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Lucian Ban: jazz, musica popolare della Romania e l'alter ego Mat Maneri

Courtesy Anamaria Stanciu
Sono arrivato a pensare a noi, musicisti e artisti in generale, come cittadini del mondo, anche se purtroppo gli eventi che oggi stiamo vivendo minacciano profondamente questa concezione
Lucian Ban
All About Jazz: Lucian, sei nato in Romania e ti sei poi trasferito a New York per studiare jazz: puoi dirci qualcosa di questa tua esperienza di "migrante artistico?"
Lucian Ban: Non è una domanda facile a cui rispondere, ma posso dire che mi sono trasferito a New York nel 1999, quando avevo 30 anni, e vivo in America da oltre un quarto di secolo, possedendo sia la cittadinanza americana, sia quella romena. Vivere a New York e diventare l'artista che sono è stata l'esperienza più trasformativa della mia vita. Mi sono trasferito per amore di questa musica e volevo sperimentare tutto ciò che New York e gli Stati Uniti hanno da offrire in questo senso. Alcuni dei miei incontri artistici più significativi sono avvenuti a New York: oltre a Mat potrei citare Alex Harding, grande sassofonista baritono, il tenorsassofonista Abraham Burton, il maestro della tuba Bob Stewart e alcune altre persone che sono state per me influenti collaboratori e mentori. Vivere a New York e poi andare in tournée negli Stati Uniti e nel mondo ti costringe ad acquisire una prospettiva più ampia di quella che avevi nel tuo Paese d'origine. New York è un luogo così cosmopolita, un vero e proprio melting pot globale, in termini sia di musica, sia di cultura in generale, quindi direi che, come artista, essere a New York e apprendere direttamente "alla fonte," sia stata per me un'esperienza determinante. Continuo a imparare ogni giorno e cerco di assorbire il più possibile.
AAJ: Cosa ti ha spinto a lavorare sulla musica della tua terra, leggendola però attraverso la tua esperienza umana e musicale in una cultura diversa?
LB: Inizialmente, quando mi sono trasferito a New York, ho in un certo senso voltato le spalle alla cultura del mio paese d'origine, perché ero ossessionato dall'assorbire il più possibile dalla scena jazz newyorchese. Ma poi, verso la fine degli anni 2000, ho ricevuto alcune commissioni dalla Romania: la prima è stata dal George Enescu Festival, uno delle maggiori rassegne di musica classica in Europa, dedicato all'omonimo, grande compositore classico. Mi hanno chiesto di reinterpretare le sue opere in una prospettiva jazz. Insieme al bassista John Hébert abbiamo formato un ensemble straordinario, con Tony Malaby, Ralph Alessi, Gerald Cleaver, Mat Maneri, Albrecht Maurer e il grande Badal Roy alle tabla. Quella è stata la prima volta in cui ho avuto modo di esplorare una musica diversa dal jazz, quella del mio paese d'origine, in particolare alcune delle più grandi musiche composte nel XX secolo. L'album ha ottenuto numerosi premi e un feedback eccezionale dalla stampa, e siamo riusciti a portarlo in tournée negli Stati Uniti e in Europa, che è una vera impresa.
Qualche anno dopo, durante un tour con il mio quartetto Elevation, con Abraham Burton, Eric McPherson e John Hébert, abbiamo avuto modo di ascoltare, da un promoter dalla voce straordinaria, alcuni vecchi canti natalizi e antiche canzoni popolari della Transilvania che non avevo mai sentito prima, e abbiamo deciso all'istante di voler fare qualcosa con quelle bellissime canzoni. Così abbiamo registrato un album intitolato Songs from Afar, in cui presentavamo arrangiamenti di questi brani con il quartetto. È stata un'esperienza davvero unica che mi ha avvicinato ancora di più alla musica del mio paese natale. L'album ha ricevuto numerosi premi ed è stato nominato Album Downbeat dell'Anno nel 2016, un riconoscimento piuttosto prestigioso da una delle più antiche pubblicazioni jazz.
Poi, nel 2018, un'organizzazione di Timisoara, nella Transilvania occidentale, ci ha commissionato un lavoro sulla straordinaria collezione folk di Bela Bartók relativa alla Transilvania. All'inizio del secolo scorso, Bartók aveva registrato, trascritto e annotato oltre 3.500 canzoni su cilindri di cera Edison, registrate da lui stesso nei villaggi della regione: è una delle più grandi raccolte folk esistenti al mondo, che svela una cultura e un corpus di canzoni straordinari, ricchi di bellezza e di profonda conoscenza. Abbiamo collaborato con il leggendario fiatista inglese John Surman e nel 2020 abbiamo registrato un album per Sunnyside, Transilvanian Folk Songs; poi io e Mat ne abbiamo registrato un altro in duo per la ECM Records, Transylvanian Dance, reinterpretando queste antiche canzoni folk; e in seguito abbiamo fatto anche un album in quartetto, ancora con John Surman e il bassista Brad Jones. Adesso, a settembre, usciranno altri due album per la Sunnyside Records, Cantica Profana e The Athenaeum Concert, con musiche provenienti dalle principali sale e festival europei.
Quindi, anche se questi progetti non erano pianificati di per sé, hanno rappresentato per me una fortunata evoluzione come musicista, che mi ha permesso di conciliare le mie origini nell'Europa orientale con tutta la musica straordinaria e la ricca cultura che hanno plasmato la mia educazione attraverso il mio amore per il jazz e per l'improvvisazione in quella che è, per così dire, la mia nuova casa. Sono arrivato a pensare a noi, musicisti e artisti in generale, come cittadini del mondo, anche se purtroppo gli eventi che oggi stiamo vivendo minacciano profondamente questa concezione. In questo sono fortemente ispirato dal profondo credo di Béla Bartók, che scriveva: «la mia idea è la fratellanza dei popoli, fratellanza nonostante tutte le guerre e i conflitti. Cerco di servire quest'idea nella mia musica, quindi non rifiuto alcuna influenza, sia essa slovacca, rumena, araba o di qualsiasi altra fonte. La fonte deve essere pura, fresca e sana!».
AAJ: Puoi spiegare il modo in cui oggi, assieme a Mat, lavori sul materiale della tradizione romena e come si è evoluto il tuo modo di operare rispetto agli esordi di questo tipo di lavoro, quindici anni fa?
LB: Beh, Mat e io suoniamo insieme da quasi diciassette anni e abbiamo lavorato in parecchi progetti diversi dal nostro Duo: il suo quartetto microtonale con Randy Peterson e John Hebert, il trio con Evan Parker, gli ottetti dedicati alla reinterpretazione della musica del famoso compositore rumeno George Enescu e, di recente, il progetto basato sulle registrazioni sul campo di Bela Bartók. Ognuno di essi funziona in modo specifico, con parametri e sfide diverse. Tutte queste esperienze e il tempo trascorso insieme si sono uniti in quest'ultimo progetto: prendere la musica folk della Transilvania dalla collezione di Bartók e reinterpretarla dal nostro punto di vista, usando il linguaggio del jazz e dell'improvvisazione. Siamo molto più sicuri e liberi nel nostro approccio rispetto, ad esempio, al 2013, quando abbiamo registrato il nostro primo album per ECM, Transylvanian Concert. Abbiamo un modo molto intuitivo di approcciare il lavoro su questi brani folk, che ci dà la fiducia di poter utilizzare qualsiasi approccio o strumentoche sia jazz, musica classica contemporanea, folko qualsiasi cosa riteniamo possa funzionare. Alcuni brani hanno un approccio più improvvisativo, altri sono più specifici in termini di orchestrazione o arrangiamento. L'esperienza e la fiducia che abbiamo acquisito nel corso degli anni è parte del gioco.
AAJ: Cosa cambia tra il lavoro che fai sui canti tradizionali con Mat e quello che fate quando si aggiunge John Surman?
LB: John Surman è una benedizione. Ha un modo straordinario di suonare queste melodie storiche con il suo proprio linguaggio, senza mai abbandonare la ricetta che le ha rese così durature. La sua meravigliosa gamma di strumenti e sonorità è intrecciata con un meraviglioso senso dell'orchestrazione che ci permette di perfezionare le nostre tecniche estese e le nostre alterazioni ritmiche. John è una delle voci più singolari del jazz moderno e ha una particolare connessione e comprensione della musica folk, come ha dimostrato in molti dei suoi progetti. E il suo suono al clarinetto basso è una delle meraviglie del jazz moderno.
AAJ: Che affinità e che differenze ci sono tra il lavoro sui canti della tradizione e quello che hai fatto sulle composizioni di George Enescu, che lo scorso anno ha portato a Oedipe Redux?
LB: La musica di George Enescu è molto più complessa in termini di scrittura e composizione rispetto alla musica folk. Ha forme estese ed è un classico del XX secolo di grande complessità. La sua opera Oedipe è una delle più difficili e complesse mai scritte. È uno dei motivi per cui viene rappresentata così raramente, perché è difficile da suonare ed eseguire. La partitura stessa è lunga quasi 600 pagine ed è così complessa che non esiste neppure una versione definitiva: abbiamo dovuto lavorare su un facsimile dei suoi scritti. Quindi, con questo tipo di musica classica del XX secolo, così complessa, le sfide sono cosa scrivere, cosa orchestrare, cosa riarrangiare e cosa ricomporre per dare un senso a un ensemble jazz con improvvisatori e, nel caso dell'opera, con cantanti. È una proposta piuttosto impegnativa, ma Mat e io ci siamo divertiti moltissimo a prendere la partitura della sua opera e riscriverla per un ensemble più piccolo, dove potevamo includere l'improvvisazione e integrare l'intero arco drammatico dell'opera, che Enescu aveva immaginato in quattro atti. È stato un progetto piuttosto folle, devo dire. Con i canti popolari l'approccio è più viscerale, in un certo senso molto improvvisativo e assai più libero rispetto a lavorare con le partiture di Enescu per l'opera o per i suoi lavori strumentali, i suoi Quartetti per archi, le sonate per pianoforte o le suite orchestrali.
AAJ: Quanto differisce la poetica dei lavori che partono dalla tradizione da quelli in cui lavori su musica originale, tua o dei tuoi collaboratori, come per esempio il recente Blutopia?
LB: Nel caso dei materiali tratti dalla raccolta di Bartók in Transilvania la sfida è conservarne il carattere folk pur introducendo elementi di improvvisazione e di jazz; nel caso di Blutopia o del quartetto Elevation c'è invece un legame diretto e forte con la tradizione jazz, dove si lavora con artisti come Bob Stewart, Alex Harding o Abraham Burton. Il nostro approccio è diverso e riflettiamo sull'intera storia del jazz americano. La poetica potrebbe essere leggermente diversa, ma l'obiettivo è sempre quello di raggiungere un suono completo e adeguato.
AAJ: Con Mat Maneri hai da anni una continua e feconda collaborazione reciproca: lui è presente in molti dei tuoi progetti, tu in molti dei suoi, nonostante chealmeno di principioabbiate approcci progettuali diversi. Cosa vi accomuna e come spiegate una collaborazione così stretta?
LB: Abbiamo entrambi la stessa età, siamo nati nel 1969 e sebbene cresciuti in paesi e regimi diversi, io nella Romania comunista e Mat negli Stati Unitivediamo molte cose in modo analogo, con lenti simili, e amiamo gli stessi musicisti, da Lester Young a Paul Bley, da John Surman ad Andrew Hill e tanti altri, quindi questo ha contribuito molto alla nostra alchimia. Amiamo la spontaneità della musica folk, l'eccezionalità dei nostri eroi del jazz, il suono di Miles, l'intensità di Albert Ayler, la poetica di Jimmy Giuffre e guardiamo alla musica in molti modi uguali. La microtonalità e la libertà di Mat mi hanno influenzato molto e mi piace pensare di aver influenzato anche lui. Lui dice che è così, quindi eccoci qua!
AAJ: Mat, tu sei praticamente sempre presente nei lavori in cui Lucian si dedica alla riscoperta della musica della sua terra: cosa ti affascina di questo lavoro di ricerca?
Mat Maneri: Quando Lucian mi ha proposto questo progetto, ero curioso perché non sapevo fino a che punto Bartók si fosse spinto per registrare e trascrivere la musica popolare della Transilvania. Da violinista, conoscevo certo il repertorio di Bartók, ma non sapevo quanto i canti popolari lo avessero ispirato e cambiato come compositore.
Come improvvisatore, ero molto curioso di approfondire questa tradizione e trovare il modo di incorporare quei canti pieni di sentimento nella mia esperienza di vita. Poter fare questo con Lucian, che stava facendo molte ricerche e studiando la musica dei suoi antenati, è stato ed è tuttora un grande privilegio, che ci ha permesso di approfondire ulteriormente la nostra conoscenza reciproca, anche dopo i molti anni di lavoro insieme.
AAJ: Leggevo su un CD che registrasti trent'anni fa con tuo padre Joe Three Men Walking, con Joe Morris alla chitarra, uscito per ECM nel 1996 che, allora, avresti voluto suonare come lui: oggi, lavorando sulla musica rumena con Lucian e, più in generale, nella tua musica, quanto utilizzi ciò che hai imparato dal lavoro di tuo padre sulla microtonalità?
MM: Mio padre era un americano di prima generazione di immigrati siciliani. In famiglia erano tutti musicisti e mio padre cominciò a suonare ai matrimoni già a 15 anni. Iniziò a imparare diverse culture musicali provenienti dal grande melting pot di New York, che includevano molte tonalità diverse, tra cui i microtoni. Questo lo portò infine a intraprendere una carriera di studio, esecuzione e composizione con i microtoni. Naturalmente questo ha avuto una grande influenza su di me, e ho seguito il suo percorso, cosicché è stato abbastanza naturale per me gravitare verso le inclinazioni microtonali che si ritrovano in gran parte della musica popolare non solo della Transilvania, ma della musica popolare di tutto il mondo. È stata una gioia per me poter riecheggiare mio padre in alcune delle "doina" e trovare nuove tecniche per esprimere queste melodie piene di sentimento.
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