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Roberto Ottaviano: sul palco e dietro le quinte

Roberto Ottaviano: sul palco e dietro le quinte

Courtesy Luciano Rossetti

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È estremamente opportuno tornare periodicamente ad analizzare le esperienze più recenti di musicisti di grande personalità del panorama jazzistico italiano. Uno di questi è dagli anni Ottanta Roberto Ottaviano, che esordì discograficamente nel 1983 con Aspects, un lavoro rivelatore, in solo e in sestetto, di una potenza espressiva e di una creatività sconvolgenti.

Dopo di allora le collaborazioni e i progetti, discografici o concertistici, si sono susseguiti con cadenza più o meno annuale e sempre di qualità notevole. Negli ultimi dieci anni poi si è instaurata una collaborazione particolarmente affiatata fra il sassofonista e l'etichetta Dodicilune, entrambi baresi.

All'attività musicale di Ottaviano All About Jazz Italia ha dedicato in passato la dovuta attenzione; in particolare è questa la terza intervista che viene pubblicata negli ultimi anni. Le due precedenti—quella da me raccolta nel 2015 e quella del 2017 rilasciata a Neri Pollastri—approfondivano alcuni degli aspetti peculiari del suo messaggio musicale, il rapporto con il sax soprano e l'influenza ricevuta da maestri imprescindibili come John Coltrane e Steve Lacy, senza dimenticare le sue collaborazioni più significative, l'impegno nell'attività didattica e tanto altro.

In questo nuovo colloquio, ci si sofferma ovviamente sul successo perdurante raggiunto con il disco e il gruppo Eternal Love, ma si parla anche di come nel jazz si possano manifestare contenuti politici, oltre che della sua attività di direttore artistico di rassegne e festival, consolidatasi negli ultimi anni. Ne risulta un personaggio motivato da idee estremamente decise, nel pieno della sua maturità espressiva e organizzativa.

All About Jazz: Innanzitutto mi voglio riagganciare all'ultima intervista pubblicata da All About Jazz Italia nel 2017, rilasciata a Neri Pollastri. Nell'ultima risposta lamentavi l'assenza o la povertà d'impegno politico negli esponenti e nelle proposte del jazz del momento; dopo aver citato Mingus ed Ellington concludevi affermando che "Il jazz è sempre stata una musica politica." Nella tua musica come e quali contenuti politici intendi veicolare? Più in generale quali sono oggi i modi per esprimere in musica un contenuto politico?

Roberto Ottaviano: Mi rendo conto che parlare di Musica e Politica, come più in generale di Arte e Politica, sia percorrere un campo sterminato e minato. Spesso sono proprio gli artisti a prenderne le distanze, per varie ragioni più o meno attendibili. Ma come si può non concepire una relazione tra l'Arte e la Politica? Ovviamente bisogna intendersi sul termine. Se riduciamo il tutto alle questioni amministrative e parlamentari, è evidente che la musica, la pittura, e più in generale quelle arti che usano una grammatica differente dalle parole, non hanno la capacità né lo scopo di incidere in quei contesti. Se però pensiamo alla politica come definizione aristotelica, cioè come luogo di incontro tra dottrine, sapere ed agire associato, luogo di scelte che riguardano micro e macrocosmo, allora viene più facile pensare che l'opera di Michelangelo come Guernica di Picasso, "Alabama" di Coltrane o "Remember Rockefeller at Attica" di Mingus mettano in connessione una denuncia, una riflessione, con un linguaggio che apre un diverso canale di comunicazione. Il jazz in generale ha svolto questa funzione anche quando ne sembrava lontano, pur senza esibire manifesti. Per quel che mi riguarda poi non intendo veicolare specifici contenuti politici, ma optare per una costruzione estetica che imponga l'ascolto profondo piuttosto che accondiscendere all'intrattenimento ed alla banalizzazione pop; credo sia una scelta anche politica. Tant'è che questo tipo di approccio subisce una certa discriminazione. Oggi come ieri.

AAJ: Fra le proposte attuali del panorama internazionale, ne riconosci alcune che posseggono un certo impegno politico, nel senso lato del termine?

RO: Alla luce di quel che ho detto poc'anzi ce ne sono sempre meno. Ribadisco, non si tratta di iscrivere la propria band ad una lista di partiti, o pensare alla propria musica come al libretto rosso di Mao Tse Tung, o alla performance come ad un comizio sulle trivelle nel Mediterraneo o sul no Tav. Tuttavia è indubbio che la scomparsa di un gruppo come la Liberation Music Orchestra, o di personaggi come Giorgio Gaslini in Italia, definisca un panorama in cui questa esigenza è sempre meno sentita.

AAJ: In particolare m'interessa conoscere il tuo parere su due tendenze che oggi vanno per la maggiore: la cosiddetta BAM (Black American Music) negli Stati Uniti e in Inghilterra la corrente per certi aspetti "parallela," per intenderci quella impersonata da artisti neri come Shabaka Hutchings, Nubya Garcia ed altri.

RO: In una vecchia intervista su un libro di Mario Luzzi ("Uomini e avanguardie" Gammalibri, 1980), Sam Rivers diceva: ..."non ho niente contro i nomi, Afroamerican Creative Music va bene, Black Music va bene lo stesso, Jazz perché no Jazz ? Vedi, in realtà, queste sono formule di comodo (....) sono gli operatori che definiscono la musica e coniano nomi e categorie...." Lo diceva Rivers, mica io. Del resto la musica che suoni è sempre la stessa pure se la chiami Roba mista, come la chiamava Steve Lacy. Quanto alle espressioni più recenti della scena Black inglese cui hai fatto riferimento, sinceramente resto più affezionato a quanto ha documentato la Ogun Records in tutti questi decenni, anche se comprendo che stiamo vivendo una lunga stagione di semplificazioni.

AAJ: Sono personalmente d'accorso con questa tua ultima valutazione, ma veniamo alla tua recente carriera. Negli ultimi anni sei sempre rientrato fra i primi dieci musicisti italiani dell'anno nel referendum Top Jazz; nel 2022 hai raggiunto la prima posizione. Che effetto ti fa essere riconosciuto dalla critica nazionale come il più autorevole esponente del jazz italiano?

RO: Da una parte c'è un sentimento prossimo alla gratificazione, per un riconoscimento che semmai va ad un impegno incessante di diversi decenni piuttosto che al "musicista" più rappresentativo, ma so anche che si tratta di una onorificenza di una parte di questo mondo. Siamo onesti, non è un plebiscito e non potrebbe mai esserlo, poiché esiste un'altra parte che non ritiene affatto il mio lavoro meritevole in tal senso. Ci sono festival e luoghi storici italiani, come i rispettivi direttori artistici, che non si sono mai degnati di prendere in considerazione il mio lavoro, la mia ricerca, ma a 65 anni me ne sono fatto una ragione. Poi del resto, con una tale proliferazione, un tale "rumore" nel mondo del jazz, implementato da un certo ricambio generazionale nella sua "filiera produttiva," c'è pure chi è nato ieri e che si sente già in vetta pur non conoscendo affatto, non dico me, ma musicisti anche più autorevoli della mia generazione come di quella precedente. Chi mi ha gratificato, credo condivida un'idea di progettualità, di rifiuto di calarsi nelle mode e di una trasparenza espressiva, che dall'altra parte viene invece vissuta come una gran rottura di palle.

AAJ: Evidentemente il riconoscimento è anche un effetto della qualità dei tuoi dischi recenti, in particolare Eternal Love, che rappresenta un vertice della tua maturità. Il gruppo e il progetto di Eternal Love, edito nel 2018, li hai portati in concerto in molte occasioni in questi ultimi quattro anni e le esibizioni continueranno anche nel 2023. Ci puoi dare una tua spiegazione della magia, dell'empatia, degli equilibri che regnano all'interno di questo sodalizio?

RO: Un certo successo di Eternal Love, che ad oggi ha maggiori riconoscimenti all'estero, fa parte di quelle combinazioni fortuite che capitano di rado. È stato il momento in cui ho guardato al mio passato, ai musicisti con cui sono idealmente cresciuto, che hanno dato consapevolezza al sentimento che volevo esprimere. La scelta dei musicisti è stata conseguente. Non è stato difficile individuarli nel panorama musicale e, per fortuna, hanno risposto positivamente. L'empatia che abbiamo costruito attraverso l'intreccio dei nostri racconti e delle esperienze comuni poi si trasforma in un'energia che fa decollare il palco tutte le volte che ci ritroviamo a celebrare i versi ispiratori di William Cullen Bryant contenuti nel disco, come lo spirito della Madre Africa culla del pellegrinaggio della nostra esistenza.

AAJ: La tua pluriennale collaborazione con Alexander Hawkins si è poi ripetuta e perfezionata nel disco in duo Charlie's Blue Skylight, edito nel 2022 sempre da Dodicilune. Cosa ci puoi dire in merito?
RO: Io e Alexander collaboriamo insieme da quasi dieci anni. È uno tra i pianisti più dotati ed interessanti che conosca, in grado di percorrere territori diversi sempre con un guizzo creativo sorprendente. Non è un caso che trovi sempre soluzioni intelligenti quando viene chiamato da Evan Parker o da John Surman. Il primo terreno del nostro incontro è stata la musica di Steve Lacy, filtrata attraverso una conoscenza comune, cioè quella del batterista sudafricano Louis Moholo-Moholo. Da allora abbiamo suonato tante cose differenti, totalmente improvvisate o anche provenienti da un ricco songbook. Due anni fa, mentre in un sound check provavamo alcune cose di Ellington, Alexander mi disse che avremmo dovuto registrarle, perché ci venivano particolarmente bene e coglievano il senso di sospensione del tempo. Francamente non pensavo che potesse essere interessato ad un'operazione del genere, e invece Alex è come me, un viaggiatore del tempo e dello spazio, attraverso l'uso che facciamo dei nostri strumenti. L'anno scorso quindi ci è sembrato naturale fare una riflessione sul mondo di Mingus.

AAJ: Negli ultimi anni ha preso consistenza anche la tua attività di organizzatore concertistico, costituendo nel 2009 l'Associazione Nel gioco del Jazz, di cui sei direttore artistico. Ci puoi raccontare come e con chi è nata questa idea? Quali gli obiettivi, i criteri e le fonti di finanziamento dell'attività dell'Associazione?

RO: Si può dire che praticamente la mia carriera di musicista sia maturata a fianco di quella di curatore di attività concertistiche, fin dalla metà degli anni Settanta. Per necessità e per caso. Dopo numerose avventure nel ruolo di direttore artistico, nel 2009 incontro Donato Romito, persona allora totalmente al di fuori dal nostro ambiente, con la quale mai avrei immaginato di poter costruire ciò che abbiamo costruito in questi quattordici anni. Se questa alchimia ha resistito, a differenza di esperienze precedenti, lo si deve ad un profondo rispetto reciproco, alla sua totale abnegazione, alla sua estrema correttezza, al dialogo che ci ha consentito di attraversare periodi difficili, operando qualche utile compromesso ma avendo come priorità sempre l'idea di una politica culturale seria ed attiva per la nostra città. Le domande che ci poniamo su come mantenere un equilibrio sano tra proposta musicale intelligente, non ruffiana e botteghino, sono quotidiane. La partecipazione con successo modesto ma costante ai bandi comunali, regionali e ministeriali ci aiuta a sopravvivere, ma a noi sta bene così. Facendo altro, che pur sapremmo fare, non saremmo quel che siamo.

AAJ: Perché avete scelto quel nome, che evidenzia soprattutto l'aspetto ludico del jazz, anziché pensare a una denominazione che sottolineasse la sua dimensione socio-politica o il suo sincretismo fra linguaggi e culture diverse o altre peculiarità ancora?

RO: Perché in fondo abbiamo cominciato come un gioco, un gioco per bambini, cioè la cosa più seria e genuina che esista al mondo. Poi oltretutto Donato è un campione di scacchi, gioco non proprio comune e Mingus, Waldron, Mengelberg, Braxton giocavano a scacchi...

AAJ: Il 20 aprile si apre a Bari la seconda edizione di Musiche Corsare, festival emergente, molto mirato nel programma. Ci puoi illustrare sinteticamente i punti di forza di questa edizione?

RO: Musiche Corsare, inaugurato l'anno passato in un'edizione dedicata a Pier Paolo Pasolini, traccia un perimetro preciso che intende mettere in feedback musicisti che danno un valore peculiare all'equazione intrigante tra scrittura e improvvisazione, tra contemporaneità e radici, secondo sfumature diverse. Certamente non una novità, ma di sicuro è l'idea di una resistenza di pensiero che è piuttosto latitante in una passerella di eventi nel nostro paese, a parte qualche eccezione. L'anno passato è servito a mettere a confronto in modo più casuale lo stato dell'arte, tra novità come il quartetto di Enrico Morello, e alcuni autentici monumenti della creatività europea ancora in stato di grazia come Surman e Portal. L'edizione di quest'anno invece, dedicata a George Russell, se si fa eccezione per il solo di Dave Burrell, icona di una grande stagione afroamericana, è tutta volta al contemporaneo ed alla declinazione di strategie attuali nel definire l'improvvisazione come una naturale continuità della composizione. Tanti i musicisti presenti sul palco, da Wayne Horvitz a Jim Black, da Zlatko Kaućić a Samuel Blaser a Marc Ducret, dal MAT Trio di Diodati, Allulli e Baron, fino ad un large ensemble, What Love, che mi darà modo di riunire molti dei musicisti italiani e stranieri presenti al festival, inserendo un altro ospite che conosco da tempo, il trombettista Ralph Alessi.

AAJ: Nel corso degli anni l'Associazione ha organizzato molti altri appuntamenti jazzistici a Bari come in tutta la Puglia. Ci puoi ricordare alcuni dei nomi ospitati, soffermandoti su quelli che si esibiranno nei prossimi mesi del 2023?

RO: Ti farò una lista estremamente succinta di nomi che abbiamo ospitato, così da rendere l'idea della nostra filosofia: Jean-Luc Ponty, Han Bennink, Billy Hart, Kenny Barron, Don Moye, Elina Duni, John Taylor, Paul McCandless, Lars Danielsson, Arild Andersen, Dianne Reeves, Kurt Elling, Maria Pia De Vito, Trilok Gurtu, Ben Wendel, Dan Tepfer, Charles Lloyd, Paolo Fresu, Avishai Cohen, Enrico Rava, Andy Sheppard, Rita Marcotulli, Joe Lovano, Cristina Zavalloni, Richard Galliano.... Nei prossimi mesi avremo con noi il nuovo quartetto di Dave Holland e quello di Linda May Han Oh, il trio di Amaro Freitas, senza contare che siamo stati, e continuiamo ad esserlo, un palco molto presente per tantissimi artisti italiani.

AAJ: Fra l'altro quest'anno sei anche direttore artistico, assieme a Francesca Corrias e Fausto Savatteri, de Il Jazz italiano per le terre del sisma, che si svolgerà all'Aquila il prossimo settembre. Cosa ci puoi anticipare sulle eventuali novità logistiche e sui nomi invitati?

RO: Il programma è ancora top secret poiché sulla base dei tagli e degli esiti ministeriali saremo costretti a fare delle modulazioni, ma posso anticipare certamente che il mio contributo è teso a far dialogare attivamente i luoghi e le strutture presenti in quel territorio insieme ai musicisti invitati. Poi ci è sembrato giusto ed opportuno rilanciare il senso originario del festival con un gesto solidale legato alla recente tragedia umanitaria del terremoto in Turchia e Siria, ospitando alcuni artisti di quelle terre.

AAJ: Infine fra i tuoi impegni musicali dell'anno in corso, concertistici o discografici, ce ne sono alcuni che ti stanno particolarmente a cuore, di cui vuoi metterci al corrente?

RO: Eternal Love sarà in pista come ospite di festival importanti, tra cui il Vossa Jazz festival in Norvegia, il Jazz Festival di Torino, il Festival Jazz di Lubijana, l'Udin&Jazz festival, quello di Skopje. In questi festival registreremo live materiale inedito che farà parte della nostra prossima incisione. Poi inauguro la collaborazione con un giovane chitarrista inglese, Rob Luft, che ha di recente inciso con il nuovo quartetto di John Surman per ECM. Faremo alcuni concerti italiani questa estate che culmineranno a Time In Jazz, il festival di Paolo Fresu a Berchidda, dove ritorno praticamente dai tempi della sua seconda edizione. Per quanto riguarda le edizioni discografiche, da poco ho inciso per Dodicilune, etichetta che mi sostiene da tanti anni, un disco a cui tengo particolarmente perché realizzato con la mia storica band tutta pugliese, Pinturas. Infine ho un sogno nel cassetto che forse diventerà realtà: una collaborazione con Enrico Rava in una band molto speciale. Incrocio le dita, Enrico insieme a pochi altri è stato per me una guida e un punto di riferimento.

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