Home » Articoli » Live Review » Bologna Jazz Festival 2025
Bologna Jazz Festival 2025
Courtesy Francesca Sara Cauli
Varie sedi
Bologna e Ferrara 9 ottobre16 novembre 2025
C'è da domandarsi se si possa definire festival una manifestazione musicale che si protrae per una quarantina di giorni. A Bologna una ragione giustificativa la si può trovare nel volersi ricollegare idealmente al memorabile festival storico, nato alla fine degli anni Cinquanta e conclusosi bruscamente nel 1975. Dopo di allora si è tentato più volte di far rinascere l'evento sotto diverse guide, con esiti alterni e mai duraturi, fino a giungere a quest'ultima realtà organizzativa, che irrobustendosi anno dopo anno è giunta alla ventesima edizione. Sta di fatto che, come negli anni passati, l'orientamento stilistico della programmazione -dovuta ancora una volta al direttore artistico Francesco Bettini, che ora riveste anche il ruolo di presidente della Fondazione Bologna in Musica, responsabile dell'organizzazioneè risultato piuttosto versatile. È stata offerta infatti un'ampia gamma di protagonisti della scena attuale, soprattutto statunitense e italiana: da Billy Cobham e Monty Alexander a Mary Halvorson e Tim Berne, da Kassa Overall a Maria Pia De Vito, da Carmen Souza a She's Analog, da Enrico Intra a Matteo Paggi...
Quest'ampia ed eterogenea offerta di appuntamenti giornalieri ha trovato la sua spontanea collocazione in una distribuzione territoriale che ha coinvolto una quindicina di sedi dentro e fuori il centro di Bologna, diverse per capienza, impostazione gestionale e pubblico. Il che ha permesso di situare ogni gruppo nella sua location più ideale e nel contempo ha consentito ad ogni jazz-fan, non escluso il sottoscritto, di stilare la propria agenda personale secondo i propri interessi e impegni.
Con Jazz on Simphony, un evento coordinato da Paolo Fresu su commissione del Teatro Comunale di Bologna, la programmazione teatrale del festival si è aperta al Teatro Auditorium Manzoni, in due serate successive, nel nome della più aulica, tonica, rassicurante classicità. Cosa ci si poteva attendere se non questo dalla riproposizione di temi più o meno famosi delle colonne sonore cinematografiche dagli anni Quaranta in poi, eseguite dall'imponente orchestra sinfonica del Teatro Comunale, per l'occasione irrobustita da docenti e studenti dei corsi jazz del Conservatorio cittadino e per di più affiancata da solisti del calibro di Joe Lovano e Flavio Boltro? Soprattutto, se si aggiunge che la direzione e gli arrangiamenti erano affidati a un maestro come l'ineffabile Vince Mendoza, si comprende come l'appuntamento rappresentasse un'occasione importante e irripetibile. Abbiamo quindi avuto modo di assistere a una performance di straordinaria ricchezza armonica, dinamica e timbrica, che ha dato luogo a un'alternanza di ampiezze epiche, soste poetiche, aree di mistero, corse incalzanti...
Nel recensire il concerto di Dee Dee Bridgewater alla testa del suo quartetto tutto al femminile "We Exist!" a Fano Jazz by the Sea 2025 avevo speso parole entusiastiche. A Bologna, e presumibilmente ogni sera della sua lunga tournée, si è ripetuta la stessa magia. Poche le variazioni di repertorio, anche se purtroppo al Manzoni gremito non è stato interpretato lo struggente "Strange Fruit." Per quanto riguarda la formazione invece è da segnalare la sostituzione di Shirazette Tinnin con l'efficace Julie Saury alla batteria, rimanendo confermata la presenza della nostra Rosa Brunello al basso e di Carmen Staaf, il cui apporto come pianista e arrangiatrice si è rivelato ancor più convincente e determinante. Oltre alla potenza e alle ricche modulazioni della voce, quello che ha continuato a sorprenderci nella settantacinquenne leader è stata soprattutto la carica espressiva ed emotiva che ha profuso nell'interpretazione di ogni brano di questo programma impegnato, provocando l'istantanea risposta empatica del pubblico. Tutto ciò non è frutto solo di uno smaliziato mestiere, ma è da ricollegare piuttosto a quell'appartenenza identitaria che affonda le proprie radici nelle proteste dell'interminabile periodo post-schiavista, fino ad arrivare all'attuale consapevolezza che porta a contestare, in tutto il mondo, le nefandezze di un capitalismo di marca trumpiana.
Di tutt'altro segno, all'Unipol Auditorium, è stato l'imperdibile concerto del Mary Halvorson Amaryllis Sextet, espressione della più propositiva e valida attualità statunitense. L'impianto strutturale e tematico dei brani in programma è stato gestito con grande compattezza e mobilità al tempo stesso dall'intera formazione, offrendo un'ampia gamma di combinazioni nell'aggregazione strumentale. Anche a livello di sound, la sommatoria dei vari colori delle diverse sezioni ha permesso di produrre una cangiante, madreperlacea varietà di modulazioni. In primis le tipiche note distorte della leader e le sue incalzanti e ampie sequenze di accordi hanno impostato una stretta relazione con i fervidi e risonanti interventi della vibrafonista Patricia Brennan. Il contrabbasso di Nick Dunston si è imposto con un pizzicato possente e ritmicamente ben organizzato, mentre la pronuncia dei due fiati si è diversificata con impronte fra loro complementari: disegnato con determinazione il fraseggio del trombonista Jacob Garchik, più aperto e lirico quello della tromba di Adam O’Farrill. Il drumming continuo, fitto e puntiglioso di Tomas Fujiwara ha ottenuto dal perenne spolverio sui piatti la sua cifra sonora.
Dei due concerti svoltisi al MAST, meritoria e poliedrica istituzione bolognese, è il caso di soffermarsi sul quartetto di Aaron Parks, compositore di original dalle linee sghembe e pianista elegante e compassato, che solo in alcuni brani si è prodigato in assoli particolarmente elaborati. La conduzione del suo repertorio, fra temi sostenuti e swinganti e ballad introverse, non si è distanziata troppo da una concezione mainstream, confermata nel modo di aprire, sviluppare e chiudere i brani, nel ricorso a classiche chase, nel ruolo assegnato al drumming spumeggiante e leggero della giovane svedese Cornelia Nilsson e al contrabbasso dell'esperto Ben Street. La pronuncia neo-cool del tenorista Dayna Stephens, trattenuta, assolutamente priva di vibrato, per lo più sul registro medio, poteva rappresentare l'elemento più eccentrico e aggiornato; tuttavia non ha pienamente convinto per l'intonazione spenta e per la perenne staticità dell'andatura dinamica.
Ancor più che nelle passate edizioni, la maggior parte delle proposte, italiane o straniere, talvolta le più nuove e trasversali, sono state programmate nei jazz club privati e nei centri sociali giovanili: Cantina Bentivoglio, Camera Jazz & Music Club, Bravo Caffè, Binario 69, Cantina Dr. Dixie, Sghetto Club e Locomotiv Club, oltre al Torrione Jazz Club di Ferrara. Spesso tra l'altro si è verificata l'opportunità che in serate diverse lo stesso gruppo fosse ospitato in un paio di queste location.
È stimolante incontrare di tanto in tanto i propri idoli e trovare che la loro musica è sempre autentica, perfino innervata da qualche aspetto di novità. A me è successo con Tim Berne alla testa del suo recente Capatosta Trio, completato da Tom Rainey e dal più giovane chitarrista Gregg Belisle-Chi, e già documentato su dischi Screwgun. Gli original del sassofonista possono partire da introduzioni sfrangiate e rumoristiche o da temi netti esposti all'unisono, oppure ancora da pacate, introverse divagazioni, ma sempre si sviluppano in un crescendo di tensione che raggiunge situazioni parossistiche o reiterazioni di grande efficacia. Allo Sghetto Club, Berne ci ha anche ricordato di essere stato uno dei pochissimi allievi di Julius Hemphill, riproponendo un suo brano spigoloso e visionario. Nel complesso, lo stretto interplay ha esaltato le strutture e l'espressività, oltre che la parabola narrativa, dei singoli brani, mettendo in evidenza il contributo dei singoli interpreti. Se il sound dell'autorevole leader si è fatto forse meno acuminato ma ancor più asprigno e lirico rispetto al passato, il controllo dell'esperto Rainey ha tramato un drumming essenziale ed efficace, mentre il chitarrista si è rivelato una "spalla" del tutto congeniale alle esigenze di Berne, fornendo un fraseggio immaginifico e penetrante, talvolta dalle tinte scure, contrapposte a quelle acute dell'altista.
Per una serie di ragioni, ho perso gran parte dei tredici concerti ospitati al Camera Jazz, ma non mi sono lasciato sfuggire l'ultimo, quello dell'europeo Samuel Blaser Trio, forse il più impegnativo e stuzzicante. Dopo una lenta introduzione, divagante e meditabonda, la ricerca fra composizione e improvvisazione dei treoltre al leader svizzero al trombone, il chitarrista francese Marc Ducret e il batterista danese Peter Bruunè approdata a un intreccio di linee melodico-ritmiche visionario, ma tenuto sempre sotto controllo. Un andamento analogo si è confermato anche nei brani successivi, a volte venati di blues, in cui il composito linguaggio del trombone di Blaser è transitato da introspezioni pensose a sprazzi di caustica ironia, a spunti "grassi" e stentorei. Da anni, il leader ha trovato una sponda sicura, anzi ideale, nelle sorprendenti invenzioni sonore, dinamiche e timbriche del chitarrista. Ma di grande efficacia si è dimostrato anche il lavoro d'interpunzione di Bruun, la cui sobria gestualità orizzontale sulle pelli e sui piatti posizionati in basso ha generato un flusso di ondate ricorrenti, ora smorzate ora sussultorie.
Dopo quattro anni di esperienza, al Binario 69 la ricerca sonora del quartetto di corde Telkujira che includeva per la prima volta la violinista Agnese Amico, che ha definitivamente preso il posto della violista Ambra Chiara Michelangeli si è presentata più puntuale e irrobustita. L'ascolto reciproco ha generato un interplay istantaneo, portando alla stesura consonante di armonie, dinamiche e combinazioni timbriche concatenate in un percorso improvvisativo avvincente, con crescendo empatici e senza momenti di cedimento. Al centro, la coppia violinovioloncello (il notevole Francesco Guerri) a tratti ha monopolizzato la scena con interventi acustici di esasperata forza espressiva, sempre affiancata dalle trame corrusche fornite dalle chitarre e dall'elettronica di Stefano Calderano e Francesco Diodati.
Sempre al Binario 69, tre giovani di varia provenienza ma incontratisi a Siena Jazz i lodevolissimi Cosimo Fiaschi, Stefano Zambon e Pierluigi Foschi, rispettivamente sax soprano, contrabbasso e batteriahanno riproposto il loro progetto G.E.A. Plays the Music of Mulatu Astatke, già su disco Fonterossa, cooptando il maestro Fabrizio Puglisi, sempre disponibile a questo genere di collaborazioni. In occasione di questo terzo incontro del quartetto, Puglisi ha suonato il Fender Rhodes addizionato dal ArpOdyssey. Una sorta di rodaggio per mettere a punto i meccanismi dell'interplay, basato su un brano di Mal Waldron occultato in un intreccio rarefatto, ha costituito il lento avvicinamento ai temi melodico-ritmici di Astatke, Getatchew Mekurya, Abdullah Ibrahim e John Zorn. Nel complesso le interpretazioni sono state per lo più mediate da un'opportuna, pensosa distanza dai modelli originari, approdando gradualmente a movenze relativamente più toniche, coese e stimolanti.
Non sono mancate le conferme, sulle cui proposte, al di là del loro valore riconosciuto, mi limito ad un breve accenno in quanto ci sarebbe poco o nulla di nuovo da aggiungere. Il trio Guano PadanoAlessandro "Asso" Stefana, Danilo Gallo e Zeno De Rossial Binario ha sciorinato con mestiere il suo repertorio di noti brani folk-western-filmici, ammantati di inflessioni gonfie e seducenti, a tratti quasi parodistiche.
Quanto alla solo performance del brasiliano Amaro Freitas, il suo approccio alla tastiera, pur sempre accattivante, ha presentato poche innovazioni di repertorio e di soluzioni interpretative. Nel suo pianismo, che utilizza l'intera gamma sonora dal grave all'acuto, al MAST si sono succeduti arabeschi veloci e leggeri, episodi di piano preparato dalle note afone e martellanti, standard frammentati, circuiti e sommersi in un contesto di arpeggi e scale di diversa natura, riferimenti etnici alla sua cultura d'origine, per esempio quando ha fatto ricorso al loop per sovra-incidere brevi frasi emesse da diversi, piccoli strumenti a fiato, quasi ad intonare un canto alla natura...
Fra le molte iniziative didattiche e promozionali collaterali all'attività concertistica, in estrema sintesi cito solo i due incontri che hanno preceduto gli spettacoli al MAST, trattando aspetti specifici della storia del jazz. Nel primo colloquio Walter Rovere ha intervistato Marcello Piras sulle sue trasversali ricerche di approfondimento sulle origini del jazz, mentre nel secondo Giordano Montecchi ha volutamente e argutamente provocato Stefano Zenni sulla presunta "morte del jazz," presentando la monumentale seconda edizione della sua "Storia del jazzUna prospettiva globale" (Quodlibet, Macerata, 2025).
Tags
Live Review
Tim Berne
Libero Farnè
Italy
Bologna
Billy Cobham
Monty Alexander
Mary Halvorson
Kassa Overall
Maria Pia de Vito
Carmen Souza
She’s Analog
Enrico Intra
Matteo Paggi
Paolo Fresu
joe lovano
Flavio Boltro
Vince Mendoza
Dee Dee Bridgewater
Shirazette Tinnin
Julie Saury
Rosa Brunello
Carmen Staaf
Patricia Brennan
Nick Dunston
Jacob Garchik
Adam O’Farrill
Tomas Fujiwara
Aaron Parks
Cornelia Nilsson
Ben Street
Dayna Stephens
Tom Rainey
Gregg Belisle-Chi
Julius Hemphill
Samuel Blaser
Marc Ducret
Peter Bruun
Agnese Amico
Ambra Michelangeli
Francesco Guerri
Stefano Calderano
Francesco Diodati
Mulatu Astatke
Fabrizio Puglisi
Mal Waldron
Mekurya
abdullah ibrahim
john zorn
Danilo Gallo
Zeno De Rossi
Alessandro “Asso” Stefana
Amaro Freitas
PREVIOUS / NEXT
Tim Berne Concerts
Nov
23
Sun
Support All About Jazz
All About Jazz has been a pillar of jazz since 1995, championing it as an art form and, more importantly, supporting the musicians who make it. Our enduring commitment has made "AAJ" one of the most culturally important websites of its kind, read by hundreds of thousands of fans, musicians and industry figures every month.








