica americana canonica, tanto autentica quanto rassicurante e risaputa. La struttura portante del quintetto McCoy Legends, presentato all'Unipol Auditorium, era nelle mani della sezione ritmica: al pizzicato possente e propulsivo di Avery Sharpe, il vero animatore di questo gruppo, e al drumming pervadente ed efficacissimo di Ignacio Berroa ha fatto riscontro il pianismo motivato e diretto di Antonio Farao, anche se talvolta troppo verboso nella sua derivazione tyneriana. I due settantacinquenni fiati della front lineSteve Turre al trombone e Chico Freeman ai sassofonihanno riempito i loro spazi con indubbio mestiere, ma senza eccellere con idee esaltanti. Il concerto di questa formazione si è protratto per quasi due ore senza convincere appieno per l'incapacità di approdare alla dovuta sintesi nel ricercare un rinnovamento vitale del linguaggio preso a riferimento.
Al MAST Auditorium invece si è potuto riascoltare Donald Harrison, che si mise in luce a livello internazionale a metà degli anni Ottanta incidendo per la CBS; allora pilotava ottimi gruppi assieme a Terence Blanchard, che nei decenni successivi ha fatto ben altra strada. Nel complesso la performance del suo quartetto, affidabile e attinente al messaggio del leader, è risultata esuberante, nel segno di un jazz accessibile che ribadisce orgogliosamente il proprio linguaggio; la scelta del sessantaquattrenne sassofonista tuttavia è sembrata rinunciataria, presentando nient'altro che un percorso didascalico sulla storia del jazz. Si sono susseguiti in ordine cronologico brevi brani storici, omaggiando via via stili e protagonisti fondamentali: il Blues e New Orleans, Sidney Bechet, Charlie Parker, Miles Davis, John Coltrane, il Latin Jazz... Quello che vale la pena di rimarcare è l'attuale, personale pronuncia strumentale di Harrison, che presenta un fraseggio legato, un sound acidulo, vibrante e sdrucciolo, che fanno largo uso di glissando e di un'intonazione ondivaga.
I numerosi concerti nei club, oltre a nomi stranieri di ottimo livello, fra i quali il quartetto Erik Friedlander's The Through, hanno permesso l'esibizione di molti giovani gruppi italiani. Fra questi, merita un'attenzione particolare il recente trio GoGoDuck (Paolo Peruzzi al vibrafono , Luca Zennaro alla chitarra e Francesca Remigi alla batteria), che per nusica.org ha di recente edito Palladio a palla. Al club Binario 69 il trio ha riproposto gli otto brani dell'album, a firma dell'uno o dell'altro e ispirati con diversi criteri ad altrettante ville venete palladiane. La struttura ricorrente in vari brani ha visto il passaggio graduale da un'introduzione tematica riflessiva, ora puntillistica ora evanescente, ad assiemi più saturi e insistiti. I contributi incisivi dei tre sodali si sono compenetrati con grande naturalezza e freschezza giovanile.
Rispetto al deludente concerto ascoltato nel luglio 2023 al Fano Jazz by the Sea, la performance del quartetto di Nubya Garcia al Locomotiv Club è apparsa decisamente più compatta e convincente; forse anche perché la sassofonista britannica si sente maggiormente a proprio agio in questo tipo di ambiente più informale, di fronte ad una audience per lo più giovane. I brani proposti erano accomunati da una struttura ricorrente: partendo da linee melodiche lente ed evocative sul registro basso emesse con un sound morbido, gli assoli della leader hanno affrontato una graduale scalata verso il registro acuto ed un fraseggio più infervorato e lirico. A volte, ma senza esagerare, la sonorità del tenore era raddoppiata e riverberata elettronicamente. Un andamento analogo ha caratterizzato gli interventi dello stentoreo tastierista Lyle Barton, i cui assoli hanno sempre fatto seguito a quelli della leader, mentre una densa e avvincente conduzione ritmica è stata assicurata dal contrabbassista Daniel Casimir e dal batterista Sam Jones. Nella musica della Garcia, tutto sommato semplice ma dotata di una sincera comunicativa, ciò che è risultato personale e avvincente è stata soprattutto la mobile cantabilità, ora esotizzante ora carezzevole, dei temi melodici, a volte reiterati in modo suggestivo.
Nello stesso club, una settimana dopo si è esibito MonoNeon, nome d'arte del trentaquattrenne bassista elettrico mancino Dywane Thomas Jr., personaggio astruso per il variopinto abbigliamento con cui si maschera, ma del tutto accessibile nella musica che propone. Il suo basso procede raramente su riff ripetitivi, previlegiando linee mobili sia nel fraseggio che nel sound, che a tratti si gonfia in suggestive sequenze di note riverberanti. Quello che si muove al meglio è la fusione fra il suo basso e i frastagliati ma compatti contributi dei suoi partnerCharles Brown, Xavier Lynn e Devin Way, rispettivamente tastiere, chitarra e batteriadando corpo a un linguaggio funzionale e diretto che attualizza con convinzione le forme e lo spirito del Soul, del funky e di altre correnti della musica popolare. Le canzoni del leader, spesso concluse repentinamente e cantate con voce un po' granulosa, a tratti quasi infantile, completano il suo messaggio che sembra dichiarare un'orgogliosa aderenza a una comunicazione semplice e finalizzata, senza significati reconditi.
Questo parziale resoconto si riferisce esclusivamente ai concerti da me ascoltati, anche se altri appuntamenti avrebbero meritato la dovuta attenzione, soprattutto fra i tanti presentati nei club, anche replicati in sedi diverse. Segnalo a questo proposito due date isolate, inserite nell'ultima pagina del programma come "two more," quasi un'appendice del festival, che si svolgeranno al Camera Jazz & Music Club, proponendo gruppi americani con diversi motivi d'interesse: il George Cables Quartet e il Bill Stewart Trio. Sulle loro esibizioni mi ripropongo di dare conto in una successiva recensione.
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