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Bergamo Jazz 2025

Bergamo Jazz 2025

Courtesy Luciano Rossetti

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Bergamo Jazz 2025
Varie sedi
Bergamo
20—23 marzo 2025

"Sounds of Joy" era il sottotitolo di Bergamo Jazz 2025 a indicare "la celebrazione di una comunità musicale nata in mezzo alla gente per la gente." Concetto che Joe Lovano, direttore artistico del festival per il secondo anno, non ha mancato di ripetere alla presentazione di ogni concerto, coadiuvato da Roberto Valentino, non solo capo ufficio stampa ma anche assistente alla direzione artistica. Bergamo Jazz si qualifica come un festival diffuso in tutto il capoluogo lombardo, pur concentrando i concerti dei protagonisti di maggior richiamo al Teatro Sociale nella città alta e al Teatro Donizetti nella città bassa, dove, cosa non più tanto frequente, ogni sera sono stati presentati due gruppi. Va subito detto che quest'anno il programma prometteva molti appuntamenti imperdibili e gli esiti non hanno tradito le attese: se il duo Barry GuyJordina Millà, la solo performance di Aruán Ortiz, il gruppo di Marc Ribot, ma anche il Lux Quartet e la Legacy of Wayne Shorter, hanno rappresentato i vertici memorabili, riservando forti emozioni, tutti gli altri concerti hanno presentato spesso formazioni che non è facile ascoltare in Italia, sempre con risultati più che apprezzabili.

La programmazione al Teatro Donizetti è cominciata nel migliore dei modi, presentando due quartetti omologhi nella formazione—piano, basso e batteria, più sax tenore—e, a ben vedere, anche accomunati da qualche analogia nell'approccio estetico. Con il Lux Quartet, coordinato dalla pianista Myra Melford e dalla batterista Allison Miller, ci si è trovati di fronte ad una delle più rappresentative e mature espressioni dell'attualità, pur radicata nella tradizione jazz più raffinata e consapevole. La scrittura dei brani, a firma della Melford, della Allison e del sassofonista Dayna Stephens, previlegia linee melodiche ben caratterizzate e terse che avviano sviluppi progressivamente incalzanti, lasciando emergere duetti e trii ben caratterizzati oltre agli spazi solistici dei singoli. All'interno del trio ritmico, che ha costantemente costituito un sottofondo portante, onnipresente e propulsivo, fin dalle prime battute si è distinto il drumming efficacissimo della Allison, la cui versatile varietà timbrica ha emanato un senso ritmico pervadente, capace di passare da trame continue e brulicanti a sussulti improvvisi di secca energia.

La pianista sembrava protesa a realizzare un granitico, elegante andamento melodico, dalla nitida ricchezza armonica, approdando talvolta ad essenziali grovigli free. Nick Dunston, il più giovane della compagnia, al contrabbasso si è attenuto all'impianto voluto dalle due co-leader, aggiungendo colori e pulsazioni opportuni; anche Stephens, al tenore ha sostenuto un ruolo attinente, tutt'altro che da protagonista, nel rispetto delle rigorose strutture perseguite dalla formazione, esponendo una pronuncia lucidamente disegnata. In sintesi quello che ha denotato la musica di questo gruppo è stato soprattutto una costruzione sempre intensa e vigile, pur evidenziata dall'aperto atteggiamento improvvisativo del collettivo; un po' come accadeva anche nelle più vive espressioni del cool storico.

Sul palco del Donizetti ha poi fatto seguito il progetto Legacy of Wayne Shorter, vale a dire il collaudatissimo trio degli storici accompagnatori del sassofonista scomparso -i formidabili Danilo Pérez, John Patitucci e Brian Blade—affiancato da Ravi Coltrane. Apparentemente il quartetto sembrava proteso verso un'improvvisazione più spontanea e sfrangiata; in realtà anche in questo caso è prevalsa la costante struttura compositiva dei brani rivisitati, basati su tempi lenti e temi meditativi, che ha indirizzato verso un'improvvisazione sempre tenuta sotto controllo, nitidamente organizzata, mai plateale. Perez ha inanellato linee pianistiche appena accennate, malinconiche, a volte nostalgiche, abbandonandosi raramente a martellanti accordi scanditi. L'impiego del contrabbasso da parte di Patitucci, sia al pizzicato che ricorrendo all'archetto, è stato di intelligente raffinatezza, quasi appartato, insinuante. Anche il drumming di Blade, mai in veste di invadente protagonista, si è imposto con squisita sensibilità. Infine Ravi Coltrane, ormai prossimo ai sessant'anni, non ha certo impersonato la figura del mattatore, ma si è mantenuto con grande sapienza interpretativa all'interno del ruolo di responsabile comprimario assegnatogli.

La performance di questo quartetto ha profuso un approccio pacato e immaginifico, intriso di poesia autentica, rifuggendo da qualsiasi soluzione risaputa. Una sorpresa finale ha portato alla ribalta Lovano col suo soprano, che, sul sottofondo movimentato e ondivago fornito dal trio, ha intrecciato battute e assoli con Coltrane, introducendo una nota di partecipata estroversione prima insospettata.

La sera seguente, l'apparizione al Donizetti dei Fearless Five di Enrico Rava ha ribadito le note caratteristiche del gruppo. Dopo le divagazioni introduttive un po' sfrangiate, tramate dai giovani partner, i temi inconfondibili del leader, di ieri o più recenti, sono stati riproposti dal trombettista, coadiuvato dal trombone di Matteo Paggi, talvolta con inflessioni forse più decise di un tempo. Gli interventi solistici del trombonista, come anche quelli di Francesco Diodati alla chitarra, veterano del gruppo, si sono rivelati particolarmente dirompenti e brucianti. Sempre a loro è da attribuire qua e là l'inserimento di effetti elettronici, tali da apportare un'opportuna integrazione sonora, efficace e mai invadente, mentre Francesco Ponticelli al contrabbasso ha sostenuto con sicurezza le parti d'accompagnamento, esprimendo uno spiccato senso melodico negli assoli. Al drumming di Evita Polidoro è da riconoscere un'esemplare sensibilità di tocco, senza debordare in sortite tonitruanti. Quanto all'ottantacinquenne leader, sia alla tromba che al flicorno si è profuso in interventi essenziali e centrati, sempre dotati di una pronuncia personalissima. Circa a metà concerto Lovano, nuovamente invitato sul palco, si è disinvoltamente introdotto nelle trame di un brano, dando luogo a uno sgargiante interplay con i membri del gruppo.

The Cookers, gruppo nato un quindicennio fa desumendo il nome dal titolo di un album di Lee Morgan del 1958, vanta sei dischi all'attivo e si propone di mantenere vivi il tipico interplay, l'esuberante comunicativa e la pronuncia strumentale ben personalizzata di un jazz moderno in senso lato, che è divenuto l'emblema stesso del messaggio jazzistico. Il settetto presentato a Bergamo era pilotato dal trombettista David Weiss, il più giovane della formazione, ed era completato dall'altro trombettista Eddie Henderson, dai sassofonisti Donald Harrison e Azar Lawrence, da George Cables al piano, Cecil McBee al contrabbasso e Billy Hart alla batteria. I brani eseguiti, lunghi e articolati, sono stati in tutto cinque compreso il bis: tre a firma di Cables, uno di McBee ed uno di Freddie Hubbard.

Sempre perfettamente funzionale, solida e propulsiva è risultata la sezione ritmica, formata per altro dai più anziani della compagine, in cui è emerso soprattutto il lavoro infallibile di Hart. Sul tessuto da loro tramato si sono distesi i brani e gli sviluppi improvvisativi dei colleghi, fra i quali si è distinto il rapporto complementare fra i due sax: al sound brillante e al fraseggio guizzante del contralto di Harrison si è contrapposto l'eloquio del tenore di Lawrence, pieno, lirico ed evocativo, esasperato verso progressioni di maniera coltraniana. Sarebbe sbagliato parlare genericamente di mainstream; in questo caso è forse più appropiato riconoscere quell'evoluzione delle modalità dell'hard bop in voga dalla fine degli anni Sessanta, come oggi viene riletta e attualizzata appunto da chi fu protagonista di quella stagione e di quell'approccio.

Con Hurry Red Telephone, l'attuale quartetto di Marc Ribot, si è materializzato un calderone sonoro sulfureo, a tratti disorientante. Dalle primissime battute è emersa una musica ferocemente collettiva, in cui i temi ben scanditi dal leader si sono trasformati in scintille incandescenti, includendo una ben nota marcetta ayleriana. Sebastian Steinberg, un redivivo Leonardo da Vinci in veste di contrabbassista, e il perentorio Chad Taylor alla batteria somministravano un groove imperterrito, mentre quello che risultava difficile distinguere era il contributo della seconda chitarra nelle mani di Ava Mendoza. Ad aumentare la congestione sonora è stata ancora una volta l'entrata di Joe Lovano, che in alcuni spunti ha saputo inserirsi in sintonia con l'ambito armonico del momento, in altri sembrava svolgere un'azione di disturbo. Dopo l'uscita di scena del sopranista tutto è risultato più leggibile e coerente: i temi decisi, gli interventi poderosi di basso e batteria, le dirompenti invenzioni di Ribot ed anche il complementare lavoro della Mendoza, insistito su sequenze ronzanti e vampate corrosive.

Nel concerto del settantenne chitarrista e cantante di Newark non poteva mancare un momento di esplicito impegno politico, che nel bis si è tradotto nella sua sghemba versione di "Bella ciao," ovviamente indirizzata a "quel fascista che oggi gli americani, e non solo, si trovano al potere." L'iniziale enunciazione deformata e pacata del canto ha poi lasciato il posto all'esasperato crescendo conclusivo con esiti emozionanti e drammatici. Ai saluti finali, quando il leader ha ripetuto con insistenza "Resist, resist, resist...," "Leonardo da Vinci" aveva le lacrime agli occhi.

Merita un'attenzione particolare una serie di duo diversissimi fra loro ma per varie ragioni molto intriganti. Per la prima volta è approdato a Bergamo il maestro dell'improvvisazione contrabbassistica Barry Guy e lo ha fatto al Teatro Sant'Andrea assieme alla pianista catalana Jordina Millà. Il duo, già collaudato e con due dischi alle spalle, ha profuso un set d'improvvisazione esaltante, modulato istantaneamente sulla base di intenzioni condivise, di un rispecchiamento continuo delle modalità espressive, degli andamenti dinamici e degli ambiti armonici, dando corpo ad inscindibili corrispondenze umorali-emotive. La duttilità della tecnica senza confini di Guy gli ha permesso di passare velocemente da un'idea a un'altra, senza soffermarsi su una situazione innamorandosene, ma lasciando subito il posto ad una seconda magari di segno contrario. È stupefacente assistere alla sequenza di irruente invenzioni emanate dal settantasettenne contrabbassista inglese, che ha confermato tutta la creatività che già ci aspettavamo.

La sorprendente novità è venuta invece dal contributo della più giovane partner, di formazione classica con studi a Barcellona e Rotterdam. Il suo ruolo è stato del tutto paritario e costruttivo, mettendo in campo atteggiamenti tecnico-espressivi altrettanto incisivi: magistrali sono risultati gli interventi sulla cordiera preparata ed anche le sue scorribande di potenza inaudita sulla tastiera. In definitiva ci si è trovati di fronte a una performance che non è il caso di definire jazzistica nel senso comune del termine, ma piuttosto un'improvvisazione di musica contemporanea, vitalissima e frastornante.

Il magico scenario dell'Accademia Carrara, più precisamente la sala dedicata a Fra Galgario e al realismo lombardo del Settecento, ha accolto il duo Sara Calvanelli—Virginia Sutera, che ha al suo attivo il disco Ejadira, inciso dal vivo in Italia ma edito nel 2023 dalla norvegese Losen Records. Da allora il duo ha avuto occasione di esibirsi più volte, ma non con quella frequenza che avrebbe rischiato di rendere il loro sodalizio routiniero. A Bergamo un affiatamento naturale, un'improvvisazione perenne e sinergica hanno permesso loro di inventare temi, suggestioni, citazioni, suggerimenti e riprese in un itinerario pieno di sorprese, transitando attraverso cadenze della musica barocca, danzanti movenze d'ispirazione folclorica, brevi accenni rumoristici... La Calvanelli, nella veste di una vera e propria one woman band, ha goduto di intermezzi solitari in cui il canto era affiancato dall'uso simultaneo di strumenti di varia origine—fisarmonica, harmonium indiano, cajon ed altro ancora—replicati dall'uso del loop, ottenendo esiti trascinanti. Dal canto suo la Sutera, dotata di una tecnica solida e cangiante, sul suo violino ha esposto virtuosismi mai fini a se stessi e slanci evocativi, eccentriche ricerche timbriche e melodiche sequenze, impostando di volta in volta un rapporto di assonanza o contrapposizione con la partner.

Alla Sala Piatti si è esibito un altro duo nato di recente, questa volta solo pianistico, formato da Tania Giannouli e Nik Bärtsch, già presentati a Bergamo in solo performance rispettivamente nel 2022 e 2023. In questo caso l'affiatamento è stato assicurato dai riferimenti a sicuri impianti compositivi, a schemi d'impronta minimalista e a suggestivi temi melodici di influenza folclorica, in particolare mediterranea, per altro già ripresi anche in famose composizioni di musica classica. Inoltre è intervenuto un preordinato scambio dei ruoli, affrontando alternativamente la funzione di esposizione solistica e quella di sostegno. Se la pianista greca ha previlegiato un'energica concretezza introducendo citazioni folcloriche, l'elvetico era più proteso alla ricerca di strutture minimaliste e di forbiti virtuosismi pianistici. Ne è sortita una conduzione avvolgente e ipnotica, che ha alternato aree di lenta, struggente poesia e possenti sequenze percussive, reiterazioni di ridondante determinazione e spunti di esile rumorismo, timbricamente ricchi, anche per via dell'intelligente ricorso ad espedienti sonori anomali sulle cordiere. Il tutto ha garantito un risultato comunicativo ed estetico di sicuro impatto.

La solo performance di Aruàn Ortiz, che ha aperto il festival con un concerto pomeridiano al Teatro Sant'Andrea, ha riproposto brani contenuti nel suo album Cub(an)ism inciso nel 2016, integrandoli con appunti più recenti da inserire nel prossimo disco da incidere sempre per la Intakt. In realtà si è assistito ad un'improvvisazione senza soste, movimentata e rigorosa, concepita con grande concentrazione secondo forme fortemente stagliate e contrastanti. Le iniziali austere situazioni armoniche e melodiche hanno introdotto turbolente aperture free, per volgere verso insistenze minute sul registro acuto. Ha poi fatto seguito un'improvvisazione in cui il motivo del monkiano "Skippy," citato dalla mano destra, è stato frammentato, rallentato, raggelato e affogato in una palude di accordi melmosi sul registro grave. Poi ancora scorribande free, soste meditabonde, serie di accordi robusti su ampi intervalli, temi scultorei... Più che in altri contesti la prova di Ortiz ha costruito un percorso musicale accidentato e indubbiamente personale, corrusco, a tratti forse un po' introverso, ma frutto di una ricerca autentica e profonda, sedimentata da decenni di esperienza pianistica.

Una doverosa menzione meritano altre proposte del festival, che cercherò di commentare in modo più sintetico senza eccedere in pedanti descrizioni. Alla testa di un trio completato dai bravi Ameen Saleem al contrabbasso e Jeff Ballard alla batteria, Antonio Farao ha aperto la programmazione al Teatro Sociale con il suo ultimo progetto Tributes, che intende rendere omaggio ai maestri che più lo hanno influenzato. Rispetto alle altre apparizioni del recente passato il suo panismo è sembrato relativamente più trattenuto, pacato, a tratti nostalgico. Qualche brivido in più si è avvertito con l'entrata in scena di Lovano, che ha intrecciato una chase scatenata con Ballard sulle note di "Softly as in a Morning Sunrise."

Di segno del tutto opposto è stata la proposta del trio Stick Men, in cui è stata l'elettronica a dominare. Tony Levin e Markus Reuter erano alle prese con lo stick, versatile tastiera verticale a otto o dieci corde inventata negli anni Settanta da Emmett Chapman. Scambiandosi alternativamente i ruoli di bassista e di chitarrista, essi hanno sprigionato fiammate di suono pervadente e riverberante, con effetti visionari, mentre al centro del palco troneggiava la batteria, suonata da Pat Mastelotto con metriche ed energia tipicamente rock. Tutto in questo collaudato progetto, dal repertorio al sound cangiante e denso, dal ritmo perennemente concitato alla comunicativa enfatica, celebrativa e ridondante, apparteneva all'estetica dell'experimental-hard rock.

All'Auditorium di Piazza della Libertà si sono ascoltati due gruppi giovani guidati da jazzisti britannici. Nel recente progetto La Via del Ferro il sassofonista Alex Hitchcock ha cooptato a Londra gli italiani Maria Chiara Argirò e Michelangelo Scandroglio, rispettivamente pianista e contrabbassista, e il batterista Myele Manzanza, proveniente dalla Nuova Zelanda. I temi dell'uno o dell'altro, basati su una certa semplicità melodico-ritmica, ma protratta in graduali crescendo, hanno prodotto un senso avvolgente e ipnotico, mettendo in evidenza una precisa visione collettiva in cui si è stagliata la voce limpida e sempre controllata del tenore del leader.

Una musica fresca è venuta anche dal Dialect Quintet, formazione italiana raccolta dal pianista Alexander Hawkins, che è il maggior responsabile delle composizioni. Gli iniziali temi-riff ritorti su se stessi hanno generato evoluzioni collettive e rituali, ribadite da tutti gli strumentisti all'unisono. In questo contesto è stato il drumming imperioso, energicamente scandito della bergamasca Francesca Remigi ad emergere come un assolo continuo. Fra progressive accensioni e passaggi rarefatti, fra momenti di concreta pienezza e brevi, malinconiche sedimentazioni, hanno poi avuto modo di mettersi in luce anche gli altri musicisti: il chitarrista Giacomo Zanus con un tocco sgranato e selettivo, Camila Nebbia sul suo tenore dal sound scuro e scabro e dal fraseggio prevalentemente free, il contrabbassista Ferdinando Romano, encomiabile presenza costante. Ovviamente anche Hawkins, oltre che nella funzione di regista motivante, si è ritagliato spazi solistici di movimentato pianismo, a tratti di essenziale lirismo.

Rimane da riferire delle due signore del canto jazz presenti al festival. Il confronto a distanza fra loro ha rivelato differenze sostanziali di repertorio, di tradizione d'appartenenza e di approccio interpretativo, anche se a mio parere nessuna delle due ha dato il meglio di sé. Al Teatro Sociale, Lizz Wright ha confermato le sue qualità vocali, che affondano le radici nella tradizione del blues, del Gospel e del Folk: un timbro profondo e vibrante dalle inflessioni brunite, un eloquio narrativo pigro e confidenziale, una leadership distaccata ma autorevole nei confronti dei quattro idonei partner. Il suo canto non ha mancato di donare momenti di struggente partecipazione emotiva, tuttavia il concerto si è protratto in modo troppo uniforme, senza picchi notevoli.

Dianne Reeves invece, che ha chiuso Bergamo Jazz 2025 al Teatro Donizetti, fa parte di una tradizione che vuole coinvolgere l'ascoltatore con inflessioni suadenti e una narrazione calorosa e amichevole, senza escludere un ampio ricorso allo scat e a cadenze più dinamiche e swinganti. Bisogna però constatare che la Reeves di oggi ha perso in parte il proverbiale smalto della sua personalità e anche l'intonazione non sembra più perfetta come un tempo. Il quartetto che la sosteneva, in cui spiccava la presenza di Romero Lubambo alla chitarra, ha svolto un accompagnamento pertinente, soft, leggiadro, anche se non in grado di corroborare più di tanto la performance. Non poteva mancare l'ennesima chiamata in scena di Lovano, che in un brano ha dialogato con la cantante. Nell'intero festival quindi ammontano a cinque le sue apparizioni come ospite, dando quasi l'impressione che al sempre bravo sassofonista stesse stretto il ruolo di direttore artistico, oltre a quello di presentatore improvvisato, tanto succinto quanto ripetitivo e gigionesco.

Purtroppo, e me ne rammarico, non sono riuscito a seguire i concerti dei meritevoli giovani italiani proposti dalla sezione Scintille di jazz, ma il programma era già fin troppo fitto di eventi di ottima qualità. È difficile ricordare un'edizione di Bergamo Jazz, e di qualsiasi altro festival, di pari livello qualitativo; la varietà delle proposte, accolte in sedi opportune in varie parti della città, ha confermato la multiforme vitalità dell'attualità jazzistica, documentandone alcune eccellenze.

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