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Mario Mariotti, ricerca e improvvisazione tra contemporanea e jazz

All About Jazz: Comincerei dal tuo interesse per Bill Dixon al quale ti sei ispirato per mettere in piedi il quartetto con il quale hai registrato due dischi, January 2021 e Live at Angelica. Come ci sei arrivato?
Mario Mariotti: Il mio personale percorso di studi, completatosi con la specializzazione al Conservatorio di Trento, mi ha portato a concentrarmi soprattutto sul repertorio della tromba del Secondo Novecento. Avendo frequentato così assiduamente quell'ambito, ho conseguentemente collaborato con gruppi anche abbastanza importanti di musica contemporanea; come ascoltatore, tuttavia, ho sempre avuto una particolare attenzione per il jazz: quand'ero più giovane per quello più classicoBix Beiderbecke e Louis Armstrong, per intendersi , in seguito un po' per tutto. Ed è proprio ascoltando trombettisti come Bill Dixon, ma anche Dave Douglas, Ralph Alessi o Herb Robertson, che ho colto una certa affinità tra il loro mondo e quello su cui mi ero formato, perché si tratta di musicisti che vengono sì dal jazz, ma che praticano tecniche strumentali della musica contemporanea. Ed è lì che ho capito che potevo cercare un personale sincretismo tra il mio interesse per l'improvvisazionetanto libera, quanto armonica, che comunque non disdegnoe il percorso della tromba nella musica contemporanea. Si potrebbe dire che ho approfondito il jazz "al contrario": ascoltando musicisti, diciamo così, d'avanguardia e cercando poi un contatto anche con la tradizione. Anche se va detto che gran parte dei musicisti d'avanguardia a cui mi sentivo affine a parte forse proprio Dixonnon disdegnavano forme anche più tradizionali, come la canzone: l'esempio principe è Kenny Wheeler, che era a proprio agio in contesti totalmente improvvisati, come con Paul Rutherford o Evan Parker, ma poi suonava con Keith Jarrett in Gnu High, che è un disco molto più tranquillo.
AAJ: Wheeler ha frequentato molto la Toscana e ha lavorato con musicisti locali, anche molto bravi ma assolutamente lirici, che con l'improvvisazione più estrema hanno poco a che fare, trovandosi comunque benissimo con loro.
MM: Certo, perché l'improvvisazioneanche senza volerne fare una questione misticaè oltretutto una pratica che ti permette di capire delle cose di te stesso, tant'è che io la uso nella didattica anche con musicisti che vogliono fare solo musica classica. Perché ti permette di capire veramente dove va il tuo suono. Per esempio, quando ho suonato con Walter Prati o con Gianni Mimmo, in situazioni nelle quali improvvisavamo molto liberamente senza neppure un solo testo scritto, ho capito che m'interessava sì quella libertà, ma che ero anche alla ricerca di una sorta di lirismo e che perciò il mio lavorare sui soffi e sui suoni era finalizzato a creare una sorta di melodia. Magari totalmente astratta, ma sempre una melodia, o comunque qualcosa di lirico. Da questo punto di vista, studiando la storia della pittura mi sono molto ritrovato nell'Astrattismo Lirico, per esempio in Georges Mathieu, un astrattismo che conserva un suo lirismo. Ecco, questa vena lirica a mio parere è presente anche in Bill Dixon.
AAJ: Personalmente trovo il lavoro del tuo quartetto ispirato a Bill Dixon più melodico dell'originale: un po' perché le linee che tu disegni sono a mio parere meno astratte e non incentrate su un'espressività "pura," bensì con una loro consequenzialità narrativa che in Dixon emerge meno; un po' forse perché anche quello che fanno gli altri è più concreto: per esempio i contrabbassi sono più espressivi, costruiscono una tessitura più limpida, laddove nel quartetto di Dixon distendono solo un tappeto di suoni e rumori assai meno leggibile. Tu che ne pensi?
MM: Anzitutto va tenuto presente che noi siamo quattro musicisti italiani, bianchi e che vivono negli anni Venti del 2000, mentre Dixon all'epoca di quel quartetto era un musicista afroamericano che aveva vissuto negli anni Settanta del Novecento, con tutta una serie di esperienze diverse dalle nostre. Inoltre, Dixon registrò quei dischi in quartetto quand'era piuttosto in là con l'età, la qual cosa significa che stava quasi certamente "distillando" sempre più la sua musica, che in passatoper esempio quando suonava con Archie Sheppera stata anche più tradizionale, includendo perfino delle songs. Analogamente, William Parkerche suonava con lui in quel quartettoera un musicista nero con un certo modo di "vivere" il contrabbasso, mentre Emiliano Amadori è un musicista classicoallievo di Scodanibbio, del quale recentemente ha suonato a Venezia la parte nel Prometeo di Luigi Nono , anche se si spinge oltre quell'ambito, mentre Danilo Gallo viene sì dal jazz, ma anche dal rock. Insomma, arriviamo tutti da percorsi ben diversi, non siamo come loro immersi nella scena free. Anche se poi è vero che entrambi i dischi del quartetto nascono da situazioni nelle quali abbiamo suonato senza preparare prima quasi nulla: si è svolta una sorta di "meditazione collettiva," però io ho cercato, con poche parole, di far sì che ci lasciassimo guidare dall'ascolto, senza mettere in gioco idee pregresse. In questo modo, alla fine siamo venuti fuori noi, così come eravamo: per questo, essendo noi comunque figli di una cultura melodica, qual è quella italiana, è venuta fatalmente fuori una musica più lirica di quella del quartetto a cui ci ispiravamo.
AAJ: Insomma, potremmo dire che si sia trattato di due sessioni di improvvisazione durante le quali il quartetto di Dixon serviva da pretesto per costruire una situazione sonora, che però, essendo vostra, è poi andata in una direzione che rispecchiava la vostra sensibilità, il vostro patrimonio artistico, le vostre personalità musicali e umane.
MM: Esattamente. Dixon è un mio ascolto, anche ripetuto e meditato, che credo di aver assorbito, ma è solo uno dei miei ascolti. E, comunque, noi dobbiamo issarci sulle spalle dei nostri ascolti per individuare la nostra strada, che poi sarà la storia a decidere se era davvero originale e interessante, ma che èe restanostra. Questo, per quello che ho capito io, è lo spirito del jazz: assorbire la lezione dei grandi, ma in fase di studio, per poi distillarla nel modo più personale possibile nell'atto creativo.
AAJ: Certo, il riferimento alla musica di un autore o di una corrente resta come sfondo ispiratore: se i "modelli" restano visibili, si è solo degli imitatori, non degli artisti. Ma, per concludere questo argomento, com'è che hai scelto proprio Dixon e quel suo quartetto?
MM: Perché Dixon per me è stato un grande amore. Inizialmente gli avevo dedicato un brano in un disco in duo con Elia Moretti, un percussionista che adesso vive nella Repubblica Ceca: Otto composizioni istantanee, edito dall'etichetta bolognese A Simple Lunch. A quel lavoro si sono poi aggiunti altri ascoltiribadisco che per me il jazz è musica "audiotattile"e altre ricerche, finché a un certo punto mi sono reso conto che Dixon, in particolare in quel tipo di formazione, mi interessava così tanto da richiedermi un intero lavoro specifico. Ne ho parlato con Marco Zanoli e con Emiliano, con i quali abbiamo fatto delle prime libere improvvisazioni, senza velleità concertistiche (avevamo solo pubblicato un video su YouTube); poi, invitati da uno studio di registrazione, abbiamo deciso di coinvolgere Danilo, che è un contrabbassista diverso da Emilianoche lavora spesso con l'arco e con un contrabbasso a cinque cordee perciò a lui complementare. La cosa ha funzionato molto bene: abbiamo registrato a partire solo da quelle che chiamo "chiacchiere preliminari," perché per me il leader di un gruppo è autore e compositore soprattutto nello scegliere i musicisti, come insegna l'esperienza di Duke Ellington, i cui pezzi senza i musicisti che sceglievacioè i Johnny Hodges, i Paul Gonsalves, i Clark Terry, gli Harry Carney...non avrebbero funzionato allo stesso modo. Il che rende Ellington ancora più grande, si badi, perché alle soluzioni musicali forse sarebbe potuto arrivare anche qualcun altro, ma solo lui poteva arrivare alla combinazione di quelle soluzioni con l'aspetto umano, caratteristico solo e proprio di quei determinati solisti. E anche questa è una delle cose che caratterizzano una musica qual è il jazz.
AAJ: Sono perfettamente d'accordo, anzi, aggiungerei che se per illustrare questo aspetto si cita spesso Ellington e la sua orchestra è solo perché, per il carattere sostanzialmente tradizionale della sua musica, l'apporto dei singoli è immediatamente chiaro a tutti, ma la stessa cosa vale anche per qualsiasi altro tipo di formazione, vuoi per la necessità di una forte intesa tra i musicisti, vuoi perché anche l'espressività "astratta," caratteristica di ciascun singolo artista, entra in modo decisivo nella costruzione del suono di un gruppo e perciò va scelta con cura e diventa insostituibile, se si vuol mantenere la stessa identità artistica alla formazione.
MM: Infatti se c'è l'ascolto non serve neppure buttare giù tanta roba su carta: c'è la fiducia ed è già sufficiente. E quando si improvvisa non si deve né forzare le cose a venir fuori, né aspettare che avvengano, ma si deve seguire quel che accade, qualsiasi cosa succeda: questa è la forza dell'improvvisazione. Per valorizzarla è importante non pretendere che funzionino cose pensate prima, bensì adattare le aspettative a quel che accade, che è anche funzione di ciò che sono i musicisti che improvvisano. Questo mi sono reso conto che avviene anche in campo accademico: non è vero, come spesso si dice, che dato un bello spartito e quattro bravi musicisti, il risultato sarà una bella esecuzione; al contrario, se quei musicisti non hanno un rapporto reciproco e determinate caratteristiche, il risultato sarà perlopiù mediocre. Invece un esempio in positivo ce l'abbiamo con una formazione un po' ibrida qual è il Rova Saxophone Quartet: se stanno assieme da mezzo secolo è perché hanno un rapporto reciproco e un equilibrio delle singole personalità; sostituirne un elemento, anche con un musicista bravissimo, non funzionerebbe, anzi, forse sarebbe la fine della formazione. Un altro esempio è Kenny Wheeler, il quale registra un disco come Around 6che mi ha segnato molto e conosco quasi a memoriain cui si passa con naturalezza da momenti estremamente lirici ad assoli "selvaggi" di Evan Parker, perché i musicisti erano stati scelti con cura. I grandi compositori scelgono i musicisti con cui collaborare e, a quel punto, lo spartito, la composizione, serve per dare un tessuto armonico, se serve, oppure una traccia da seguire assieme, ma il resto lo decide ciascun singolo musicista.
AAJ: Andando oltre il tuo quartetto a là Dixon, mi piacerebbe che ci parlassi del disco precedente, uscito per Amirani e dedicato a Boris Vian, Blues pour Boris, che mi sembra qualcosa di molto diverso.
MM: Sì, è certo diverso, ma resta comunque collegato al lavoro su Dixon. Perché in entrambi i casi il progetto artistico parte dall'idea di mettere insieme una formazione che non sia il classico "gruppo jazz," ma che a livello timbrico cambi almeno un po' le carte in tavola. Nel caso del mio quartetto c'era l'idea, ripresa da Dixon, di avere a disposizione ben due contrabbassi e, per giunta, molto diversi tra loro; nel caso di Blues pour Boris, invece, l'ispirazione veniva proprio dall'ascolto dei Rova, ed era l'idea di unire in modo cameristico timbri tra loro molto dissimili, per dar vita a qualcosa che fosse jazz, ma includesse stilemi della contemporanea. Così ho immaginato questa formazione che, accanto a me, aveva un sax soprano e tenore proveniente dal jazz, Luca Segala, un altro soprano proveniente dall'improvvisazione, Gianni Mimmo, poi un flauto basso, Laura Faoro, un clarinettista e clarinettista basso, Emiliano Turazzi, e il violoncello di Walter Prati: insomma una formazione priva di sezione ritmica e strumenti armonici, perciò da musica contemporanea, ma che suonasse jazz. Perché comunque Vian era un appassionato di jazz, ammiratore e amico di Duke Ellington e di Miles Davis, organizzatore di serate jazz a Parigi e persino trombettista dilettante. Leggendo il suo La schiuma dei giorni mi sono fatto un'idea di che tipo di musica potesse adattarsi al libro e così è nato il disco. I pezzi originali si alternano con mie surreali rielaborazione di "Mood Indigo," che nel corso del disco ritorna, via via trasformandosi fino a diventare totalmente irriconoscibile. Il seguito invece si rifà e in certo modo illustra altre parti del libro, sempre alternando momenti più jazzistici ad altri più astratticome del resto fa lo scritto stessoe anche "in bianco e nero," perché mi sono immaginato una corrispondenza anche "di colore" tra le pagine del libro e i suoni della musica.
AAJ: In questo caso quanto c'è di scritto e quanto d'improvvisato?
MM: Qui, anche lasciando da parte la melodia di Ellington che io ho rielaborato in più modi, ci sono varie altre parti proprio scritte, determinate parti scritte sulle quali alcuni improvvisano con una certa libertà e, infine, parti d'improvvisazione guidata, con piena libertà dei musicisti di interpretare le mie indicazioni. La parte più scritta è forse proprio il brano "Blues pour Boris," dove la melodia è centrale e sulla quale ci sono delle improvvisazioni su una scala ottofonica, uno dei modi sviluppati da Olivier Messiaen: quel brano è infatti costruito attorno alla sua musica e a un frammento lirico tratto dal Boris Godunov di Musorgskij. Tutto questo impasto perché la madre di Vian, grande melomane, decise di chiamare il figlio Boris proprio dopo aver ascoltato il Boris Godunov, e lo stesso Messiaen aveva già usato il frammento che utilizzo per rielaborarlo, cosicché io mi limito a sviluppare il suo lavoro, aggiungendovi un blues feeling al fine di avvicinarmi all'estetica dello stesso Vian. Quindi diciamo che anche il disco su Vian è un altro tassello per unire queste mie passioni, il jazz e la musica contemporanea, perché Messiaen, anche se se ne parla meno di altri, è senza dubbio uno dei musicisti che si sono spinti oltre la tonalità e in ambiti accademici più astratti e sperimentali. Personalmente io lo avvicino alla musica dell'ultimo Wayne Shorter, perché c'è in entrambi, sebbene in modi assai diversi, un'armonia che si percepisce, ma che non ha una conseguenza funzionale.
AAJ: Veniamo alle dolenti note: quante possibilità di esibirsi dal vivo hanno progetti come i due di cui ci hai parlato?
MM: Se devo essere sincero, quasi nulle: portare questo genere di musica in giro è estremamente complesso. Diciamo che cose come queste sono quelle che Mario Mariotti fa come artista; poi c'è Mario Mariotti che vuole "vivere di musica," suonando alle volte in Big Band, altre volte musica classica per tromba e organo in chiesa, oppure altro ancora. Però devo dire che quello che faccio non mi intristisce affatto: il fatto di poter portare avanti i miei progetti, che ci siano etichette che li pubblicanocome Amirani per Blues pour Boris, AMP di Oslo per il disco del quartetto, Abeat per il mio ultimissimo lavoro La persistance du rêve , qualcuno che li ascolta e chi li ritiene interessanti, mi permette di dire che adesso va bene così e che forse ci sarà un tempo in cui per queste cose ci sarà più spazio. Forse è anche giusto che ci voglia del tempo per far comprendere lavori che cercano di avere una loro originalità, che vanno oltre l'ordinario, o che non ci sia sempre spazio per tutti coloro che provano a realizzarli: che io lo possa fare e che qualcuno mi ascolti è già un bel risultato.
AAJ: Hai citato il tuo nuovo disco La persistance du rêve: ce ne puoi parlare?
MM: È un lavoro in quartetto anche questo, ancora una volta con musicisti di estrazioni molto diverse: Roberto Olzer al pianoforte, Andrea Grossi al contrabbasso e ancora Marco Zanoli alla batteriaquando posso chiamo sempre lui, perché è un batterista che non si limita a tenere il tempo o fare il metronomo, ma "dialoga" e lo fa anche se si suona uno standard. Anche in questo caso abbiamo registrato senza fare prove, ma stavolta ci sono dei brani scritti, portati su mia esplicita richiesta da tutti i membri della formazione. Come al solito, i musicisti li ho scelti con cura e sapevo che avrebbero seguito la mia idea di selezionare, tra le loro composizioni, quelle che si adattassero a questa formazionesi conoscevano e avevano collaborato tra loro, sebbene non avessero mai suonato tutti assieme. Anch'io ho poi portato una mia composizione, ma anche brani di amici come Dino Betti van der Noot, nella cui orchestra ho suonato, Massimo Falascone, e Giancarlo Schiaffini. Infine, ci sono tre improvvisazioni collettive, senza titolo, che abbiamo realizzato lasciandoci guidare anche da suggestioni pittoriche, in particolare quelle dell'artista francese naïf Henri Rousseau, detto "Il doganiere," dal quale ho anche tratto il titolo del disco. Del risultato sono molto contento: quando suoni con dei bravi musicisti, che hai scelto e che si ascoltano, le cose funzionano.
AAJ: Come devono funzionare, le cose, in un'improvvisazione?
MM: Non deve succedere che tutto si trasformi in un "buttare là" delle cose: nell'improvvisazione devi dare qualcosa di tuo, ma lo devi padroneggiare e costruire insieme agli altri. Quindi si deve essere bravi musicisti ed essere capaci di ascoltare chi improvvisa assieme a te. Sia chiaro, essere bravi musicisti non significa necessariamente esserlo in qualsiasi contesto: ci sono musicisti che non potrebbero suonare un'Opera in un grande teatro di lirica ma che in determinate situazioni improvvisative sono sicuramente più bravi del primo strumentista di questi teatri, perché hanno ascoltato e studiato quei contesti e li padroneggiano perfettamente. Non è quindi una questione puramente "tecnica," ma anche artistica.
AAJ: Lo capisco benissimo, conosco straordinari improvvisatori che riconoscono di avere determinati limiti tecnici e di poter suonare solo certe cose e con determinati compagni.
MM: Certo, perché chi fa il musicista di professione deve essere in grado di capire se può o meno stare nel contesto in cui si trova, e questo vale anche per l'improvvisazione; viceversa, in questo campo si tende troppo spesso a rimestare nel torbido, e questo fa molto male alla libera improvvisazione! Anche perché non aiuta a coltivare la cultura di questa pratica, anche tra il pubblico: a me è capitato di sentire degli ascoltatori giudicare "molto interessanti" improvvisazioni di musicisti bravi e "insopportabilmente noiose" improvvisazioni di musicisti modesti, e la ragione era proprio il fatto che i primi avevano un linguaggio più ampio e una maggiore padronanza dello strumento, cosa che permetteva loro di sviluppare un discorso improvvisato più ricco, articolato, appunto interessante, rispetto a quello dei secondi. Io ho impiegato molto tempo a entrare nel mondo dell'improvvisazione, ma sono comunque partito da una base direi piuttosto solida, visto che ho parecchie esperienze in musica contemporanea, e su diversi palchi importanti (Biennale di Venezia, Huddersfield per esempio); ci sono invece molti musicisti che si sono "infilati" in questo campo senza alcuna preparazione. Il modello positivo dovrebbe essere Giorgio Gaslini: era un eccellente pianista, un grande compositore e un notevole direttore d'orchestra, rispettato anche nel mondo classico; se i progetti che ha fatto in ambito jazzistico e improvvisativo erano di grande interesse è perché si trattava di un musicista completo, che quando voleva esprimere qualcosa lo faceva bene. AAJ: Come dice Schiaffini, è importante avere le capacità tecniche per fare qualsiasi cosa, incluso suonare gli standard a velocità supersonica; poi uno sceglie cosa gli piace fare di più, ma dovrebbe saper fare tutto, non solo quello.
MM: Ti ringrazio di aver citato Giancarlo, che è un mio punto di riferimento e scrisse delle belle note di copertina del disco che citavo prima, Otto composizioni istantanee. Del resto, io stesso se c'è da suonare degli standard non mi tiro indietro, anzi, mi capita spesso e mi diverto. Oltretutto anche gli standard si possono suonare a proprio modo e lo stesso Dixon, secondo me, distillava quello che avevano suonato i musicisti prima di lui, che però suonavano appunto su griglie armoniche! Perché alla fine il lavoro dei musicisti jazz è indissolubilmente legato al timbro: rimanendo alla tromba, ricordiamoci dei trombettisti che andavano ad ascoltare Louis Armstrong per capire come facesse a tirar fuori quei suoni dallo strumento, ma anche che se lui è stato il modello di tutti coloro che sono venuti dopo, a sua volta lui stesso si rifaceva alla ricerca timbrica di King Oliver e quindi, indirettamente, a quella di Buddy Bolden! Oppure pensiamo a Bubber Miley e Cootie Williams: non sono "tecniche estese" quelle per la tromba?! È per questo che il jazz è audiotattile: perché va fatto ascoltandolo.
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