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Gli Unscientific Italians e l'arte della meta-sintesi Friselliana

Gli Unscientific Italians e l'arte della meta-sintesi Friselliana

Courtesy Giuseppe Arcamone

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Se Nanni Moretti fosse nato nel 1973 invece che nel 1953, la famosa scena di Caro Diario che lo vede in sella ad un vespone per le strade vuote di una languida Roma ferragostana avrebbe avuto come colonna sonora la musica di Bill Frisell piuttosto che quella di Keith Jarrett. Perchè ogni epoca viene definita da un limitato novero di musicisti che la caratterizzano con le loro innovazioni e sonorità e, per chi è cresciuto musicalmente negli anni '80 e '90 Bill Frisell costituisce una figura monumentale ed ineludibile.

Lo stile strumentale di Frisell ha trasformato il modo in cui le generazioni successive si sono rapportate alla chitarra, ma—da qualche tempo—anche le sue composizioni si stanno rivelando influenti. Si tratta di brani che stupiscono per la rarissima capacità di essere allo stesso tempo originali e familiari grazie al modo in cui Frisell—la sintesi fatta uomo—metabolizza fonti eterogenee come jazz, country, bluegrass, rock, pop, musica surf o musica classica e contemporanea americana.

La difficoltà nell'affrontare un materiale così fortemente caratterizzato resta quella di non farsi fagocitare dal fantasma Friselliano. Fortunatamente, nella traiettoria evolutiva che porta l'opera compositiva di un musicista ad acquistare una dimensione autonoma rispetto a quella del suo autore, c'è sempre una fase centripeta in cui l'interpretazione di quest'opera si trasforma da omaggio a trampolino di lancio verso direzioni non previste dal compositore.

In un processo di meta-sintesi che frisellianamente combina la familiarità della fonte con la freschezza del risultato, Unscientific Italians Play the Music of Bill Frisell Vol. 1 potrebbe rappresentare il punto di non ritorno di questa traiettoria evolutiva del repertorio di Frisell. L'album appena pubblicato dalla neonata Hora Records documenta un certosino ed elegante lavoro d'insieme che arricchisce i sottintesi Friselliani di nuovi colori ed aromi, senza per questo intaccarne il fascino essenzialista.

Assieme a Mario Calvitti abbiamo parlato di questo progetto con alcuni membri degli Unscientific Italians, oltre che esponenti di spicco di scienze Friselliane, Alfonso Santimone, Zeno De Rossi, Francesco Bigoni e Filippo Vignato.

All About Jazz: Cosa rappresenta per voi Bill Frisell dal punto di vista musicale? Quali sono gli aspetti della sua musica che vi hanno colpito di più e portato a realizzare questo progetto?

Alfonso Santimone: Io l'ho scoperto durante l'adolescenza, nel pieno della mia fase di esplorazione del linguaggio jazzistico, che in quegli anni andava in tutte le direzioni: non c'era tanta differenza tra ciò che era tradizionale e ciò che non lo era; la mia era un'esplorazione totalmente virginale, che passava da un sacco di dischi, alcuni trovati in casa, altri acquistati con la paghetta che ricevevo dai miei genitori. Uno di questi era un regalo di compleanno fatto a mio fratello, non ricordo se nel 1989 o nel 1990: si trattava di Before We Were Born. In quegli anni leggevo spesso di Bill Frisell—ad esempio su Musica Jazz, che già acquistavo per ascoltare i vinili allegati—ma non conoscevo ancora la sua musica: scelsi quel disco per mio fratello chitarrista e grande appassionato di tutta la cerchia degli "allievi" di Jim Hall.

Con l'ascolto di Before We Were Born mi si è aperto un mondo, che aveva a che fare soprattutto con l'attualità di quello che era il jazz newyorkese di quegli anni. Frisell mi spalancò una porta sulla scena contemporanea del jazz di quegli anni, portandomi subito verso l'attualità di quel periodo. In quel disco c'erano tantissimi elementi, tra i quali un rapporto molto originale con la tradizione jazzistica che mi colpì molto. La "botta" finale arrivò tre anni dopo, in occasione di un concerto del trio di Frisell al Teatro Nuovo di Ferrara, saremo state 40 o 50 persone tra il pubblico. Ne uscii cambiato per sempre: per me il concetto di trio è cambiato dopo l'ascolto di quel concerto.

In definitiva, Bill Frisell è un musicista seminale per il mio sviluppo creativo e musicale, e non c'è musica che io abbia frequentato successivamente che non abbia in qualche modo risentito di questo rapporto. Devo dire che il suo periodo più "calligrafico" di esplorazione delle tradizioni musicali americane mi ha lasciato più freddo, perché ero legato ad una dimensione in cui l'improvvisazione collettiva era preponderante; resta però tuttora uno dei miei punti di riferimento più importanti. Se ho avuto degli eroi nell'adolescenza, lui è uno di quelli.

Zeno De Rossi: Per me lo è ancora, anche se ormai ho 50 anni! Ho tre anni più di Alfonso, ma ho scoperto Bill Frisell più o meno nello stesso periodo, e anche per me è stata una folgorazione totale. Alla fine degli anni ottanta venne a Verona in più occasioni, prima in duo con Tim Berne, poi con i Bass Desires di Marc Johnson e ancora con il suo quartetto con Hank Roberts, Kermit Driscoll e Joey Baron. Purtroppo, mi persi tutti questi concerti perché in quel momento non avevo idea di chi fosse ...

Pochi mesi dopo ascoltai Lookout for Hope ... fu una rivelazione! Mi innamorai della sua musica, dell'interplay incredibile di quel gruppo e poi in quel disco scoprii Joey Baron che mi aprì una porta verso un nuovo modo di pensare la batteria. Ricordo che pensai "è questa la musica che voglio suonare!" Corsi a comprare tutti i suoi dischi precedenti e ovviamente continuai con tutti quelli successivi, tradizione che ho continuato a mantenere fino ai giorni nostri.

Dal vivo lo sentii per la prima volta poco dopo, nel 1990 al Posto di Verona con il trio di Paul Motian, uno dei concerti che cambiò la mia vita. Se devo citare un solo musicista di riferimento per me, non può che essere Frisell, non soltanto perché il suo timbro e la sua musica risuonano profondamente con il mio corpo e con la mia anima, ma anche per la sua trasversalità come sideman. Adoro i musicisti che si muovono in contesti eterogenei ma rimanendo autentici: sono sempre stati un punto di riferimento per quello che mi interessa fare musicalmente. Pur frequentando gli ambienti musicali più disparati, da Laurie Anderson a Paul Bley, da Paul Simon a John Zorn, Frisell riesce sempre a mettersi al servizio della musica elevandola ad un livello superiore e per farlo gli bastano spesso anche solo poche note, suonate sempre con un'onestà e un'autenticità disarmanti.

Il suo suono poi, al pari di altri grandi maestri—penso a Lee Konitz, Ornette Coleman, Charlie Haden o Paul Motian—mi pare sempre più puro e profondo col passare del tempo.

Francesco Bigoni: Al concerto di Ferrara del 1993 c'ero anch'io. Ero molto piccolo ed è stato un vero e proprio imprinting musicale. Per me Frisell è proprio un padre musicale, peraltro ha la stessa età dei miei genitori. Quando mio padre mi accompagnò a quel concerto non avevo idea di chi fossero i musicisti sul palco. Avevo ascoltato, credo, quattro dischi di jazz: due antologie della Atlantic (Ornette Coleman e John Coltrane), un disco che conteneva brani del Red Norvo All Stars e del Krupa/Ventura Trio, e infine un album di Jack Teagarden. Entrai così, praticamente vergine, al concerto di Frisell, e mi fece una tale impressione che a distanza di molti anni, ascoltandone il bootleg che ho recuperato di recente, mi sono accorto di ricordarmi benissimo l'inizio del concerto.

AS: Io mi sono messo a piangere!

FB: Anche io! Anche per me quella è stata una porta verso una serie di nuove esperienze musicali: John Zorn, il downtown newyorkese, più in generale direi tutta la musica che si faceva negli anni Novanta. Quel concerto mi fece abbandonare l'idea di dover affrontare l'ascolto del jazz in una prospettiva storica rigida, in ordine cronologico, e mi fece scoprire più in fretta la musica di quegli anni. Il primo disco di Frisell che ricordo è Is That You?, che avevo copiato su una musicassetta. Un gran disco, oggi quasi dimenticato ...

AS: Oltre a Zorn, Before We Were Born mi fece scoprire Arto Lindsay, che divenne poi uno dei miei musicisti favoriti.

ZDR: Ambitious Lovers!

AS: Già, c'erano loro! E poi mio padre era un grande appassionato di musica brasiliana, ascoltavamo molto Caetano Veloso, e qualche tempo dopo mi ritrovai Arto Lindsay come produttore dei suoi dischi. Cerchi che si chiudono, con la figura di Frisell sempre in qualche modo in mezzo ...

Filippo Vignato: Essendo di una generazione successiva non avrei potuto, purtroppo, sentire un concerto di Frisell dal vivo nei primi anni Novanta. In qualche modo, ho fatto il percorso contrario, partendo dagli anni Duemila e dal filone americana di Frisell. Ho ascoltato molte cose sue, senza che diventasse mai un'ossessione. In seguito, anche grazie ai musicisti qui presenti, ho scoperto il resto della sua discografia, e devo dire che Frisell è sempre se stesso, sia che affronti le tradizioni americane che le sue composizioni; questo soprattutto dal punto di vista del suono che ha alla chitarra, che mi pare una delle sue caratteristiche fondamentali. Ci sento molto l'idea di uno strumento a fiato, per la sua ricchezza di inflessioni. Non riesco a considerarlo solo come un chitarrista.

ZDR: È proprio quello che dice Frisell stesso, quando parla dei suoi esordi al clarinetto, del suo rapporto con la musica di Sonny Rollins, ...

FV: Un'altra cosa che traspare nella sua musica è la compresenza di un lato gioioso, scanzonato, playful e di un lato dark, che va nel non detto, in un ambito di mistero. È bravissimo a tenere insieme queste due anime, che evidentemente vanno oltre la musica. Frisell, nella sua estrema umiltà, non ha paura di nascondere nessuno di questi lati che in qualche modo fanno parte di lui: in definitiva è un musicista estremamente sincero. Questa dote si percepisce anche se si è relativamente a digiuno di musica, e credo sia una delle ragioni per cui è arrivato ad essere così riconosciuto dal pubblico.

AS: Sul piano del suono, c'è un fatto tecnico legato al suo approccio alla chitarra. Ha un modo di gestire la bidimensionalità dello strumento—le corde sull'asse y e la tastiera sull'asse x—del tutto personale. Si esercita, ad esempio, studiando scale e melodie su una corda sola, il che gli fa ottenere un suono molto legato, con quella qualità "parlata" da strumento a fiato.

Poi c'è il suo utilizzo dell'elettronica, che per me negli anni Novanta fu un riferimento fondamentale: usavo MIDI, computer e sintetizzatori fin da piccolo, ma nel momento della mia immersione nel jazz il pianoforte aveva preso il sopravvento e mi aveva fatto abbandonare quegli strumenti. L'ascolto di Before We Were Born, nel giro di pochi mesi, richiuse anche quel cerchio e l'elettronica tornò per me ad essere un interesse, perché la sentivo utilizzare da lui in modo creativo e stimolante.

Il suono di Frisell è frutto di un grandissimo lavoro sullo strumento e sulla sua idea di musica, passando per tutto il bagaglio che ha a disposizione. Questo suono determina il suo linguaggio peculiare, influenzato da tante cose ma rimasticato in una prospettiva assolutamente originale. È la quintessenza dell'improvvisatore jazz.

FV: E non è mai "dimostrativo."

AS: Vero, e gioca coi propri limiti. Limiti che ne definiscono lo stile e lo rendono unico, il che è una cosa che nella civiltà "scolarizzata" del jazz odierno, in cui tutti devono conoscere tutto, si è un po' persa.

AAJ Come avete scelto il nome del gruppo, Unscientific Italians?

ZDR: È un gioco di parole sul brano "Unscientific Americans" di Bill Frisell, a sua volta ispirato all'omonimo libro di fumetti di Roz Chast.

FB: Con Bill Frisell ne abbiamo parlato proprio di recente: ne è uscito un sottotesto di satira della politica americana di quegli anni e che oggi torna prepotentemente attuale: alla faccia di chi (me compreso) dimentica che dietro al suo atteggiamento sempre gentile, posato e un po' sornione si cela un grande spirito critico!

AAJ: Com'è nato il progetto? Che tipo di difficoltà, o piacevole sfida, vi hanno presentato queste considerazioni nell'affrontare il repertorio di un musicista così personale?

ZDR: Il progetto è stato presentato dal vivo per la prima volta nell'ottobre del 2008, nel contesto di una due giorni dedicata al collettivo/etichetta El Gallo Rojo dal Centro d'Arte di Padova. Però, conoscendo i tempi di elaborazione musicale di Alfonso, dev'essere nato sicuramente almeno un paio d'anni prima! Nacque appunto in seno a El Gallo Rojo, di cui io, Francesco ed Alfonso eravamo membri, assieme ad altri musicisti che fanno parte del gruppo (Piero Bittolo Bon, Danilo Gallo) o che ne hanno fatto parte nella prima versione (Beppe Scardino). Sono stato io a suggerire di lavorare sul repertorio friselliano, ma poi è stato Alfonso a metterci le mani.

AS: Già, il progetto ha tanti anni ed è rimasto per un bel po' nel cassetto dopo quella prima esperienza, per molte ragioni, non ultimo il fatto che è difficile portare in giro un ensemble di queste dimensioni, organizzare prove e così via. Si tratta di materiale che necessita di molto lavoro per la maniera in cui è scritto e orchestrato.

Una delle questioni evidenti è l'assenza della chitarra: la ricostruzione dell'approccio al suono di Frisell per me ha escluso la presenza della chitarra, e tendenzialmente esclude anche quella del pianoforte, che nel disco c'è quasi per forza: il pianoforte è presente in pochi brani, non ha parti scritte, sia perché ho la responsabilità di dirigere il gruppo ma anche per scelta. Penso agli otto strumenti a fiato come una sorta di estensione delle sei corde della chitarra di Frisell, quindi tutta la scrittura è lontana dalla classica scrittura per fiati e per big band—esperienza dalla quale l'ensemble è peraltro lontano per strumentazione, visto che conta soltanto undici elementi. Le parti improvvisate sono fondamentali e non sovrastrutturate.

Non parlerei di veri e propri arrangiamenti, ma di orchestrazioni dei temi, che tentano di riprodurre il sound e l'approccio performativo di Frisell e lasciano molta libertà al gruppo in fase di improvvisazione. Sia Danilo al contrabbasso che Zeno alla batteria usano parti lead, che contengono semplicemente il tema e la forma di base del brano, senza contributi scritti per loro, perché la mia intenzione era quella di ricostruire il senso di libertà che c'è in uno dei miei gruppi preferiti in assoluto: il trio di Bill Frisell con Joey Baron e Kermit Driscoll.

Personalmente, credo si tratti di uno dei contributi più importanti all'idea di trio dopo i trii di Bill Evans, Paul Bley, Jimmy Giuffre—paradossalmente ancora di più del trio di Paul Motian, per il tipo di linguaggio che ha costruito, la sua capacità di interagire con instanze contemporanee del jazz e delle musiche affini. Questo ensemble tenta di andare in quella direzione, il che rende la costruzione degli impasti dinamici e timbrici particolarmente difficile, richiede molta consapevolezza della propria "posizione" dentro l'orchestrazione.

Come diceva Zeno, in genere ho tempi di elaborazione molto lunghi, non tanto perché ci metta molto tempo a scrivere—un brano per questa formazione mi porta via al massimo un giorno, se ce l'ho molto chiaro in testa—quanto perché ci impiego parecchio a fare spazio nella mia vita musicale e aver modo di concentrarmi esclusivamente su una cosa, ripulendomi totalmente dal resto. È un lavoro che a me è molto utile e faccio sempre anche quando lavoro sulle mie composizioni: ho una serie di tappe, come i tre mesi in cui non ascolto musica, quello che chiamo "lo sciopero dell'ascolto." Da quel 2008 sono passati molti anni; ora ci sono tre pezzi che in quel primo repertorio non erano presenti—"Before We Were Born," "Probability Cloud" e "Rob Roy"—che ho arrangiato in pochi giorni, poco prima della registrazione, perché avevo delle coordinate di linguaggio già molto chiare avendo a suo tempo elaborato una strategia di scrittura.

Per me tutto questo è anche un banco di prova, perché "segretamente" ci butto delle cose mie in quel modo di scrivere. Ma è anche vero che molte di quelle cose mie vengono dall'esperienza radicale e seminale del mio ascolto di Frisell da molto giovane: un altro cerchio che si chiude. Sicuramente, nella mia attitudine alla ricerca orchestrale credo di essere molto debitore dell'approccio friselliano al suono, all'armonia/polifonia, agli spazi.

FV: Forse Alfonso non si è esposto troppo su questo punto, ma si tratta di un progetto in cui la sua scrittura ed orchestrazione sono fondamentali tanto quanto gli originali di Frisell: ha usato delle soluzioni orchestrali per far risaltare questa idea di trasfigurazione di quel suono che, personalmente, non credo sarebbero state trovate da altri, perlomeno in Italia, nell'ambito del jazz e della new music. Un altro punto di forza del progetto è il fatto che rende l'attitudine dei dischi di riferimento, in bilico tra l'astratto e la melodia "lineare."

AAJ: Sbaglio o tra tutti gli strumenti di questa formazione il trombone è il meno presente nella musica di Frisell? Filippo, come ti ci sei relazionato?

FV: Si tratta di un lavoro in cui il suono dell'ensemble conta più di quello dei singoli strumenti, quindi non è un problema che mi sono posto. Al tempo stesso, come diceva Alfonso, il progetto richiede una grande coscienza nell'approccio al materiale. È come se fosse una piccola orchestra da camera, fatta di improvvisatori: cambiando i musicisti cambierebbe totalmente il suono, pur essendo la scrittura così forte. Abbiamo poi il corno francese, che forse è ancora più raro del trombone nella musica di Frisell...

FB: Sul suono di questo ensemble vorrei aggiungere un paio di considerazioni. Giusto parlare di orchestra da camera, ma qui siamo di fronte ad una scrittura idiosincratica e non c'è il riferimento ad un canone. Il suono esce direttamente dalla scrittura e dall'interplay, in una dimensione squisitamente jazzistica. Non a caso, è lontano dalla big band, che è forse l'ensemble jazzistico più codificato.

AS: A dire il vero, qualunque formazione, compresa la big band, si può mettere in discussione con la scrittura opportuna. Questo tipo di costellazione di strumenti a fiato con sezione ritmica è stata scelta per rappresentare l'idea dello "strumento" friselliano inteso sia in senso chitarristico che compositivo. Inoltre, una formazione così strana, a metà fra il combo e la big band, che assomiglia ad un gruppo da camera ma non lo è, lascia l'ascoltatore meno carico di aspettative e mi è sembrato il territorio opportuno per affrontare la musica di Frisell. Tant'è che ho ascoltato altri esperimenti orchestrali basati sul suo repertorio che, personalmente, non mi hanno convinto per il peso dei canoni orchestrali che si portano dietro. Si tratta, ovviamente, di un punto di vista filtrato dalla mia visione musicale ...

Il modo per aggirare questo è ripartire da zero per quanto riguarda la strumentazione. Inoltre, la scrittura è molto dettagliata. Passiamo molto tempo a provare articolazione e dinamiche; a volte correggo le partiture in prova, perché prendendomi dei rischi durante l'orchestrazione posso sbagliare alcuni pesi strumentali.

Devo dire che siamo riusciti abbastanza bene a tirar fuori il suono che avevo in testa: la mia grande conoscenza dei musicisti del gruppo mi ha dato una mano in fase di scrittura. Per me è un lavoro che non può prescindere dal suono dei musicisti coinvolti. Due di questi pezzi li abbiamo suonati con la Tower Jazz Composers Orchestra, ma li ho espansi e modificati parecchio in termini di arrangiamento e orchestrazione.

In questa seconda incarnazione del progetto, abbiamo introdotto l'utilizzo dell'elettronica—che in questo primo volume è rappresentata in due brani, ma ritornerà nel secondo volume—in una maniera particolare, cioè processando dal vivo in maniera incrociata i clarinetti (io) e gli ottoni (Francesco). Questo per richiamare vagamente il lavoro di Frisell sui suoi magici pedali ...

AAJ L'uscita del primo volume è prevista per il 21 maggio 2021. Quando uscirà il secondo volume?

FV: Probabilmente all'inizio del 2022.

AAJ Una delle caratteristiche più interessanti della musica di Bill Frisell, presente ancor prima che si dedicasse all'esplorazione del country americano, è la capacità di evocare una sorta di "prateria musicale" dagli spazi immensi. La bellezza del vostro disco è che, pur essendo un gruppo numeroso, siete riusciti a mantenere inalterati questi spazi. Non si avverte quel senso di ingolfamento che emerge in altre rivisitazioni del repertorio friselliano da parte di formazioni più ampie di quelle a cui ricorre normalmente Frisell. In questo senso, come avete scelto i brani del repertorio?

ZDR: Sia io che Francesco ci siamo confrontati molto sulla scelta del repertorio con Alfonso, che poi ha avuto l'ultima parola. Molte scelte, ma non tutte, sono state condivise. Tra le mie proposte c'erano anche brani che andavano a toccare un po' tutti i mondi sonori frequentati da Frisell, ma poi Alfonso ha scelto di suonare quasi tutto Before We Were Born! Il repertorio sta tutto a cavallo degli anni Ottanta e Novanta, ad eccezione di "Probability Cloud" che viene da History, Mystery (2009) ...

AS: E io dico senza mezzi termini che è stato il pezzo che meno ha stimolato la mia immaginazione timbrica e orchestrale! Forse perché ha dei tratti meno peculiari rispetto al linguaggio melodico-armonico friselliano: forse la caratteristica più interessante è la sua ambiguità ritmica un po' afro, una pulsazione in terzine che crea una sorta di illusione rispetto al peso degli accenti, un tratto tipico di molte musiche di tradizione di area africana e specificamente dell'universo Yoruba. Penso alla rumba tradizionale cubana, che spesso sfrutta anche questa ambiguità. A parte questo, "Probability Cloud" ha un andazzo "felliniano" che mi ha posto qualche difficoltà in più in fase di scrittura, ma nell'insieme della scaletta di questo primo volume mi sembra coerente.

Peraltro, la scaletta del secondo volume è già praticamente pronta: molti brani sono già registrati e stiamo convergendo verso l'idea di completare la suite "Some Song and Dance" da Before We Were Born. Magari ci sarà un terzo volume e potremo tentare di sfidare i pezzi più recenti! E comunque i pezzi che abbiamo registrato sono così poco frequentati che sembrano nuovi...

FV: Beh, anche perché sono brani anticonvenzionali nelle forme, nell'armonia. È un territorio poco leggibile se non ci si va a fondo. Condivido l'idea di "prateria musicale" e anch'io devo dire che, pur trattandosi di un ensemble allargato, l'uso dosato di una serie di elementi, trasparenze che escono dalla scrittura ha permesso di non perdere il respiro della musica di Frisell, l'importanza dei vuoti.

AAJ: Pensando a musicisti che hanno una firma sonora inconfondibile, come un Bill Frisell—o un Thelonious Monk prima che Steve Lacy ed altri abbiano contribuito a trasformarlo in un compositore ora affrontato da tutti—ci si può chiedere se il motivo per cui c'è voluto del tempo a far entrare i suoi brani nel repertorio jazzistico sia il fatto che è difficile immaginarli senza il suono dell'autore. Voi come avete affrontato questa sfida?

AS: Si tratta di un argomento molto complesso. Quando affronto, personalmente o con certi allievi, la musica di Monk- -che è certamente una delle grandi fonti di ispirazione di Frisell—il problema è come suonare Monk da un lato rimanendo sé stessi e dall'alstro senza smarrire il senso della sua musica. Frisell è uno degli artisti che riesce a fare questo. Suonare la musica di Frisell significa anche ereditarne, in seconda generazione, i modelli che lui ha declinato in maniera fortemente personale, il che non è per niente facile.

FB: Anche io mi sono trovato a fare discorsi del genere su Monk e Frisell coi miei allievi. Bisogna interiorizzarne il materiale tematico, a partire dalla melodia, in maniera profonda, altrimenti non se ne viene a capo. E di Frisell, come di Monk, devi conoscere bene il sound, il timbro, la posizione delle singole voci dentro la polifonia per far uscire il senso dei brani. Si tratta di una caratteristica ben rappresentata nel jazz ed in altre musiche, ma non è un universale e non è detto che ogni musicista ci si imbatta nel proprio percorso. Nel nostro caso, poi, l'aspetto timbrico va traslato in un ottica di ensemble.

AS: Infatti, ai miei allievi ripeto spesso una cosa che ho sentito dire da Frisell ed appartiene alla sua pratica quotidiana su tutti i materiali, dal brano di Tin Pan Alley a quello dei Beatles o a Monk: suonare per giorni soltanto la melodia, poi aggiungere il basso e progressivamente riempire con le voci interne. Appropriandosi del territorio in modo così intimo, diventa più semplice improvvisare liberamente. Anche questo modo in cui lui trasferisce la sua ricerca personale—sempre in corso, visto che è in constante contatto con il suo strumento—nella didattica è per me di grande ispirazione.

AAJ: In qualche punto della vita di questo gruppo c'è stato un contatto, o magari un coinvolgimento diretto, di Bill Frisell?

ZDR: Proprio nei giorni in cui registravamo il disco, Bill Frisell era in tour in Italia con il progetto Harmony. Ci siamo sfiorati, perché dopo due giorni di prove ed un concerto al Jazz Club Torrione di Ferrara siamo andati a registrare al Teatro Asioli di Correggio, mentre lui è arrivato al Torrione! Gliene abbiamo parlato fin dall'inizio e lui ne è stato subito entusiasta, tant'è che ci ha anche donato alcuni disegni per la grafica di copertina dei nostri dischi. È felice del fatto che abbiamo ripreso dei brani di quel periodo remoto, ma sulla direzione musicale non ha obiettato nulla, anche perché non sarebbe stato nel suo stile.

AS: Ricordo che mentre stavamo registrando Before We Were Born Danilo ha ripreso una take col cellulare e gliel'abbiamo inviata la sera stessa, mentre era al Torrione a suonare. Ci ha risposto entusiasta il giorno dopo ... Io, in compenso, ricordo ancora l'effetto che mi fece ascoltare per la prima volta i primi secondi di quel disco. È come se si fosse aperto un velo su un intero universo durante il mio ascolto di quindicenne.

AAJ: Come si può affrontare la ricerca grassroots di Frisell, da non americani, in maniera rispettosa ed autentica?

AS: L'Ives, il Copland, il Monk, il jazz primigenio che sprizzano dai primi dischi di Frisell sono già talmente dentro la sua musica che vengono fuori naturalmente nel costruire un'orchestrazione. È come se quel mondo, che tendenzialmente si vede in bianco e nero nella sua musica, acquisisse una diversa profondità cromatica in una dimensione orchestrale. Non credo di aver fatto un lavoro consapevole per enfatizzare o nascondere questi tratti, ma durante la scrittura mi sono reso conto del fatto che stessero uscendo in maniera forte—non a caso, sono le influenze che sento più forti nella sua musica di quegli anni. Un'altra presenza forte in Before We Were Born è John Zorn, soprattutto nel brano "Hard Plains Drifter," che è chiaramente debitore dell'esperienza con Naked City (che proprio in quei mesi avrebbe portato all'uscita del primo disco della band) e del postmodernismo lisergico zorniano.

Invece, è molto difficile per me esplorare la sua idea del folk americano, che spesso è intrinsecamente chitarristica e in qualche modo "de- jazzificata," ostica per un ensemble strumentale come il nostro. Ma, a questo punto, mi viene voglia di sfidarla e di dedicare a questo il terzo volume ...

FB: In questo come in altri casi, credo che il lavoro da fare sia quello di andare a fondo con gli ascolti e andare all'origine delle cose. Se penso a Nashville o a Guitar in the Space Age, quello che mi manca in fase di ascolto è una buona conoscenza dei modelli, cioè dei dischi e degli ascolti radiofonici che lo stesso Frisell ha frequentato da piccolo. La chiave di volta può essere andare a confrontarsi con quei modelli in maniera onesta, senza fermarsi alla superficie.

AS: Giusto, infatti nella prima fase di questo progetto siamo entrati in assonanza con i riferimenti che abbiamo in comune con Frisell, andando a cascare sulle cose a noi più affini e familiari.

AAJ: Per essere ammessi negli Unscientific Italians, era necessario superare un test di scibile friselliano?

ZDR: No, perché altrimenti avremmo bocciato quasi tutti! Ovviamente scherzo!

FB: Scherzi a parte, la scelta dei musicisti del gruppo si è basata sulla nostre amicizie ed abituali frequentazioni musicali, ma anche sulla capacità di confrontarsi con un materiale musicale fortemente idiosincratico. In buona tradizione ellingtoniana, c'è molta eterofonia dentro l'ensemble, ma anche grande attenzione ed uno sguardo aperto verso la tradizione jazzistica.

AAJ: Il disco sarà il primo ad uscire per la neonata etichetta Hora. Come nasce questa nuova avventura discografica?

FV: Hora è un'etichetta che nasce con un obiettivo molto chiaro: essere un contenitore creativo a misura di musicista. È una struttura artist-run fondata e gestita da me insieme a Zeno ed altri musicisti di spicco della scena italiana con i quali abbiamo riscontrato l'esigenza comune di avere un nostro 'spazio' dove poter agire con la massima libertà creativa ed organizzativa, che ci consenta di esprimere la nostra visione senza compromessi. Sono particolarmente felice che la primissima uscita sia il Vol.1 di Unscientific Italians: per la sua dimensione corale, per il suono, per l'attitudine alla ricerca che esprime. Non vedo l'ora che il catalogo si infoltisca di nuovi lavori. Siamo all'inizio dell'avventura ma le sensazioni sono molto positive ed i feedback ricevuti altrettanto.

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