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Fano Jazz by the Sea 2025

Courtesy Andrea Rotili
Varie sedi
Fano
2531 luglio 2025
Jazz for Kids, un Workshop sulla voce, un concerto all'alba, sedute in cui Yoga e jazz interagiscono, incontri letterari sotto la cupola geodetica, concerti nei cortili o dal balcone dell'Arco di Augusto... come sempre Fano Jazz by the Sea ha fatto il possibile per differenziare la sua offerta con iniziative in ambiti collaterali. Per quanto riguarda la programmazione musicale, articolata su diversi contenuti tematici, si è ricorso alle location già collaudate: i concerti serali sul main stage alla Rocca Malatestiana, le solo performance pomeridiane della sezione Exodus nella Pinacoteca San Domenico, mentre il settore Young Stage, dedicato ai gruppi emergenti italiani, come anche le apparizioni notturne di Cosmic Journey, destinate alle attuali esperienze dell'elettronica, si sono svolte al Jazz Village nel parco antistante la Rocca. In particolare vale la pena di sottolineare un aspetto: basta scorrere il composito cartellone del festival per rendersi conto di come la direzione artistica di Adriano Pedini abbia voluto opportunamente rimarcare il fenomeno, ineludibile ormai da anni, dell'alta e qualificata presenza femminile nel panorama jazzistico internazionale.
Mi sembra giusto cominciare questo resoconto da tre concerti ascoltati sul main stage, che hanno riservato forti emozioni. Della musica di Isaiah Collier & the Chosen Few, ascoltata un paio di settimane prima a Umbria Jazz, il concerto di Fano ha rappresentato un'utile verifica. L'ordine delle composizioni, tratte dal recente disco The World is on Fire, e l'andamento dinamico del percorso non hanno ricalcato quelli del concerto perugino, e questo è già di per sé un aspetto positivo. Il sax tenore del leader è emerso fin dalle prime battute come il protagonista assoluto; il suo fraseggio incessante e ubriacante, assecondato da un sound screziato e vibrante, si è inerpicato sul registro acuto con strozzature drammatiche, presentando qualche attinenza con il modello coltraniano. In un altro brano il senso melodico si è disteso in linee più pacate e cantabili, ricche di citazioni, mentre la riproposizione dell'inno americano è stata affrontata con una pronuncia decisamente ayleriana. Sufficientemente incisivo si è rivelato l'apporto dei pertinenti partner: la giovane pianista Liya Grigoryan ha confermato un'impostazione tyneriana, anche se più aggraziata e controllata, il pizzicato della contrabbassista Dr. Emma Dayhuff ha racchiuso in sé la propulsione del walking bass di tanti colleghi del passato, mentre il drumming continuo e incalzante di Tim Regis ha rappresentato la "spalla" costante dell'eloquio del leader. L'impegno politico esplicitato da Collier è sembrato del tutto autentico e nell'insieme il quartetto ha firmato una performance di jazz neo-modale compatta e convinta, con momenti di intensità palpabile.
Ancor più sorprendente e autentica è stata la presenza di Dee Dee Bridgewater, beniamina del festival fanese e protagonista capace di rinnovarsi sempre con repertori fortemente motivati. Quest'anno si è presentata alla testa di un quartetto interamente femminile sotto la sigla We Exist!, riferendosi soprattutto ma non soltanto all'odierna condizione femminile, e presentando un selezionato programma di canzoni di protesta. Colei che in passato poteva all'occasione impersonare una sofisticata e seducente show-woman, sempre estremamente professionale, giunta all'età di settantacinque anni ha scelto di esprimersi come una carismatica, impegnata guida morale, come un'attivista al pari degli autori interpretati: Nina, Billie, Abbey, Bob... Per questo l'ammiriamo e le siamo grati, in questo momento storico in cui abbiamo bisogno di artisti che sappiano esporsi, comunicando in modo chiaro il disagio che tutti stiamo vivendo. Questo aspetto contenutistico, di per sé fondamentale, non deve però distoglierci dal valutare le qualità artistiche: col passare degli anni le sue doti vocali anziché depauperarsi si sono focalizzate su una drammatica autenticità in grado di arrivare diretta al cuore. Strepitosa la sua personalissima e sofferta interpretazione di "Strange Fruit." Le tre partner, galvanizzate dalla sua irrefrenabile presenza scenica, hanno dato il meglio di sé: Carmen Staaf al piano, Rosa Brunello, upright & basso elettrico, Shirazette Tinnin alla batteria. Su tutti gli interventi individuali, segnalo un avvincente assolo della batterista e la lunga introduzione della Brunello a "Trying Times," ombrosa, bluesy, dal piglio mingusiano.
Notevolissima si è rivelata anche l'apparizione, per la prima volta a Fano, del quartetto Ronin, nato nel 2000 e coordinato dal compositore e pianista svizzero Nik Bärtsch. Tutto si è basato sui temi melodico-ritmici del leader, semplici frasi, quasi dei riff, ripetute ossessivamente con graduali variazioni e arricchimenti. Le metriche sono state scandite dagli interventi intrecciati degli infallibili Jeremias Keller, al basso elettrico, e Kaspar Rast alla batteria, ma anche le morbide frasi emesse dal contralto e dal clarinetto basso di Sha e il pianismo martellante e imperioso di Bärtsch hanno svolto più o meno la stessa funzione, creando cioè un contesto sonoro denso, fosco e coinvolgente. L'interplay ferreo all'interno della compagine ha permesso di dare corpo e compattezza alle peculiari idee del leader. Fra decantazioni e poderosi crescendo, deviazioni, stop e riprese dei temi si è sviluppata una musica strumentale neo-minimalista e neo-punk ipnoticamente rituale. A dare coerenza ad una messa in scena dagli aspetti dark di indubbio fascino hanno contribuito i fumi e le luci dei faretti, ora fredde e livide ora di un rosso acceso, gestite da tecnici di fiducia con precisione metronomica.
Se l'originale, ineludibile performance di Ronin ha chiuso nel migliore dei modi la trentatreesima edizione di Fano Jazz by the Sea, sul main stage altri due gruppi, non dello stesso peso artistico ma dall'approccio "onesto," hanno fornito lo spunto per ulteriori considerazioni.
Rachel Z e Omar Hakim, sposati da quindici anni e con tante esperienze in comune alle spalle, supportati dal contrabbassista italoamericano Jonathan Toscano, hanno presentato un programma composito desunto in buona parte da Sensual, ultimo disco della pianista, alternando i brani con simpatiche presentazioni. Si è partiti con un suo original dedicato ad Artemisia Gentileschi, un omaggio a tutte le donne artiste che si sono succedute negli ultimi quattro secoli di storia. Nel corpo del concerto sono comparse una lunga madley comprendente brani di Miles, Trane e Wayne, ma anche una composizione di Toscano ispirata agli anemoni di mare, nonché una citazione di "Quando" di Pino Daniele, con cui la pianista ebbe modo di collaborare. Al pianismo percussivo e rapsodico di sicura efficacia della sessantaduenne Rachel Z, forse troppo legata agli spartiti che consultava in continuazione, ha fatto riscontro il drumming del sessantacinquenne Hakim, supertecnico, perentorio e fluido, anche se stilisticamente un po' datato. Il pizzicato solido e scuro del contrabbassista ha fornito possenti pedali ai due co-leader. Nel complesso si è ascoltato un jazz piacevole, tonico e scattante, anche se un po' troppo nostalgico in quanto ancorato ai moduli accattivanti delle tendenze a cui Rachel e Omar hanno dato un forte contributo negli anni della loro gioventù.
Al suo primo concerto italiano, il giovane trio israeliano di Sharon Mansur, in breve Shasha, costituiva una di quelle incognite a cui ci si accosta con curiosità, una novità assoluta come capita di assistere al festival fanese. Propizio si è rivelato lo spostamento del concerto all'interno del Teatro della Fortuna a causa del maltempo, una location più raccolta e acusticamente più consona alla loro proposta musicale. I seducenti impianti melodici degli original della leader, innervati da decise inflessioni medio-orientali e venati ora di riminescenze classiche ora di vaghi residui di minimalismo, sono stati interpretati con tornita e smaliziata raffinatezza dai singoli, soprattutto dal contrabbassista David Michaeli e dal batterista Aviv Cohen, abilissimo anche se talvolta un po' sopra le righe. Quanto alla leader si è destreggiata con professionalità al pianoforte e ad effettistiche tastiere elettroniche, oltre a condurre il trio con un certo piglio. Il modo di procedere di questa formazione, con sicura baldanza ed evocative, avvolgenti atmosfere, ha manifestato di possedere in tutto i tipici caratteri delle produzioni della Act; questa sensazione ha trovato conferma quando la stessa Mansur ha comunicato che il loro primo disco, Trigger, è stato edito poche settimane fa appunto dall'etichetta tedesca.
I quattro concerti della sezione ExodusGli echi della migrazione, riproposta ogni anno nella convinzione che "nella diversità si crea l'armonia, ma il solo modo per creare l'armonia è accettare le reciproche diversità e farne un valore," si sono tenuti nella ex chiesa di San Domenico, oggi Pinacoteca. Per l'occasione lo spazio centrale in cui si esibivano i performer era incorniciato a destra e sinistra da un'installazione dell'artista Antonella Sabatini, in cui nella bianca purezza di piccolissimi vasi di ceramica accatastati ad arte sul pavimento "ognuno poteva ascoltare... un ronzio dell'universo, una traccia ancestrale, un canto antenato nelle bocche silenziose della terra."
Sulla trama di parole, di racconti, di frammenti verbali registrati e alterati si è basata la performance di Giorgio Li Calzi, dove è prevalsa una fitta e audace stratificazione di sonorità elettroniche ottenute con molti mezzi dalla sapienza manipolatoria dell'autore, che talvolta ha anche imboccato la tromba, per lo più sordinata, per trarne brandelli di frasi di sapore davisiano. Questo percorso complesso, che ha variamente intrecciato materiali e riferimenti, sembrava voler comunicare un messaggio inquietante: la parola, strumento indispensabile di comunicazione, ci appartiene, la percepiamo, la riceviamo e la restituiamo, ma spesso viene occultata, fraintesa, resa incomprensibile dalla babilonica realtà mediatica in cui viviamo... Situazione questa che richiede un'attenta considerazione e una risposta consapevole.
Melisa Yildirim, cresciuta a Istanbul ma ora attiva a Helsinki, è mossa invece da una concezione opposta a quella di Li Calzi, in quanto cerca di conciliare in modo proficuo e plausibile rifermenti al passato e proiezioni nel futuro. Questo le è possibile in quanto virtuosa del kamancha, antichissimo strumento a cinque corde che vengono sfregate con l'archetto in posizione verticale e la cui sonorità può assomigliare a quella del violoncello, ma offrendo una gamma sonora molto più ampia. Dall'alto della sua esperienza a livello internazionale Yildirin ha ricavato dal suo strumento moderatamente amplificato racconti meditativi e nostalgici, fasi più mosse e reiterate, pause e accelerazioni, facendo largo uso del glissando e di continue variazioni di volume all'interno della stessa frase. Il risultato ottenuto è stato di un indubbio fascino e, alle nostre orecchie, di un colore esotizzante.
Un'effettiva rivelazione è venuta anche dalla violoncellista e vocalist di formazione classica Daniela Savoldi, italo-brasiliana cresciuta e residente a Brescia, la cui performance ha saputo compenetrare matrici culturali diverse con spontaneità e invenzioni autentiche. La sua voce espressiva, modulata su un registro drammatico, e il suo violoncello dalle ampie arcate, dalle sonorità decise e un po' brusche, talvolta col ricorso al pizzicato, hanno interagito delineando per lo più melodie e dinamiche d'ispirazione popolare-folk, non necessariamente sudamericane. Allo stesso tempo non sono mancate fra l'altro movenze jazzistiche di sicuro impatto e perfino complicazioni armoniche vicine alla musica colta contemporanea.
La trentottenne Camila Nebbia, argentina ma residente a Berlino, è invece una stella del sax tenore, ben nota nel panorama internazionale del jazz sperimentale. Ascoltarla nel suo programma solitario, anziché in altri contesti come è capitato in occasioni recenti, ha permesso di addentrarci nel suo linguaggio improvvisativo e nella pronuncia del suo sax, che nella sostanza rappresentano una dimostrazione attuale e viva della persistenza dei valori del free. Quello che ha colpito è soprattutto la qualità del sound: una potenza sonora non comune e vibrante e un fraseggiare frenetico, che talora si è soffermato su insistenze nervose, si sono ammantati di infinite variazioni timbriche, anche se in questo percorso estroso ed estroverso non è stato facile individuare la costruzione di una strutturata parabola narrativa.
Fra i concerti della sezione Young Stage, svoltisi nell'ora del tramonto al Jazz Village, in cui si potevano anche consumare birra e piadine, è il caso di approfondire le apparizioni di due agguerriti gruppi che portano una voce fresca e giovane nella scena dell'attuale jazz italiano.
Il quintetto di Matteo Paggi, che ha ripreso il repertorio di Giraffe edito da pochi mesi, comprende due dei jazzisti premiati negli ultimi anni dalla giuria della critica al Premio Massimo Urbani: il contraltista Lorenzo Simoni oltre al leader al trombone. Ne è sortita una musica costruita con grande senso della struttura e della forma, oltre che sostenuta da motivazione e prorompente forza espressiva. A detta del leader questo gruppo rappresenta il suo versante più "mainstream," contrapposto alla formazione internazionale orientata verso una ricerca più sperimentale; certo è che se questo è mainstream, si tratta di una versione aggiornata e avanzata, proiettata verso soluzioni visionarie, con spunti di solismo di veemente e personale determinazione da parte di Simoni e soprattutto di Paggi.
Come per il trio della Mansur, è stato invece trasferito all'interno del Teatro della Fortuna il concerto del trio Gogoducks, il che ha dato luogo ad una fruizione più concentrata della loro musica d'impronta cameristica, che vive anche di attese, di finezze timbriche, per poi inoltrarsi nella pienezza degli sviluppi, ora scanditi con insistenza ora obliqui e contrastati. Le composizioni, tratte dal Cd Palladio a Palla! edito da nusica.org, s'ispirano a nove delle ville cinquecentesche palladiane; in questa operazione, ognuno dei tre comprimariLuca Zennaro alla chitarra ed elettronica, Nazareno Caputo al vibrafono e Francesca Remigi alla batteriaha avuto modo di emergere con autorevolezza sia in veste di compositore sia come strumentista con un preciso ruolo, il cui apporto sonoro e dinamico si è dimostrato estremamente caratterizzato.
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