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Jazz&Wine of Peace 2025
Courtesy Luca D'Agostino
Varie sedi
Cormòns
23-26.10.2025
L'edizione 2025 del Jazz&Wine of Peace, la ventottesima, era anche la prima con un nuovo direttore artistico: a Mauro Bardusco, che da sempre curava la rassegna e chenonostante la sua scomparsa nel luglio dell'anno scorso aveva progettato anche la quasi totalità di quella del 2024, è infatti succeduto Enrico Bettinello, lunga esperienza come direttore artistico e consulente in numerosi festival, oltre che profondo conoscitore della scena internazionale.
L'avvicendamento non ha tuttavia mutato la struttura e l'identità del festival, che come gli altri anni ha visto una fittissima serie di concerti disseminati nel corso delle quattro giornate in varie locations della splendida zona circostante Cormòns, nel cui Teatro Comunale si sono tenute quelli delle tre serate. Accanto ai concerti del programma principale anche quest'anno c'erano quelli, più intimi e con formazioni ristrette, della sezione "Taste," a numero limitato e tutti ospitati da piccole aziende vinicole.
Dopo un preludio, lunedì 20 ottobre al Kulturni Dom di Gorizia, con la Zerorchestra che musicava Il fantasma dell'opera, il festival si è aperto la mattina di giovedì 23 presso la prestigiosa cantina Jermann, con il duo della flautista Naïssam Jalal e del contrabbassista Claude Tchamitchian , che non possiamo documentare, ma di cui si è detto un gran bene. Nel primo pomeriggio dello stesso giorno, presso il Castello di Spessa, è stata la volta dei Lilamors, trio austro-sloveno che ha proposto un'accurato accostamento di acustico ed elettronico, con narrazioni ora sognanti, ora più materiche. Protagonista soprattutto la vocalist Ana Čop, che si è avvalsa del lavoro di sound processing di Jaka Arh per alternare il canto e le vocalizzazioni a screziature elettroniche atte a creare atmosfere eteree. Nel canto la Čop ricordava in parte Susanne Abbuehl, mentre nell'incrocio con l'elettronica riprendeva in modo originale l'attuale tendenza a esplorare le possibilità che quest'ultima offre alla voce. Importante e decisivo il ruolo del pianoforte di Thilo Seevers, il cui virtuoso contrasto con l'elettronica conferiva equilibrio al suono del trio, caratterizzandolo in modo originale. Concerto piacevole e non banale, al tempo stesso ben pensato e di ascolto immediato, apprezzato dal pubblico presente.
Assai diverso il concerto successivo, a Villa Attems, altra cantina della zona, che vedeva di scena l'Heart Trio di William Parker. L'artista afroamericano, a cui è stato conferito l'appena istituito Premio Mauro Bardusco, per l'occasione non aveva con sé il contrabbasso, bensì una serie di strumenti etnici in parte modificatiney, ngoni, shakuhachi, duduked era accompagnato dai "fidi" Hamid Drake a batteria e percussioni e Cooper-Moore, anche lui con strumenti etnici ashimba e un'arpa africana o autocostruiticome una sorta di banjo dal lungo manico a loro volta elettrificati. I tre hanno prima dato vita a delle improvvisazioni un po' eterogenee, durante le quali il lavoro di Parker sugli strumenti a sua disposizione non ha pienamente convinto, per poi passare a brani più narrativi e, soprattutto, un paio di blues, abbastanza singolari vista la particolarità della strumentazione. Notevoli il gran lavoro di Drake, sia alla batteria che ai tamburi a cornice, e soprattutto quello di Cooper-Moore, che ha sfruttato in modo eccezionale le particolarissime sonorità dei suoi strumenti etno-elettrici. Un concerto stimolante e apprezzabile, anche se si è sentita un po' l'assenza del contrabbasso di Parker.
La prima giornata si è conclusa in teatro con l'atteso concerto serale del James Brandon Lewis Quartet. Il sassofonista, considerato uno dei massimi interpreti del suo strumento e appena premiato da Down Beat come musicista dell'anno, guidava una formazione di vere e proprie star, con Aruán Ortiz al pianoforte, Brad Jones al contrabbasso e Chad Taylor alla batteria, che infatti non hanno deluso. Su un repertorio prevalentemente di brani originali, il quartetto ha proposto una musica vibrante e coinvolgente, sfoggiando un perfetto interplay e un'esecuzione impeccabile. Grande il lavoro di Taylor, intenso, poliedrico e mai invadente; straordinario il suono di Jones, che pure non s'è preso grande spazio per assoli; fantasioso e spiazzante Ortiz, per chi scrive la punta di diamante del quartetto, capace di aprire scenari inusitati a ogni intervento e di cambiare continuamente approccio alla tastiera. Cosicché anche chi, come lo scrivente, non riesca ad apprezzare più di tanto Brandon Lewis il suono del quale ci sembra troppo uniforme e non molto espressivo non ha potuto non ammirare la formazione nel suo complesso e il concerto, emblema del jazz statunitense contemporaneo.
Il venerdì, come di prammatica, s'è aperto alle 11 del mattino presso la suggestiva Abbazia di Rosazzo, dove vengono ospitati progetti lirici, meditativi e ai confini con la musica classica e liturgica. Stavolta è toccato al progetto Cohors della cantante veneta Valentina Fin, basato su composizioni della tradizione barocca e rinascimentale, riletti in modo originale e che sarebbe riduttivo definire semplicemente con il termine "jazz." Accanto a lei la chitarra e l'elettronica di Marcello Abate e il trombone di Federico Pierantoni, strumenti per certi versi contrastanti e comunque apparentemente capaci solo di un accompagnamento minimale, ma viceversa dotati di una tavolozza timbrica adattissima alla voce nitida della Fin e al repertorio specifico. Da Gesualdo a Monteverdi, da Dowland a Hildegard von Bingen, i canti patrimonio della cultura europea si sono susseguiti in una forma moderna, senza tuttavia perdere suggestione: il tono e l'interpretazione della Fin erano assolutamente contemporanei; il trombone di Pierantoni, pur con molta cura, fraseggiava con modalità quasi jazzistiche; Abate, oltre ad accompagnare alla chitarra, screziava le atmosfere con un uso discreto ed equilibrato dell'elettronica. Cosicché ne è scaturito un concerto elegante e singolare, esaltato dalla suggestione del luogo.
All'ora di pranzo abbiamo avuto occasione di seguire uno dei molti appuntamenti della rassegna "Taste": il solo di Federico Calcagno presso l'azienda Polje di Cormòns. Il clarinettista milanese ha iniziato con un'improvvisazione in cui alternava i clarinetti piccolo e basso a una molteplicità di oggetti campanelli, piccole percussioni, flauti, giocattoliutilizzando anche l'elettronica per diversificare o reiterare i suoni; ha proseguito con una splendida composizione di Guinga dedicata a Gaza, eseguita campionando il clarone in modo da produrre più voci che suonavano contemporaneamente; ha infine concluso con un proprio brano, lirico e profondo. Un set relativamente breve com'è prassi negli appuntamenti "Taste," nei quali il pubblico è a tavola e al cui termine si degustano vini su indicazioni del sommelierma che ha permesso di apprezzare da presso e in più situazioni le indiscutibili doti di quello che è una delle maggiori promesse del clarinetto jazz italiano.
Giusto il tempo di raggiungere Corno di Rosazzo e, alle 15, è la volta di Simona Severini "Fedra," un trio crossover che ha già al suo attivo un album edito da Parco della Musica, completato dal violinista Daniele Richiedei e dal contrabbassista Giulio Corini. La formazione esplora vari generi musicali, presentandoli con un arrangiamento assai curato ed equilibrato dei tre archi (la cantante si accompagnava alla chitarra). A composizioni classiche Monteverdi, Purcellsi affiancavano pezzi moderni Nick Drake e persino Duke Ellington, rendendo però tutto uguale nei colori e nelle atmosfere, in buona parte a seguito dell'interpretazione datane dalla Severini, sempre sullo stesso tono e con la medesima espressività. Una scelta anche legittima, che sembrava però più adatta a un ambito da musica leggera colta che non a quello di un contesto jazzistico, e che ha in certa misura penalizzato anche il brillante lavoro dei due compagni, in particolare quello dell'ottimo Richiedei, autore di validi interventi solistici.
Nuovo rapido trasferimento verso Gorizia, dove alle 18 al Teatro Comunale era di scena un altro dei gruppi più attesi, gli australiani The Necks. Assieme dal 1987, Chris Abrahams, Lloyd Swanton e Tony Buck offrono un'interpretazione unica e molto personale del piano trio: come da copione la performance ha previsto una lunga introduzione, lenta e rarefatta, condotta dal piano, poi affiancato dal contrabbasso all'archetto; una progressiva, e altrettanto lenta, crescita dinamica che portava fino a un intensissimo loop dal quale emergevano sonorità sorprendenti e suoni parassiti; una più veloce decrescita della massa sonora e il suo sfrangiarsi progressivo, fino alla dissoluzione pulviscolare. Questo tipo di approccio al piano trio un effetto lo produce: l'incantamento ipnotico dell'ascoltatore, tipico delle proposte minimaliste, che si fa più potente al crescere della dinamica; ciò a condizione che si riescano a sostenere la ripetitività, la ridondanza e, soprattutto, la prevedibilità del tutto. Condizione alla base anche delle diverse risposte date dal pubblico, con alcuni usciti dal concerto sorpresi e affascinati, altri annoiati e un po' irritati. È il bello delle proposte fuori dall'ordinario.
Il secondo giorno di festival si è concluso con un'altra delle proposte più attese: nel Teatro Comunale di Cormòns era di scena il quartetto della sassofonista londinese Nubya Garcia, già vista al festival nell'edizione 2019. Rispetto ad allora l'artista è parsa cresciuta sotto molti punti di vista ancor più corposo il suono del suo sax tenore, maggiore la presenza scenica, migliore la sua leadership del gruppo, apparso più coeso sebbene abbia ripresentato alcuni discutibili tratti tipici dell'attuale scena londinese: ritmi da discoteca; uso pervasivo delle tastiere elettroniche che oscuravano i contrasti timbrici degli strumenti; eccessive reiterazioni delle frasi entro loop ostinati da parte della sassofonista; immagine ostentata e un po' banale, con l'artista che si rivolgeva al pubblico con modalità da rockstar. Messo da parte questo, il concerto ha avuto momenti d'indubbio interesse, grazie appunto all'autorevolezza del suono della Garcia e all'eccellente lavoro del contrabbassista Max Luthert e del batterista Sam Jones. Può piacere o non piacere, ma da Londra oggi è questo che arriva.
Tutt'altra musica è invece quella che ci arriva dalla Grecia della pianista Tania Giannouli, vista la mattina del sabato a Nova Gorica, presso la sala sotterranea del locale Kulturni Dom. Presentatasi alla testa del suo trio, che include il belga Jean-Paul Estiévenart alla tromba e l'altro greco Kyriakos Tapakis all'oud, la pianista ha proposto musica originale che mescolava con eleganza, brio e numerosi colpi di scena tradizioni diverse: musica da camera, folk balcanico e mediorientale (componenti peraltro della tradizione greca), jazz, improvvisazione, stilemi tratti dalla contemporanea. I brani alternavano lirismi cameristici che ricordavano le atmosfere ECM e strutture frammentate, ricche di cambi di scena, più vicine alla contemporanea; oggettivamente sacrificato quanto a espressività l'oud di Tapakis, limitato com'era a fornire un accompagnamento timbricamente originale, anche se gli è stato giustamente concesso un brano in solitudine, nel quale ha potuto mostrare pienamente le sue possibilità; il trombettista veniva invece lasciato spesso libero di improvvisare sui temi sviluppati dalla pianista, così da conferire alla musica non solo una maggiore imprevedibilità, ma anche notevoli elementi d'espressività individuale, viste le sue notevoli qualità. In un contesto comunque assai interattivo, protagonista è senz'altro risultata la Giannouli, sensibile e sofisticata alla tastiera, ma anche pronta a farsi percussiva e, soprattutto, a "preparare" il pianoforte ponendo sulle corde pezzi di carta, nastri e oggetti, così da modificarne temporaneamente il suono. Per uno spettacolo complessivamente molto bello, tra i migliori del festival, con momenti persino entusiasmanti, forse non totalmente innovativo, ma certo reso personale dalla peculiare formazione strumentale e da tutta una serie di stilemi inusuali e sorprendenti.
Saltato purtroppo per impossibilità materiale di seguirlo il concerto del workshop tenuto da Dan Kinzelman con gli studenti del Conservatorio di Trieste, del quale ci è stato detto molto bene, alle 15 abbiamo assistito a un altro dei migliori concerti del festival, quello del trio Relevé di Anais Drago. La formazione, che quest'anno ha pubblicato un omonimo disco dal vivo, ha confermato quanto di buono già si era detto di lei e dei suoi eccellenti accompagnatori: su un repertorio interamente scritto dalla leader e molto ritmico, in quanto liberamente ispirato alle danze popolari che la violinista suonava da giovanissima nelle sue prime formazioni, i tre hanno dato vita a una musica dagli scenari continuamente mutevoli, piena di sorprese e con ampi spazi per gli apporti individuali, nella quale la componente elettronica interveniva con misura e offrendo delle chiavi in più senza stravolgerne l'impianto acustico. Difficile descrivere quel che sono stati capaci di fare tanto la Drago, quanto Federico Calcagno, che qui ha integrato con grande opportunità nel gruppo e nelle composizioni della violinista quanto aveva fatto vedere in solitudine il giorno prima; meno appariscente, ma non meno essenziale, il lavoro di Max Trabucco, alla cui batteria era affidata la costruzione del terreno sul quale i compagni si muovevano con elegante passo di danza.
Solo la ridotta distanza e una dipartita frettolosa dal bellissimo concerto ci ha permesso di assistere, alle 16,30 per la rassegna "Taste," al concerto in solo di Silvia Bolognesi, tenutosi come omaggio a Mauro Bardusco alla cantina Klanjscek, presso l'Ossario di Gorizia. La contrabbassista, appena nominata direttrice artistica e didattica di Siena Jazz, ha proposto un set nel quale ha suonato ma anche declamato e cantato un brano del maestro William Parker, ha improvvisato con libertà e ha vita a un divertente set musical-teatrale assieme all'operatore culturale Filippo D'Urzo, che recitava una poesia in napoletano, e al fotografo Luca D'Agostino, che appunto scattava. Un set molto sentito sia dall'artista, sia dai presenti, e che ha permesso di apprezzare la splendida musicista in una situazione, il solo, che non pratica in pubblico molto di frequente.
Immediatamente dopo, nella seconda sede slovena del festival, Villa Vipolze, si è tenuto il concerto del quartetto Y-Otis. Formazione multinazionale, ma formatasi sulla scena berlinese, era molto attesa, perché ritenuta artefice di una delle proposte più originali e avanguardistiche dell'attuale jazz europeo. Diretto dal tenorsassofonista svedese Otis Sandsjö, il gruppo ha presentato una musica costruita attorno a un enorme lavoro del batterista olandese Jamie Peetiniterrottamente all'opera con una molteplicità di stilemi per fornire una base sonora e che si basava sul basso elettrico dell'altro svedese Petter Eldh e soprattutto sul sintetizzatore dell'inglese Dan Nicholls. Quest'ultimo traeva dal suo strumento suoni e ritmi campionati, in prevalenza di hip hop, ma talmente frammentati e mischiati da risultare indecifrabili in una massa indistinta di suoni elettrici. In tutto ciò Sandsjö imbracciava di tanto in tanto il tenore e, con atteggiamento teatrale (ha più volte suonato in ginocchio tenendo la campana in aria), emetteva suoni ora flebili, ora più percepibili, sempre comunque legati in brevi riff ripetuti all'infinito, con lo strumento processato elettronicamente con un effetto eco. Originale, non c'è dubbio, ma anche terribilmente noioso! E ciò non tanto per la mancanza di uno sviluppo narrativo, percepita anche nel caso della Garcia e caratteristica delle avanguardie londinesi e berlinesi, quanto piuttosto per la contemporanea e totale assenza anche della componente espressiva individuale e di gruppo, di ogni tipo di fraseggio, di varietà ritmica e di chiare differenze timbriche. Per coloro a cui almeno qualcosa di tutto questo interessi, il concerto non poteva non essere una delusione. Se ciononostante si tratti di un'innovazione che apre la strada alla musica del futuro, lo dirà il tempo.
L'ultima serata nella sede istituzionale del Teatro Comunale di Cormòns stavolta, come in altre occasioni, di sabato per l'eliminazione del concerto serale della domenica vede tradizionalmente di scena una proposta adatta agli ascoltatori più diversi e quest'anno era affidata ai Calibro 35, formazione nota per la rielaborazione delle musiche da film degli anni '50-'70, che alcuni ritengono il miglior gruppo rock del nostro paese e che ha incluso nel proprio programma, specie nel suo ultimo album, anche brani di diretta provenienza jazzistica. Quartetto composto da Enrico Gabrielli a pianoforte, tastiere e sax tenore, Massimo Martellotta alla chitarra e al synth, Roberto Dragonetti al basso elettrico, Fabio Rondanini alla batteria e la regia di Tommaso Colliva, Calibro 35 hanno suonato sul palco di Cormòns una musica tipicamente rock, dai timbri marcatamente elettronici, sonorità estremamente potenti, un'inventiva più scenica che nei dettagli e pochissima improvvisazione. Grazie anche al grande video alle loro spalle che proiettava scene tratte dai film dei quali le musiche erano colonne sonore, le luci in movimento e l'ampio fumo che avvolgeva la scena, lo spettacolo è stato per molti assai divertente. A parere di chi scrive era un po' fuori contesto, ma anche curato e onesto.
L'ultima giornata del festival, la domenica, s'è aperta con un altro dei migliori concerti della rassegna, che è stato per molti (incluso chi scrive) anche una bella sorpresa: quello del trio svizzero Knobil. Capitanato dalla cantante e contrabbassista Louise Knobil, la formazione ha proposto musica originale, in parte vocale e in parte strumentale, che mescolava generi diversi: canzone leggera, jazz, elettronica (ancorché usata in modo assai mirato), cameristica, elementi folk. Il tutto con un paio di fondamentali "leganti": l'ironia e l'inventiva, anche coraggiosa. Grazie alla prima (alla base anche di un abbigliamento strampalato e naif) la leader poteva "catturare" il pubblico con testi surreali (lei è francofona, ma alcuni stralci erano in italiano) e situazioni sceniche teatrali; grazie alla seconda, il trio ha potuto smontare e rimontare le strutture dei brani, dando vita a ritmi anomali, pause inattese e a effetto, suoni dissonanti, lasciando che il tutto fosse comunque fruibile e divertente. Accanto alla Knobil, ottima contrabbassista ed efficacissima alla voce per il tipo di proposta della formazione, ma soprattutto pur nella sua minuta corporatura autentica forza della natura sempre in movimento e pronta a rilanciare dopo ogni pausa, eccellente il clarinettista basso Chloé Marsigny, che si occupava anche degli effetti elettronici: partito un po' lento, ha invece progressivamente mostrato le sue qualità sia su passaggi lirici, ove richiamava la lezione di Louis Sclavis, sia su altri più frammentari ed espressivi. Discorso a parte per il batterista Vincent Andreae: per molta parte del tempo a servizio dei due compagni, se n'è uscito a momenti con brevi assoli, per mostrare verso la fine del concerto tutte le sue qualità con uno più lungo, sorprendente per il modo in cui l'intensità si coniugava con i colori e con un processo narrativo in filigrana. Gran bella sorpresa, un gruppo da seguire con attenzione.
Nel primo pomeriggio, presso la sala di Villa Attems, forte dell'album Senseless Acts of Love, uscito lo scorso anno, un'altra contrabbassista, Rosa Brunello, ha portato il suo quintetto con la trombettista Yazz Ahmed, la flautista e sassofonista baritono Tamar Osborn, Enrico Terragnoli, posto al centro della formazione quasi a equlibrarne i suoni con la sua chitarra e la sua misuratissima elettronica, e il batterista Marco Frattini, e vi si aggiungevano. La musica, sempre molto ritmica e timbricamente composita, è mutata di brano in brano: ora su atmosfere marcatamente africane, anche tribali grazie agli interventi di Frattini, ora più vicine al blues, ora vagamente orentaleggianti, ora persino su ritmi funky. La Brunello e Frattini hanno sostanzialmente svolto un ruolo di perno attorno al quale ruotava la musica, che i due fiati e la chitarra vestivano di trame e colori; anche in questo caso si faceva un po' sentire la tendenza londinese a limitare gli sviluppi narrativi e chiudersi un po' entro riff reiterati, ma qui la cosa contrastava virtuosamente tanto con la nitidezza e la varietà del tessuto ritmico, quanto con gli scenari disegnati da Terragnoli, facendone scaturire una sintesi nella quale anche i contributi della Ahmed e della Osborn prendevano pienamente senso, ancor più nella parte in cui la Brunello ha usato il contrabbasso. Un concerto molto ben realizzato e una musica estremamente ricca e colorata, molto apprezzata dal pubblico.
L'appuntamento conclusivo del festival era presso l'Azienda Agricola Gradis'ciutta, dopo il quale è seguita una piccola festa di commiato, ed era affidato al trio di Maria Chiara Argiro. Interessante pianista romana ormai da tempo di stanza a Londra, l'Argirò sperimenta da tempo con l'elettronica e i nuovi ritmi, ma stavolta si presentava senza pianoforte, con voce, sintetizzatore, campionatore e tastierine, affiancata da un trombettista, Christos Stylianides, e un batterista, Riccardo Chiaberta, a loro volta impegnati anche all'elettronica e ai sintetizzatori. L'artista ha dichiarato di aver realizzato le composizioni "per connettersi con sé e con gli altri," ma il volume con cui venivano eseguite rendeva difficile qualsiasi tipo di connessione: l'Argirò produceva, con tastiere e synth, brevi temi elettrici da discoteca reiterati fino alla ridondanza; Chiaberta ne sottolineava i ritmi con percussioni quasi esclusivamente elettroniche, perciò prive di ogni sfumatura timbrica; Stylianides assecondava le atmosfere con l'elettronica, rafforzandole e rendendo l'impasto una sorta di urlo sobbalzante acusticamente indistinto. Il tutto diventava per chi scrive fisicamente insostenibile quando Stylianides passava alla tromba, usata in modo perlopiù rumoristico (non sia mai che sfuggisse un fraseggio!) e, soprattutto, amplificata in modo talmente violento da costringere a proteggersi le orecchie, già offese dalla violenza dei bassi campionati. In una discoteca e per un certo tipo di pubblico questo tipo di proposta può probabilmente essere intrigante; in un contesto d'ascolto qual era questo è invece più dubbio, tant'è che parte del pubblico ha lasciato le poltroncine e s'è allontanata nel capannone semiaperto dell'azienda, dove le sonorità erano più tollerabili.
La presenza fisiologica di proposte discutibili, persino necessaria in un festival che vuol offrire proposte ad ampio raggio, ovviamente non inficia minimamente l'eccellente valutazione generale dell'edizione 2025 del Jazz&Wine of Peace, alla quale, tutto al contrario, devono essere riconosciuti alcuni meriti importanti. Il più banale è di esser riuscito ad attrarre ben 7.500 presenze nei quattro giorni di concerti, ottenendo il tutto esaurito in ben quattordici su diciassette del programma principale. Il secondo, assai meno banale, è l'incredibile abbondanza di formazioni dirette da musiciste donne in programma: ben dieci, se si include Lilamor, su diciassette! Una dato importante, certo favorito dalla notevole crescita delle artiste in un panorama musicale che fino a non molto tempo fa tendeva a discriminarle silenziosamente o a relegarle al solo ruolo di cantanti (non a caso erano a leadership femminile tutti e tre i concerti che abbiamo considerato migliori), ma anche frutto evidente di una scelta che va sottolineata ed elogiata. Un'ottima partenza, quindi, per il "nuovo corso," diretto da Bettinello, di un festival che si avvicina allo straordinario traguardo dei trent'anni di vita.
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