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Zlatko Kaučič: il rigore della libertà

Courtesy Marcandrea
Nella musica improvvisata si tratta di investire tempo ed energie per capire chi sei: uno schiavo della musica che impara i sistemi e si mette al loro servizio, oppure un musicista che vuol essere libero e suona una musica che si rinnova ogni volta.
Zlatko Kaućić
All About Jazz: Negli ultimi anni hai dimostrato una straordinaria produttività, pubblicando numerose registrazioni di spettacoli improvvisati, in particolare con collaboratori storici come Joëlle Léandre, Elisabeth Harnik, Agusti Fernandez e Barry Guy. Molti di questi lavori sono confluiti in vari cofanetti a loro nome e, di recente, Inklings, pubblicato per celebrare i tuoi settant'anni. Si tratta di sessioni interamente improvvisate, quasi sempre di altissimo livello. Qual è il segreto dietro il successo delle tue improvvisazioni?
Zlatko Kaučič: Non saprei dirlo con certezza! Come sai, l'improvvisazione non è l'unico ambito in cui lavoro. Da oltre venticinque anni insegno a Nova Gorica, dove ho sviluppato il progetto Kombo con i miei allievi, una musica completamente diversa, anche se certe persone non lo capiscono. Forse è proprio questa apertura a diverse espressioni musicali a rendere possibili momenti così speciali.
AAJ: Raccontaci del cofanetto Inklings.
ZK: Non è il primo progetto di questo tipo. Nel 2018, per i miei quarant'anni di carriera, avevo pubblicato Diversity con NotTwo, un cofanetto di cinque CD. Queste raccolte mi permettono di condividere concerti particolarmente significativi con un pubblico più ampio. Per tornare alla tua prima domanda, non tutte le improvvisazioni riescono bene, ma quelle con musicisti con cui ho un legame profondo, come Agusti Fernandez o Barry Guycon i quali abbiamo in comune la cultura e l'esperienza degli anni Settanta e Ottantaspesso raggiungono un livello speciale. Con il mio amico Agusti, per esempio, ho lavorato fin da allora, perché anch'io vivevo a Barcellona, dove suonavo in un club nel quale passava di tutto, dalla Globe Unity a jazzisti come Tete Montoliu, tanto per fare degli esempi. È là che ho cominciato a conoscere e lavorare con altri grandissimi musicisti, con alcuni dei quali oggi suono e registro, o che invito al mio festival per far fare loro degli workshops per i miei allievi e per tutti i musicisti che vogliano capire il loro modo di lavorare.
Per questi workshops preferisco infatti invitare musicisti esperti, un po' perché li conosco bene e so cosa possano dare, un po' perché per l'insegnamento l'esperienza è ancor più fondamentale della bravura.
Riguardo ai quattro dischi di Inklings, ero inizialmente incerto sulla loro pubblicazione. Vivo con un cancro da cinque anni, e a volte questa condizione mi rende ipercritico. Tuttavia, sono soddisfatto, soprattutto della registrazione con Fernandez e Guy al Festival di Lubiana del 2022, un concerto memorabile. Gli altri, sì, sono carini... Del resto non sono più tutto "Me, Myself and I": faccio quel che mi dice il cuore e perciò approfitto di questo periodo in cui sono ancora sulla terra per pubblicare alcune delle tante, tantissime cose che ho raccolto nel corso degli anni e che non sono ancora state pubblicate. Ho un sacco di materiale davvero fantastico, con Paul Bley, con Steve Lacy, con Albert Mangelsdorff, ma non credo che li pubblicherò, perché non voglio approfittare dei loro nomi. Forse per qualcosa potrei chiedere il consiglio e l'autorizzazione, per esempio a Irene Aebi per la musica di Steve, ma il resto credo resterà lì, magari qualcuno vorrà farne qualcosa dopo di me.
AAJ: Concordo, il disco con Fernandez e Guy è straordinario, ma trovo che anche gli altri siano molto più che "carini." In particolare, la registrazione con Axel Dorner mi ha colpito per il nitore dei suoni e il rigore dello sviluppo, dettagli che dal vivo, quando avevo assistito a quel concerto, non avevo colto pienamente. Quanto al tanto materiale che dici di avere, anche storico e con musicisti mitici con Bley e Lacy, non credo si tratti di sfruttare la loro immagine, ma di condividere musica di valore. Non pensi sia un peccato lasciarla inedita?
ZK: Ti ringrazio, ma per me il rispetto dei valori è fondamentale. Tra musicisti, si parla sempre di consenso e chiarezza, soprattutto per le questioni di royalties. So bene che ci sono tante case discografiche che passano sopra a tutto questo, ma io non ho voglia di farlo. Qualcuno me l'ha anche chiesto, ma io non mi sento ancora pronto. E questo non per la qualità della musica, che spesso è bellissima e non di rado anche incisa bene, come nel caso di un concerto con Lacy a Radio Capodistria, oppure di uno con Paul Bley e Paolino Dalla Porta a Maribor.
AAJ: Come stai vivendo la tua malattia?
ZK: Con serenità, accettando i limiti che comporta. Al momento la situazione è stabile, anche se i farmaci mi danno qualche effetto collaterale, come una sensazione di leggera ebbrezza. A giugno, per esempio, sono caduto dalla biciclettail mio mezzo di trasporto preferitorompendomi un mignolo in due punti. Ho preso la cosa con leggerezza, pensando: "Bene, due mesi di riposo!." E poi, prendendola in questo modo, ho finito per scoprire che con la sola mano sinistra si possono fare un sacco di cose che non sapevo! Perché anche gli incidenti, così come una malattia, ti fanno scoprire altre cose della vita che altrimenti ti sarebbero precluse.
AAJ: Hai già ripreso a suonare?
ZK: Certo! Ho ripreso a esercitarmi e presto suonerò a "Musica in Villa" la rassegna che si tiene a Villa Ottelio Savorgnan, con musiche ispirate alle poesie di Srečko Kosovel, insieme ai miei ragazzi. Poi porteremo il progetto Pogum Pogumnih (Audaci Coraggiosi) alla stazione di Nova Gorica, in un concerto che riflette sul passato di Gorizia/Nova Gorica, città che è la Capitale Europea della Cultura 2025, toccando temi di conflitti e memorie storiche. La musica sarà simile a quella presentata al festival Jazz & Wine of Peace, ma con nuovi riferimenti extramusicali. Non so definire questo genere: è la mia musica, senza etichette.
AAJ: Il Kombo e i tuoi allievi sono il risultato della tua attività didattica, che non si è limitata alla tecnica, ma ha creato una comunità di artisti. Molti di loro sono oggi professionisti affermati oltre che parte attiva del collettivo che dà vita alle iniziative che citavi e allo stesso Brda Contemporary Music Festival. Come sta andando quest'aspetto della tua attività musicale?
ZK: Nel 2020, con la diagnosi, ho deciso di concludere l'insegnamento, troppo impegnativo. I miei allievi sono come figli per me, e quando li vedo pronti, li lascio andare per la loro strada. Non ho mai voluto creare una "scuola di jazz" tradizionale. Oggi, se vuoi fare jazz e sviluppare la tecnica, trovi tutto su YouTube. Io, invece, ho cercato di insegnare a suonare musica, di ogni tipo, sviluppando fantasia e sensibilità. La cosa più "tecnica" che insegnavo era come stare seduto sul seggiolino della batteria per non ritrovarsi un domani con la schiena rotta; per il resto ho sempre cercato di portare i miei allievi verso ogni tipo di musica, sperimentando tanti ritmiafricani, etnici, moderni, jazze facendoli sempre collaborare, fin dal 2005 con il Kombo A, con grandi musicisti. Abbiamo fatto anche free, come si faceva negli anni Settanta e Ottanta, ma solo alla fine ho fatto prender loro i cinque libri che mi dette tanti anni fa Ben Riley e che sono tutto quel che serve per "apprendere la tecnica." Perché la tecnica è importanteè chiaro che senza averne alcuna non puoi prendere in mano né un sax, né le bacchette della batteriama è ancora più importante far sviluppare la fantasia, la sensibilità ai suoni di tutti i tipi, così da poter giungere a un modo di suonare personale.
AAJ: Ed è attraverso la didattica che hai coinvolti i tuoi allievi anche nel tuo festival, che quest'anno se è giunto alla quindicesima edizione.
ZK: Non avrei mai immaginato di arrivare a quindici edizioni! Il festival, dedicato alla musica improvvisata, poesia e fotografia, si tiene a Medana, tra le vigne della Brda. È un evento non commerciale, animato dai miei ragazzi e frequentato da musicisti italiani, sloveni e austriaci in cerca di nuovi suoni. È una rassegna tutta di musica improvvisata, con il coinvolgimento della poesia e di mostre, perlopiù fotografiche. Scelsi un luogo vicino a casa, Šmartno, tra le vigne e le aziende vinicole, ma non credevo saremmo andati oltre quattro o cinque edizioni. Invece, grazie anche all'aiuto dei miei ragazzi, siamo andati avanti. Proprio perché, a differenza della maggioranza dei festival, l'organizzazione è giovaneio sono il più anzianoe anche perché non è un festival commerciale, né nella musica che propone, né nello spirito che lo anima. Lo frequentano infatti, come ascoltatori, tanti musicistiitaliani, sloveni, austriaciche fanno musica diversa, per incontrare chi come loro è sempre alla ricerca di suoni nuovi.
AAJ: Avendolo frequentato spesso posso dire che si tratta di un festival, se non unico, certo molto raro: musica di improvvisazione senza mezzi termini, e un programma non si strizza mai l'occhio al mercato preferendo protagonisti della "grande improvvisazione europea." Ricordo che il primo anno c'erano Evan Parker, poi Phil Minton, Mats Gustafsson, Joëlle Léandre, Agusti Fernandez, Michael Moore, Per-Åke Holmlander, lo scorso anno Frode Gjerstad e Iva Bittova...
ZK: Ricordo ancora il concerto del primo anno con Evan e Giovanni Maier, che alla fine era entusiasta e voleva pubblicare la registrazione. Maper tornare alle difficoltà di far uscire i materiali registrati di cui accennavo prima. Evan, che è molto selettivo e non ama neppure suonare con chi non conosce bene, non ha mai autorizzato l'uscita.
AAJ: Di quel concerto porto con me un ricordo che spesso cito quando parlo della musica improvvisata e delle sue sorprendenti peculiarità: c'è stato un momento in cui Parker faceva solo colpi d'ancia, Giovanni suonava con l'archetto non le corde, ma lo spigolo del contrabbasso e tu, in ginocchio sulle tue ground percussions, con la mano destra accartocciavi una scatola di uova e con la sinistra grattavi un piatto di plastica; potrebbe sembrare incredibile, ma era così bello che avevo i brividi nella schiena! Tanto che, alla fine, andai da Giovanni e gli chiesi cosa vi foste detti e su cosa vi foste accordati prima del concerto; lui mi rispose: «una mezz'ora prima dell'inizio sono andato da Evan e gliel'ho chiesto, ma lui ha guardato l'orologio e mi ha risposto: è troppo tardi per deciderlo, si sale sul palco e si suona!».
ZK: Sì, il festival è nato proprio per far sentire questo tipo di musica. Era tanto che ci pensavo; poi è successo che ho ricevuto un riconoscimento nazionale per meriti culturali, che mi hanno dato a Lubiana e che consisteva in cinquemila euro: allora, con quei soldi, ho deciso di farlo davvero e di chiamare ogni anno persone come Evan a fare workshops, oltre che a suonare. E abbiamo continuato sempre così, all'insegna dell'incontro tra le culture artistiche italiana e slovena, principalmente musicali, ma anche poetiche e fotografiche. Certo, non è sempre stato facile realizzarlo, perché trovare i fondi, anche solo di cinquemila euro come all'inizio, è sempre un'impresa: quest'anno, con l'evento di Gorizia/Nova Gorica Capitale Europea della Cultura, ce ne avevano promessi cinquantamila e invece non abbiamo visto niente... Hanno preferito dare tutto alla musica elettronica o ai jazzisti di grido, nonostante che tutti sappiano bene quel che ho fatto in questi anni per questa zona della Slovenia, più volte martoriata dalla guerra e dalle vicende politiche. Comunque, in un modo o nell'altro, siamo riusciti a tirar fuori lo stesso quel che serviva.
Due anni fa, poi, è deceduto Boris, l'amico che animava Šmartno, paese bellissimo, racchiuso qual è tra le mura medioevali sulla sommità di una collina che domina tutto il Collio e la Brda, il Collio sloveno. Allora abbiamo deciso di spostarci a Medana: il paese è forse meno suggestivo, ma è sempre bello e al centro della stessa meravigliosa zona viticola; in più, ha un cinema-teatro storico, costruito nel 1947 dai lavoratori dell'epoca di Tito, con un suono bellissimo e spazi accoglienti, dove per tre giorni possiamo stare assieme a scoprire una musica con mille diversità.
AAJ: Šmartno era ed è incantevole, ma nel corso degli anni, con la crescita economica della Brda, era forse diventato un po' troppo chic per ospitare una cosa così informale e collettiva qual è il BCMF: erano scomparse le jam session improvvisate agli angoli del paese, mancavano gli spazi per fare capannello e commentare i concerti o parlare assieme dei rispettivi progetti, artistici e non. Nei due anni a Medana tutto è diventato più comunitario e il festival ha ripreso una forma "antica," direi "anni Settanta," che permette di fruire ancor meglio delle proposte musicali.
ZK: Lo penso anch'io. L'improvvisazione ha poca accoglienza nei festival tradizionali, di jazz o di musica colta, forse anche perché gli organizzatori non la conoscono bene, ma è una ricchezza immensa. Perché non è basata su dei "sistemi," come le altre musicheincluse le varie forme che ha preso il jazz bensì sulla libertà, su un'assoluta capacità di ascolto e sulla volontà di entrare dentro il tessuto stesso della musica. Certo, nella musica improvvisata non c'è spazio per alcuna forma di egoismo o egocentrismo: non c'è, come per esempio nel bebop, una ritmica al servizio dei solisti; c'è invece attenzione, ascolto, empatia, che ti impongono anche di rimanertene in silenzio a cercare nuove idee e nuovi percorsi in quel che gli altri stanno suonando. È questo che ti fa andare avanti, non il virtuosismo o il protagonismo! E, nota bene, io per trent'anni ho suonato soprattutto jazz, perfino bebop, in Spagna, Portogallo, Olanda. E proprio in quest'ultima, grazie all'ascolto di tanti musicisti fantastici, ho capito che si poteva e si doveva andare oltre, che si trattava di investire tempo ed energie per capire chi sei: uno schiavo della musica che impara i "sistemi" e si mette al loro servizio; oppure se un musicista che vuol essere libero come dice Jöelle Léandre, che da contrabbassista sente la cosa con particolare intensitàe quindi suona una musica libera e che si rinnova ogni volta.
Per questo nella musica improvvisata la tecnica è sì importante, ma non è centrale: perché quello che conta è scoprire la propria voce e sentirsi liberi di usarla. E questo è un cammino lungodi dieci, venti anniche va fatto apprendendo dagli altri, ma sempre senza imitarli, senza idolatrarli, perché in quel che suonerai devono esserci la tua fantasia, la tua intelligenza, la tua sensibilità... insomma, la tua voce e non l'imitazione di quella di un altro. Ciò che è necessario imparare dagli altri, dai grandi improvvisatori, non è la loro voce, bensì è la semplicità e la sincerità con cui la usano, con cui la trasformano in una musica fantastica. Per questo ai miei ragazzi ho voluto far fare esperienza con loro.
AAJ: Lo capisco bene, visto che anch'io ho partecipato ad alcuni seminari con improvvisatori. I quali di solito non insegnano la tecnica, e neppure correggono gli errori tecnici, bensì cercano di trasmettere un modo di stare assieme, sul palco, in ascolto degli altri e al servizio della musica. Jöelle, per esempio, ci redarguiva con forza, anche alzando la voce, quando secondo lei non portavamo il corpo sul palcoscenico assieme alla testa e allo strumento, oppure perché suonavamo troppo. E aveva ragione, perché per far funzionare questa musica è necessaria una presenza totale e l'attenzione più agli spazi per gli altri che non a quel che si dice in prima persona.
ZK: È proprio così, infatti credo che i miei ragazzi si siano affermati, come dicevi, anche grazie ai tanti improvvisatori con cui hanno avuto la possibilità di lavorare. E non solo nei workshops strumentali, ma anche a quelli sulla voce, come nel caso del seminario di qualche anno fa con Phil Minton, un musicista fantastico, che suona la tromba in qualsiasi tipo di musica e con la voce si è concentrato sull'improvvisazione.
AAJ: C'ero, quell'anno, e ricordo di essermi mangiato le mani vedendo il concerto, perché ero stato incerto se partecipare al workshop e poi non l'avevo fatto. Fu uno spettacolo fantastico, proprio perché era palese che alcuni partecipanti era la prima volta che si cimentavano con la voce.
ZK: Infatti ho sempre insistito con i miei allievi affinché partecipassero a qualsiasi workshop di questi musicisti, perché c'è sempre da imparare. Qualcuno mi dice che non ha voce, ma io so che anche se non ce l'hai, lui ti tirerà fuori quella poca che c'è e te la farà usare come non ti saresti mai aspettato. Quest'anno il workshop sarà tenuto dalla vocalist tedesca Ute Wassermann, per me una delle più grandi improvvisatrici berlinesi della sua generazione. Inoltre ci sarà anche il concerto del workshop che Michael Moore terrà in collaborazione con l'associazione Armonie, di Gradisca di Sedegliano, che si svolgerà in parte là, in parte a Nova Gorica, unendo musicisti italiani e sloveni e anche musica molto diversa, per poi tenere il concerto finale al festival. Prima, però, ci saranno molti altri bei concerti: come sempre ci sarà qualche mio ragazzo, poi la straordinaria sassofonista Lotte Anker, che suonerà da sola e assieme a Michael Moore; Giovanni Maier e Daniele D'Agaro che suoneranno con Gal Furlan; la sperimentatrice di elettronica Maja Osojnik; poi Emanuele Parrini assieme a Urban Kušar e ancora Maier. Anche quest'anno avremo poesie sia italiane, sia slovene, e infine noi "vecchi": io con Agusti Fernandez e John Butcher, sassofonista soprano e tenore inglese davvero straordinario, per me uno dei sassofonisti più avanzati che ci siano in circolazione in questo momento: un'enorme varietà di suoni, spesso sorprendenti. E anche Ute Wassermann farà un concerto da sola. Insomma, anche se fatto con poche migliaia di euro, grazie all'entusiasmo dei miei ragazzi anche per questo quindicesimo appuntamento della rassegna abbiamo allestito un bel programma.
AAJ: Per concludere, parlaci del recente disco in duo con Flavio Zanuttini, Peace in Space.
ZK: Flavio è un trombettista originale, lontano dal mainstream, ispirato da Peter Evans. Sperimenta timbri e suoni con oggetti come gong e elettronica, ed è un improvvisatore radicale, come dimostrano i suoi lavori in solo, La Notte e Ginkgo . Mi piace molto, è stimolante, e in passato ci era capitato anche di collaborare, ma questa era la prima volta che suonavamo assieme solo noi due. Registrare il disco è stato molto divertente, abbiamo giocato assieme con i molti spazi che si aprivano dialogando e sperimentando; ma ancora più bello è stato fare i due concerti che siamo riusciti a trovare, prima a Udin&Jazz, poi quest'anno a Cerkno, dove abbiamo fatto una bella performance. Perché nella musica improvvisata è comunque importante imparare a conoscersi, dopodiché le cose crescono esponenzialmente. Peccato che finora non siamo riusciti a farne altri: si sa, la musica improvvisata è una ricchezza disconosciuta, ed è proprio per questo che continuerò sempre a farla e a promuoverla.
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