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Esmeralda Sella, pianista per caso o per destino

Esmeralda Sella, pianista per caso o per destino

Courtesy Caterina Di Perri

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Nella musica bisogna scavare davvero a fondo, vivendo sacrificio e fatica come pietre preziose del percorso.
—Esmeralda Sella
Nata a Ravenna, appassionata di jazz, di culture popolari e di improvvisazione radicale, Esmeralda Sella ha appena pubblicato il suo primo disco da leader, Magma (Auand Records), alla testa di un trio completato dal contrabbassista Federico Giolito e dal batterista Giovanni Nardiello.

Partiamo dall'antefatto di questa intervista. Quando, qualche mese fa, Marco Colonna pubblicò su Bandcamp Generative, un album registrato durante una pausa delle lezioni di Siena Jazz, descrisse Esmeralda Sella come «una pianista di livello siderale, per presenza, forza dell'eloquio, originalità di soluzioni e capacità espressiva. Una pianista di cui sentirete parlare». Ricordo che, leggendo queste note, feci un salto sulla sedia ed esclamai: "Ah, ecco, allora non era solo una mia impressione!." Perché, qualche tempo prima, avevo incontrato Esmeralda un paio di volte. La prima durante una jam session e, senza sapere minimamente chi fosse, mi aveva colpito molto. Ma eravamo sul palco e suonava dietro di me, quindi rimasi col dubbio che fosse solo un'impressione. Poco dopo, però, restai ancora più colpito vedendola in azione durante un set nelle improvvisazioni "a catena" organizzate all'Antisa lotto Culturale di Firenze. Trovai le sonorità che produceva sul pianoforte preparato davvero straordinarie. L'uscita del suo primo disco ha quindi offerto l'occasione giusta per entrare nel mondo musicale di questa ventottenne di grandi promesse.

All About Jazz: Partiamo dalle tue origini, sia personali che musicali.

Esmeralda Sella: Vengo da Ravenna, ma sono di origini siciliane. Ho cominciato a suonare il pianoforte a sei anni, cosa che—curiosamente—non ho fatto né per un desiderio personale di iniziare a suonare, né tantomeno di suonare il pianoforte: è stato piuttosto un desiderio di mio fratello, che già suonava la chitarra, e che disse a mia madre che anch'io avrei dovuto suonare. Mio fratello è un punto cardine nella mia vita musicale, perché mi ha dato indicazioni precise nei momenti in cui era giusto e necessario riceverle.

Il pianoforte è stato una scelta altrettanto casuale—o dettata dal destino, a seconda di ciò in cui si crede. Ricordo che mi fecero provare tutti gli strumenti e alla fine mi dissero che avrei suonato il piano. Iniziai, e non ho mai smesso. All'inizio c'è stata una lunga, lunghissima storia con la musica classica, che per me resta un amore infinito; ma già da bambina, verso i tredici o quattordici anni, compresi che non mi sentivo completamente a mio agio nel seguire quella strada. Gioivo per l'attenzione che ricevevo per come suonavo, per la cura che dedicavo al suono—cura che, con profonda umiltà, ancora oggi riverso nella musica—ma percepivo una certa rigidità. Dover eseguire tutte le note giuste, rispettare le indicazioni scritte, era qualcosa che mi creava difficoltà emotive.

Questo alla fine mi ha portato a interrompere quel percorso, anche grazie al grande sostegno di mia madre, che mi dava forza e coraggio nei momenti di crisi, finché non intervenne nuovamente mio fratello dicendo: «Secondo me tu devi fare jazz». Io non sapevo neanche cosa fosse il jazz: avevo diciott'anni e non lo avevo mai ascoltato! Ma è stato proprio allora che andai a studiare a Bologna, dove ho scoperto questo nuovo mondo, innamorandomene.

All'inizio rimasi ingenuamente colpita dal fatto che nel jazz i brani fossero brevi, dopo anni passati a imparare a memoria sonate e opere lunghe e complesse! Non ci volevo credere, ero contentissima! Poi, col tempo, ho capito che lo studio del jazz era di tutt'altro tipo rispetto alla classica, e ho incontrato diverse difficoltà. Probabilmente anche perché mi ci sono avvicinata con la mentalità del passato, quella di uno studio basato su una quantità di ore che oggi definirei "tossica": mi svegliavo alle sei, andavo in bicicletta al Conservatorio—in giro c'eravamo solo io e pochi altri stacanovisti! —, finivo alle sette di sera, tornavo a casa, mangiavo e ricominciavo a studiare o ad ascoltare... ascoltavo tantissima musica, cosa che oggi mi manca. Insomma: tanta passione, sicuramente.

Piano piano ho trovato la mia strada, e ho scoperto il piacere di suonare con altre persone, cosa che avevo fatto poco, perché lo studio della musica classica consiste soprattutto nel rapporto tra me e il pianoforte. La relazione con gli altri mi ha fatto molto bene sotto ogni punto di vista, soprattutto quello umano, aiutandomi ad aprirmi. Con il tempo è arrivata Siena, per me luogo di grande rivoluzione umana e musicale. Tengo a sottolineare la fortuna e l'onore di aver fatto la fase di ammissione con Alessandro Giachero, poco prima che morisse.

La mia vita a Siena è cambiata completamente: la conoscenza diretta di tutti gli insegnanti, il metodo della scuola—basato fondamentalmente sulla pratica strumentale—e i musicisti che ho incontrato lì sono stati elementi necessari e preziosi per la mia crescita. L'incontro con Stefano Battaglia, in particolare, è stato decisivo perché mi ha dato una direzione nell'improvvisazione, pratica che mi ha aiutata ad approfondire la conoscenza di me stessa, comprendendo sempre di più ciò che accade tra il mio mondo interiore e la relazione con gli altri.

AAJ: Quanto sei stata in contatto con Alessandro Giachero e quanto hai lavorato con lui?

ES: Con Alessandro c'è stata una relazione di grande rispetto e stima, purtroppo non maturata nella vita quotidiana, perché a Bologna insegnava pianoforte complementare, mentre a Siena l'ho visto soltanto durante l'ammissione, poco prima che morisse. Ho vissuto Alessandro indirettamente, attraverso i racconti e i ricordi delle persone con cui suonava, che lo amavano e lo stimavano molto. Poi, quando grazie a Marco Colonna ho deciso di costituire un collettivo con un collega contrabbassista, ho voluto appendere all'ingresso di Siena Jazz un cartellone con una frase di Alessando che trovo autentica e profonda e che ogni musicista dovrebbe conoscere. Riguardava il dovere degli artisti, e dei musicisti in particolare, di «vivere la propria creatività con onestà e verità, esprimendo il proprio mondo interiore con la consapevolezza che l'arte va sviluppata e che la ricerca è alla base di questo sviluppo» e che «solo lo studio e la ricerca continua permettono di non avere limiti nell'accettare qualsiasi pratica improvvisativa».

AAJ: Ti chiedevo di Giachero perché, per quanto può valere il mio orecchio, ascoltandoti nel tuo recente disco mi sembra di sentire più lui di Battaglia. E invece Stefano cosa ti ha dato?

ES: Entrambi sono stati certamente Maestri nel mio cammino, come diverse altre figure. Come dicevo, la relazione umana e musicale con Stefano è stata fondamentale: attraverso la sua pazienza, il suo ascolto e la sua capacità percettiva, ho trovato una luce che ho seguito con fiducia. Desideravo andare in profondità, ma non avevo gli strumenti, e ciò che mi trasmetteva rispondeva esattamente a questa esigenza. Attraverso dialogo e confronto ho compreso che nella musica bisogna scavare davvero a fondo, vivendo sacrificio e fatica come pietre preziose del percorso.

È una cosa che non saprei spiegare a parole, ma posso indicarla attraverso la mia esperienza: prima, quando ero seduta al pianoforte a fare ricerca improvvisando, scrivendo strutture, componendo o studiando jazz, sentivo la necessità di fuggire, di allontanarmi fisicamente dallo strumento per qualche momento. Era faticoso restare ferma e concentrata dentro me stessa attraverso la musica. Invece la cosa decisiva è proprio il restare concentrati e "fermi..." suonare con pazienza, registrarsi, riascoltare, sviluppare un proprio pensiero su ciò che accade. È fondamentale per sviluppare un'autocritica, che ora ho, e che spero sia il più "oggettiva" possibile. Provo gratitudine profonda per Stefano e per tutte le persone che ho incontrato lungo il percorso, ugualmente significative e profonde.

AAJ: A giudicare da Magma, sei generosa: sono molti i momenti in cui lasci campo libero ai tuoi compagni. È il tuo trio, ma è anche una formazione decisamente paritetica, nella quale Federico e Giovanni si prendono il loro spazio, e lo fanno con grande autorevolezza e originalità. Ti chiederei quindi, lasciando da parte i brani esplicitamente improvvisati: quanta improvvisazione c'è nelle tue composizioni di Magma e in che modo hai costruito e vivi questa musica—come compositrice, strumentista e leader?

ES: Ogni brano è stato scritto in fasi e per motivazioni diverse. Dal punto di vista compositivo ho utilizzato vari tipi di modalità. Per esempio, attingendo all'alfabeto per associare lettere e note, come nel caso di "To Flores" il cui tema è basato su nome, cognome e data di nascita di Luca Flores. "Cancro," invece, nasce da un pretesto emotivo: non riuscendo a esprimere il dolore per la malattia che stava affrontando una persona cara, ho composto un tema molto introspettivo e sofferente, adattandolo agli studi poliritmici che stavo approfondendo in quel periodo. "Rajik" è nato da esplorazioni armoniche. Altri brani sono nati ritmicamente, risolvendo la parte ritmica prima di occuparmi della melodia, come "Studio 1-Segmenti" o "Studio 2-Vijnanabhairava."

Lo studio dei parametri musicali nell'improvvisazione mi ha aiutato molto a utilizzare con consapevolezza gli elementi musicali in fase compositiva, lavorando secondo priorità che mi autosuggerivo e semplificando così il processo.

Il risultato non sarebbe stato lo stesso senza il prezioso apporto del confronto umano e musicale con il trio. È stato un lavoro senza dubbio democratico, nel quale l'improvvisazione è il punto cardine. La conclusione è che i brani si adattano al momento, plasmati da un'improvvisazione che non smette mai di trasformare e mutare il materiale compositivo, rendendolo accessibile al qui e ora.

AAJ: Hai affermato che questo disco ti è servito per conoscere meglio te stessa. Cosa intendi?

ES: Sia questo disco sia quello in piano solo registrato in contemporanea e che prima o poi vorrei pubblicare, Ijò, sono stati fondamentali per la conoscenza di me stessa. Da un punto di vista umano è stato complesso decidere di registrare—cioè fissare nel tempo qualcosa che per definizione è sfuggente, perché accade in un determinato momento e mai più—e guidare un progetto verso una direzione. Il periodo necessario per acquisire certe capacità organizzative, gestionali e decisionali è stato molto formativo dal punto di vista caratteriale.

Inoltre la ricerca musicale ha ovviamente contribuito ad acuire e accelerare il processo di scoperta interiore, ponendosi come uno specchio che avanzava parallelamente e che mi dava risposte su me stessa. Quando affronto una tematica—sia la composizione, sia l'improvvisazione, sia il riarrangiamento di brani africani e religiosi nel caso del piano solo—c'è sempre e comunque Esmeralda dentro. Siamo anche ciò che facciamo, quindi quando suono e ascolto comprendo meglio come sto, cosa accade nella mia vita, nel mio corpo e nella mia anima. Sono tanti gli aspetti che si intrecciano nell'agire artistico, che praticato con costanza ti cambia e ti dona consapevolezza.

AAJ: Che rapporto hai oggi con la musica classica? E quali musicisti hanno lasciato tracce sulla tua poetica?

ES: È una domanda che mi fanno spesso e ogni volta riaffiorano nuove reminiscenze. Posso parlarti dei miei amori musicali nel corso del tempo, anche se oggi mi sento sempre più selettiva. Da un lato me ne dispiace molto, dall'altro è forse la ragione per cui è nata l'urgenza di fare ricerca nella musica tradizionale e popolare, dove ho percepito un'energia e una sincerità che oggi risuonano in me con più forza. Ho imparato ad ascoltare la musica classica quando ho smesso di suonarla quotidianamente. Stimo profondamente Glenn Gould e mi commuovo per ogni nota di Beethoven, secondo me uno dei più grandi geni della storia. Ho un'anima molto romantica e adoro tuttora ascoltare e suonare Liszt, Debussy, Rachmaninov e Chopin.

Nel jazz mi affascinano soprattutto John Coltrane, Miles Davis, Elvin Jones, Tony Williams, Chet Baker, specialmente quando canta, e Billie Holiday. Di Michel Petrucciani, per la potenza del colpo di fulmine che fu per me, mi tatuai persino una melodia. Fu tra i primi pianisti jazz che ascoltai, insieme ad Art Tatum e Bill Evans.

AAJ: Interessante, perché hai citato la tradizione classica del jazz, mentre tu ti muovi su un piano abbastanza diverso, più libero, più contemporaneo.

ES: Una figura meno tradizionale che amo molto è Ran Blake. È uno di quei musicisti che riescono a sorprendermi ogni volta che li ascolto, così come Thelonious Monk, Geri Allen, Paul Motian, Harmen Fraanje, Ernst Reijseger, Alfonso Santimone, Ambrose Akinmusire e Misha Mengelberg. Ciò che apprezzo di più in questi artisti è la loro presenza ed energia, qualità che oggi trovo sempre meno frequentemente—in me stessa, innanzitutto, ma anche nella musica che ascolto. Percepisco sempre meno urgenza espressiva, quella che invece ritrovi, ad esempio, in Coltrane, al quale sicuramente l'energia non mancava.

AAJ: Beh, certo, confrontandosi con un personaggio come Coltrane è difficile sentirsi all'altezza... Però, a giudicare da quel che raccontavi prima, energia e urgenza non mi sembrano mancarti. Un'ultima domanda, un po' scherzosa: ma suoni sempre scalza?

ES: Sempre, ed è anche complicato. Immagina le battute che ricevo durante le prove o i concerti! La ragione è tecnica, una questione di contatto tra il piede, il suolo e il pedale. A un certo punto della mia vita, dopo aver imparato a usare i tacchetti, come nella classica, ho provato a suonare scalza e ho capito che era l'unico modo possibile per percepire pienamente il movimento del corpo e dello strumento.

AAJ: Quindi è proprio un'esigenza percettiva, tattile?

ES: Assolutamente sì!

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