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Vicenza Jazz - New Conversations 2025

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Vicenza
1525 maggio 2025
Vicenza JazzNew Conversations ha sempre portato un sottotitolo che mettesse in evidenza il tema su cui di anno in anno si concentrava prevalentemente. Questa ventinovesima edizione ha evitato di celebrare anniversari o di puntare i riflettori su uno strumento principe, ...anche se, come vedremo, un anniversario importante è stato ricordato, quello del comportamento generatore di eventi storici da parte di Rosa Parks nel 1955 a Montgomery; quanto agli strumenti, un'attenzione ricorrente è stata data al pianoforte, presentando alcuni imprescindibili protagonisti dell'attualità. Il tema scelto quest'anno da Riccardo Brazzale, da sempre direttore artistico infaticabile, è stato invece "Elogio dell'errore," in quanto il concetto stesso d'improvvisazione jazzistica comporta automaticamente il rischio, l'imprevedibilità e l'empatica partecipazione dell'interplay o della prova solitaria, oltre che i condizionamenti delle contingenti situazioni ambientali o dell'amplificazione; ecco di conseguenza l'alta probabilità dell'errore, tanto che in alternativa si potrebbe ricorrere all'abusato detto "wrong but strong." Sulla carta il programma, che dal Kronos Quartet ha portato fino al super gruppo First Meeting pilotato da Gonzalo Rubalcaba, proponeva molti appuntamenti attraenti; personalmente ho scelto di seguire la parte centrale del festival, rimanendone del tutto soddisfatto.
Il mio soggiorno musicale vicentino non poteva iniziare nel modo migliore, assistendo al concerto del Ralph Alessi Trio, ultima data del suo tour; si tratta di una formazione abbastanza recente ma di grande compattezza, comprendente il chitarrista francese Marc Ducret e il batterista californiano Jim Black. Fra i vari original in repertorio, ascoltati al Teatro Comunale, cito brevemente "Number 8," dall'andamento obliquo, quasi monkiano, "Friendly," ancor più complesso e sdrucciolo, il claustrofobico "Living in a Half Room..."
Il trombettista-leader ha sempre dato le coordinate da seguire con il suo eloquio ineffabile, procedendo cioè con una pacatezza di fondo e con un'enorme lucidità nel tracciare un fraseggio mobilissimo, avulso da ogni logica comunicativa risaputa. Ducret, dall'alto della sua esperienza più sperimentale, in parte di matrice Avant Rock, ha sprigionato una fantasia eccentrica, un'energia pervadente con impennate tesissime, quasi luciferine. Quanto a Black, in questi ultimi anni sembra aver esteso le soluzioni del suo drumming ed essere tornato ai livelli di motivazione dei tempi migliori, producendo una variata e irresistibile propulsione ritmica. Sulla base di spartiti stringenti si è sviluppata un'improvvisazione densa e lancinante, una sintesi originale e riuscita di alcune matrici del jazz attuale, dando corpo a progressioni di estrema varietà strutturale, timbrica e ritmica.
Se il trio di Ralph Alessi ha rappresentato un ottimo esempio del più vitale jazz odierno, con gli Yellowjackets, che subito dopo sono entrati in scena, ci si è trovati di fronte ad un pezzo di storia recente, in quanto il gruppo a partire dalla fine degli anni Settanta ha incarnato con motivazione una personale versione del movimento Fusion. Tuttora i quattro propugnano una musica collettiva determinata ma dall'anima serena, caratterizzata da una moderata componente elettrica, da linee melodiche seducenti, da una conduzione ritmica regolare, ricca e danzante. Anche nel concerto vicentino Bob Mintzer alle ance, Russell Ferrante alle tastiere e Will Kennedy alla batteria, veri capisaldi della formazione, affiancati dal più giovane Dane Alderson al basso elettrico, hanno riproposto un esempio attualizzato del persistente messaggio Fusion, chiudendo il concerto con il title track dal loro album Fasten Up, edito da poco dalla Mack Avenue. Rimane apprezzabile il fatto che ancora oggi la loro proposta si mantiene compatta, equilibrata, dinamica e sempre di buon gusto, senza eccedere in artifici di grana grossa.
Al Teatro Olimpico sono state messe a confronto le solo performance di due pianisti coetanei, entrambi trentottenni: l'israeliano Shai Maestro e Sullivan Fortner, nato a New Orleans. Diversi fra loro per origine culturale e per approccio pianistico, sono però accomunati dalla volontà di misurarsi con un repertorio molto eclettico, senza per altro avventurarsi nelle scabrosità di un linguaggio post-free. Entrambi hanno usufruito di una leggera amplificazione: il che da un lato ha offerto l'opportunità di arricchire la varietà e le risonanze del sound, dall'altro è rimasta l'incognita di come sarebbe risultato il suono naturale e asciutto dei due pianisti nell'acustica del teatro del Palladio.
Maestro ha introdotto il suo concerto con atipiche versioni di "Prelude to a Kiss" e "Round Midnight," per poi passare a propri original; fra questi ha spiccato "When You Stay Seeing," una ninna nanna che ha scritto anni orsono, ma che ora ha dedicato alla triste situazione dei bambini di Gaza; nell'interpretazione ad un inizio pensoso e malinconico ha fatto seguito una parte centrale più turbinosa. Nel suo fluido mondo pianistico si confrontano e convivono varie matrici culturali: la musica classica più discorsiva e tonica, il jazz ovviamente, con una particolare vicinanza al modello jarrettiano, ma anche sotterranei riferimenti alla musica ebraica e a cadenze del medio ed estremo Oriente. A Vicenza non è mancato poi un omaggio alla canzone brasiliana con una struggente rivisitazione di "Luiza," proposta come bis. Il modo di incrociare queste tradizioni fa sì che noti standard vengano rigenerati con grande fantasia; a maggior ragione i suoi original diventano palestra per esporre tutto il suo peculiare mondo creativo, che pone una cura particolare nella sonorità, in modo da far percepire in alcune note isolate le varie risonanze, mentre nelle parti più piene esalta la ricca brillantezza delle armonie.
Il percorso performativo di Sullivan Fortner, in una delle sue abbastanza rare apparizioni solitarie, ha esordito con "Golden Lady" di Stevie Wonder, per poi previlegiare propri original. Il suo tocco pianistico è risultato più schietto e concreto di quello di Maestro, confacendosi ad una ricapitolazione onnivora del pianismo jazz, dallo stride piano all'eclettismo di Fats Waller, dai preziosismi di Art Tatum e di Oscar Peterson fino alle ricorrenti insistenze del miglior Dave Burrell. Nell'intrecciare e sovrapporre le frasi la sua diteggiatura ha evidenziato i contrasti dinamici e gli accenti anomali, oppure la continuità narrativa delle composizioni. Eppure anche nell'approccio di Fortner sono comparse concentrate austerità tratte dalla musica classica, oppure una cantabilità distesa come nel tema della colonna sonora di Nuovo cinema Paradiso di Ennio Morricone... fino a spiazzare la platea eseguendo nel bis una delicata versione di un'aria dalla Bohème pucciniana.
La sera successiva, di nuovo nella Sala del Ridotto del Teatro Comunale, si è ascoltato un altro pianista, ma in questo caso alla testa del suo trio: Nduduzo Makhathini, sudafricano ormai quarantaduenne, impostosi sulla scena internazionale negli ultimi anni, dopo essere approdato nelle sale d'incisione della Blue Note. Non è facile inquadrare il suo mondo pianistico, se non rischiando generiche semplificazioni; avendolo ascoltato per la prima volta, non ho percepito, se non raramente, espliciti andamenti etnici sudafricani e tanto meno analogie con gli indimenticabili temi-riff dei suoi predecessori emigrati in Inghilterra negli anni Sessanta. In alcuni brani Makhathini ha esposto un pianismo decisamente percussivo su pochi accordi, ma quando il fraseggio si è complicato interessando l'intera tastiera il riferimento a McCoy Tyner è emerso evidente. In alternativa sui tempi lenti, ricorrendo anche ad un canto velato e intimo in falsetto, ha rivelato una cantabilità austera ed evocativa, simile a quella delle ballad. Nella parte finale inoltre, i martellanti accordi e le perentorie insistenze hanno assunto la grana scontrosa e aggressiva del free.
Poche parole sui talentosi partner del suo affiatato trio: se il pizzicato del contrabbassista Dalisu Ndlazi ha dimostrato tutta la sua efficacia previlegiando un registro grave e risonante, l'esperto batterista cubano Lukmil Perez, abile con le spazzole e imperioso con le bacchette, ha palesato cadenze incalzanti, queste sì di derivazione africana. In definitiva, la musica di Makhathini, distanziandosi decisamente da quella di molti pianisti che oggi vanno per la maggiore, ha dato l'impressione di possedere una sua indubbia autenticità, in quanto racchiude in sé più fonti d'ispirazione.
Vicenza Jazz 2025 ha riservato un'altra sorpresa: il rinnovamento totale della Lydian Sound Orchestra, fondata e diretta da Riccardo Brazzale, che, dopo trentacinque anni di vita, di successi e di incisioni, ha cambiato pelle prendendo il nome di Lydian New Call. I componenti scelti infatti sono quasi tutti nuovi, ad eccezione di Glauco Benedetti alla tuba e trombone, che faceva già parte dell'organico da una decina d'anni, e del chitarrista Marcello Abate, entrato in formazione quattro anni fa. I musicisti esordienti, sotto la direzione dell'inesauribile Brazzale, sono invece la cantante Gaia Mattiuzzi, Manuel Caliumi, Giovanni Fochesato e Giulia Barba alle ance, il trombettista Michele Tedesco, il vibrafonista Nazareno Caputo, al violoncello Salvatore Maiore (il meno giovane della compagine), Federica Michisanti al contrabbasso e Bernardo Guerra alla batteria.
Anche il repertorio si presenta in buona parte rinnovato, rimanendo gli arrangiamenti attribuibili per lo più a Brazzale; se si esclude un brano di Claudio Fasoli risalente alle origini dell'ensemble, oggi compaiono una composizione di Giulia Barba, rivisitazioni di temi di Ornette e di Paul Motian, un episodio neo-minimalista scritto da Marcello Abate e dedicato a Steve Reich, un "Requiem" del leader, in memoria di tutti i bambini vittime delle attuali incessanti guerre e non solo, per chiudere il concerto con una versione marcata e distorta di "Evidence." Come bis è stato proposto il mingusiano "Self-Portrait in Three Colors," aperto da un pacato duo voceclarinetto basso per poi giungere a un robusto arrangiamento del collettivo orchestrale. Nei vari brani che si sono succeduti, le strutture, le tessiture timbriche e le dinamiche hanno determinato percorsi interpretativi caratterizzati da diverse atmosfere, sfumature e intensità.
Gli strumentisti, tutti motivati ed encomiabili, molti dei quali ben noti da anni, hanno avuto modo di esporsi in assoli funzionali; fra tutti mi limito a segnalare la solidissima e unitaria conduzione ritmica di Michisanti e Guerra, mentre nella front line si sono distinte le sortite brucianti della coppia CaliuniTedesco, rispettivamente al contralto e alla tromba. La performance vicentina dell'orchestra è stata un'anteprima assoluta, prima di esordire ufficialmente alla Casa del Jazz di Roma alla metà di giugno, dove per l'etichetta Parco della Musica verrà registrato il nuovo CD.
Due in sequenza i concerti di Marc Ribot, intitolati, quasi per dare una risposta personale al sottotitolo di questa edizione del festival, Solo Guitar Improvisations e Duo Improvisations, nel secondo dei quali era comprimaria Ava Mendoza. Nella solo performance Ribot ha proposto un viaggio attraverso le varie culture che lo hanno influenzato e che ha interpretato nel corso della sua lunga carriera. Sono comparsi quindi brevi accenni, omaggi mirati e trasfigurazioni di movenze folk e blues, di cadenze cubane e di musica ebraica, ma anche citazioni velate e recondite del capostipite Django Reinhardt e perfino di sequenze ritmiche del flamenco. Passaggi di raccordo sperimentali hanno previlegiato anomali effetti timbrici, ottenuti sfregando le dita sulle corde o battendo le nocche sulla cassa dello strumento. Lo stesso chitarrista ha annunciato un brano di Coltrane ed uno dell'haitiano Frantz Casseus senza che, per quanto mi riguarda, risultassero riconoscibili, cosa che è successa invece per il brevissimo, occasionale richiamo al tema introduttivo di "Night in Tunisia." Nel complesso l'apparizione in solo di Ribot ha confermato la sua originalità interpretativa, basata su un approccio selettivo, trattenuto, sofferto, tramato da note sgranate, a tratti quasi reticenti, salvo inserire vampate improvvise.
Nel duo chitarristico fra Ribot e Ava Mendoza, è stato innanzi tutto sorprendente constatare che il chitarrista di Newarksettantuno anni compiuti appunto a Vicenzaera ancora alle prese con la chitarra acustica. Ci si potrà domandare come una chitarra acustica possa competere con la potenza e la varietà sonora di una chitarra elettrica, ma alla prova dei fatti il dialogo ha funzionato a meraviglia per una serie di ragioni. Innanzi tutto i due hanno saputo alternarsi con intelligenza nei ruoli di accompagnatore e di solista, affrontando anche noti temi concordati; inoltre per praticare l'improvvisazione bisogna possedere classe, esperienza e predisposizione all'ascolto del partner, qualità che certo non mancano a Ribot come alla più giovane Mendoza, ormai sua partner abituale.
Il loro percorso ha acquisito una densa sostanza blues e folk, ma non sono mancati anche passaggi di sperimentazione più rarefatta. Fra i brani noti in repertorio ha spiccato l'interpretazione di un paio di temi peculiari di Albert Ayler, mentre come bis era prevedibile la lenta e introversa versione di "Bella Ciao," dedicata da entrambi al fascismo imperante del presidente Trump. Se in tutto il concerto è risultata evidente la capacità di emergere di Ribot, per via del suo carisma e della sua autorevole competenza, la chitarrista gli ha saputo tener testa in modo incredibile, grazie alla varietà del sound, oltre alla sensibilità ed efficacia dei suoi inserimenti.
Della sezione Proxima The Young Side, dedicata alla valorizzazione di giovani gruppi emergenti, ho potuto seguire solo il primo appuntamento, in cui si è esibito il quintetto InFormal Setting, guidato dal pianista e compositore Federico Nuti; l'affiatata compagine di musicisti toscani, formatasi ormai da otto anni, ha già al suo attivo l'omonimo CD, edito nel 2022 dalla Hora. È stata una vera sorpresa imbattersi in giovani che hanno la consapevolezza, il coraggio e la creatività di percorrere sentieri nuovi, lontani da risaputi cliché, proponendo una musica personalissima, basata sulle rigorose composizioni del leader; si sono così coagulate strutture immaginifiche, lente e meditative, sempre controllatissime, che in alcuni brani si sono animate gradualmente in collettivi più intricati e propositivi. Il contributo dei singoli, tutti strumentisti di ottimo livello, è risultato sempre mirato e incisivo: ammirevole l'integrazione fra la tromba di Jacopo Fagioli e il sax tenore di Francesco Panconesi, puntiglioso il drumming di Mattia Galeotti e fondamentale il pianismo del leader, geometrico e granitico, capace di dare ordine all'impianto. Su tutti gli interventi è il caso però di evidenziare la lunga e fosca introduzione al brano "And I Sound Like This" da parte del contrabbassista Amedeo Verniani, che con l'archetto, cosa rara in ambito jazzistico, ha saputo dare consistenza a un mutevole percorso, ricorrendo anche a tecniche eterodosse. In tutta la performance del quintetto ha colpito particolarmente l'insolita capacità di gestire i crescendo e soprattutto i tempi lentissimi, con esiti che si sono avvicinati alla musica contemporanea.
La mia permanenza al festival vicentino si è conclusa assistendo alla produzione esclusiva "In the Name of Rosa Parks," in cui al trio Circular Pyramid di William Parker, completato da Ava Mendoza e Hamid Drake, il direttore artistico ha voluto accostare una voce recitante, individuandola nell'attrice Celeste Dalla Porta, intrigante protagonista del film Parthenope di Paolo Sorrentino, nonché figlia del contrabbassista Paolino Dalla Porta. Il progetto non ha inteso solo rievocare il noto fatto del dicembre 1955 di cui Rosa Parks fu l'involontaria eroina, avviando la protesta dei nero-americani che ha gradualmente portato alla conquista dei diritti civili, ma ha voluto sottolineare anche la necessità di avere piena consapevolezza delle disuguaglianze e delle ingiustizie che tutt'ora serpeggiano in ogni angolo del mondo. Il flusso della performance si è articolato con un andamento inevitabilmente ondivago, dovendo attenuare l'intensità musicale nelle parti assegnate alla puntuale declamazione dell'attrice, che ha letto stralci dall'autobiografia della Parks.
Quanto alla musica del trio, ha espresso una compatta integrazione d'intenti e di risultati, mettendo in risalto l'apporto di ognuno dei comprimari. Come in passato, il poderoso pizzicato di Parker ha profuso riff reiterati e insistiti, ma sempre variati da cambi di rotta o da impercettibili ed eccentrici "inciampi." Il drumming di Drake si è confermato ormai un classico, in cui le variazioni sulle pelli, gli incisivi rim shot, le improvvise rullate siglate da perentori accenti sui piatti o sulla grancassa, i brillanti scampanii sul piatto più acuto, sono in grado di creare un'eccitante pronuncia dialogante, mentre Mendoza, rispetto al duo con Ribot, non dovendo più sostenere anche un compito ritmico, ha profuso linee melodiche forse meno bluesy, ma più concatenate e ricche di riverberi evocativi. Da sottolineare in particolare un episodio dal sapore "africano" di grande efficacia quando il contrabbassista, con un adeguato fraseggio pigolante, ha imboccato l'algaita, strumento a doppia ancia dalla sonorità non dissimile a quella della zampogna, sostenuto dall'irresistibile intervento del batterista alle prese con il tamburo a cornice, mentre la chitarrista tramava un sottofondo sonoro più disarticolato. Il concerto si è chiuso con una sequenza di voci dall'effetto teatrale anche se risaputo: prima quella di Celeste chiosando la rievocazione di Rosa Park, alla quale si sono sovrapposte via via le frasi disgregate e ripetute dai tre musicisti americani.
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