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Jazz & Wine Of Peace Festival 2017

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L'edizione del Ventennale

Jazz & Wine of Peace Festival
Cormòns (GO)
Teatro Comunale di Cormòns e varie sedi nel Collio e in Slovenia
24-20.10.2017

Arrivava all'edizione numero venti il Jazz & Wine of Peace di Cormòns, che ha celebrato l'avvenimento con un disco, un libro (non solo) di fotografie (dei quali parliamo in altre pagine) e sopratutto un programma prestigioso fin dal suo annuncio -ce ne aveva dati cenni il Direttore Artistico Mauro Bardusco in un'intervista -e che, alla prova dei fatti, ha più che confermato le aspettative.

Già il prologo -martedì 24 ottobre, con il trio di Eivind Aarset, Michele Rabbia e Gianluca Petrella, al quale purtroppo non abbiamo potuto assistere -a detta di molti era stato di grande auspicio, ma il giorno dopo l'apertura vera e propria, al Teatro Comunale di Cormòns, ha dato una prima idea di ciò a cui si sarebbe potuto assistere nei giorni successivi. In scena sono andati Steve Coleman and Five Elements, in realtà ridotti a un quartetto con l'eccellente Jonathan Finlayson alla tromba, Anthony Tidd al basso elettrico e a Sean Rickman alla batteria. L'altosassofonista, pur in una sua continuità, ci ha abituato a continui cambiamenti nella propria proposta musicale e anche in questo caso non ha deluso: la tensione che caratterizza da sempre la sua musica si è infatti intrecciata con un discorso più ampio e meditato, che ha preso corpo in particolare nei suoi assoli più lunghi e nei momenti di fitta interazione con Finlayson. I primi infatti hanno permesso di apprezzare lo sviluppo dello splendido suono di Coleman, oggi disposto a esplorare scenari attraverso un fraseggio meno secco, più rotondo, frutto probabilmente di una maturità che, anche nelle interazioni con il pubblico, lo vede più aperto e disteso. I secondi hanno messo in scena dialoghi ricchissimi di invenzioni e di grande varietà timbrica. Unico limite del concerto una qualche ridondanza, che ha fatto sì che non tutte le parti della sua lunga durata fossero allo stesso livello.

I quattro giorni centrali del festival non hanno lasciato respiro agli spettatori, vuoi per la frequenza dei concerti, quattro al giorno, vuoi per la loro distribuzione sul territorio, ciascuno in una sede diversa, vuoi infine per la qualità sempre altissima. Si è iniziato il giovedì mattina presso l'azienda Jermann con il trio Rahsaan, cioè Marco Colonna, Eugenio Colombo e Ettore Fioravanti con il loro progetto dedicato a Roland Kirk. In programma musiche del grande e un po' misconosciuto polistrumentista statunitense, ma anche brani a lui dedicati e una strepitosa improvvisazione come bis, per un concerto che si è avvalso dell'atipicità della formazione -due ance e la sola batteria come ritmica -e della maestria dei protagonisti, oltre che della particolarissima location -all'aperto in un giardino tra le vigne del Collio -che ha permesso una perfetta fruizione in acustico. Da segnalare in particolare la performance di Colombo, storico rappresentante del nostro jazz più curioso e sperimentale ma da troppo tempo sottoesposto, il quale -nonostante un piccolo incidente che aveva danneggiato il suo soprano -ha esordito con una lunga interpretazione in respirazione continua, incredibile per espressività e naturalezza, e ha poi riservato al pubblico una serie ininterrotta di invenzioni espressive, in dialogo con il più giovane ma non meno abile Colonna. Particolarmente entusiasmanti i brani nei quali i due hanno entrambi imbracciato due strumenti, tecnica cara a Kirk e nella quale sono tra i rari esperti contemporanei. Menzione per Fioravanti, capace sia di sostenere la ritmica di una così ardita formazione, sia di adeguare con sensibilità i suoi interventi alla varietà dinamica messa in gioco dai due compagni. Concerto tra i più entusiasmanti della rassegna, forse mancante di un pizzico di "fuoco" in più, ma di rara cura e complessità.

Nel primo pomeriggio, nella sala dell'azienda Villa Attems di Lucinigo, si è presentata Pipe Dream, formazione per quattro quinti italiana e completata dalla presenza del grande violoncellista statunitense Hank Roberts. Il progetto, realizzato per il festival e che vi arrivava dopo un breve tour concluso due giorni prima in sala di registrazione, ha un'identità multiforme, anche grazie al lavoro di scrittura affidato a gran parte dei suoi membri. Atmosfere originali e personali, ancorché attingenti a molteplici ambiti musicali: dal jazz più d'avanguardia, che contribuisce per la complessità delle strutture e degli impasti sonori, alla musica contemporanea, artefice di alcuni momenti maggiormente sublimati, fino al folk americano e al blues, nei quali Roberts ha dato il suo contributo non solo al violoncello ma anche alla voce. Un concerto che ha messo in vetrina una formazione perfettamente coesa, fatta di eccellenti solisti pronti a scambiarsi la front line, dove accanto all'"amico americano" si prendevano spazio ora il trombone di un Filippo Vignato sempre più convincente, ora un come al solito entusiasmante Pasquale Mirra, ora un Giorgio Pacorig che alternava pianoforte e Fender Rhodes, ora lo stesso Zeno De Rossi con pregevoli e sottili interventi solistici alla batteria. Concerto magnifico e sorprendente, dopo il quale la domanda nella testa di molti era "ma nei prossimi quattro giorni qualcuno potrà fare di meglio?." Cheapeau!

Nonostante l'impressione freschissima destata da Pipe Dream, non ha sfigurato nel secondo pomeriggio il ben diverso progetto Nostalgia Progressiva, dedicato alle rilettura del progressive di King Krimson, Soft Machine e Nucleus, interpreti le chitarre di Maurizio Brunod, la tromba e l'elettronica di Giorgio Li Calzi e la voce di Boris Savoldelli. Nella esauritissima sala della cantina Magnas, appena fuori Cormòns, i tre hanno offerto un equilibrato mix di reinvenzione e rispetto, acustica ed elettronica, improvvisazione e adesione a temi famosissimi. Se per estroversione delle invenzioni è spiccato Savoldelli, che ha cantato ma anche utilizzato la voce in modo strumentale e creativo, Brunod ha saputo affascinare con il suo poetico ed evocativo modo di interpretare la chitarra, mentre Li Calzi ha confermato di avere un raro equilibrio nell'impiego dell'elettronica, oltre che essere un eccellente trombettista. La formazione—che ha già registrato il progetto, di prossima uscita—ha ottenuto grande successo presso un pubblico in alcuni casi venuto appositamente per ascoltare questo omaggio a una delle musiche che ha maggiormente influenzato la formazione di molti odierni appassionati di jazz.

La giornata si è chiusa in teatro con il New Quartet di Enrico Rava, l'ultima delle formazioni che il trombettista ha messo assieme pescando tra i migliori giovani musicisti del panorama nazionale. Stavolta al suo fianco figuravano la chitarra elettrica di Francesco Diodati, il contrabbasso di Gabriele Evangelista (onnipresente al festival, figurando in ben tre formazioni diverse) e la batteria di Enrico Morello. La freschezza e brillantezza dei tre ha contribuito a stimolare lo stesso Rava, che ha comunque proposto una musica originale, priva di standard o suoi temi "classici" e invece in inquieta ricerca di soluzioni, attraverso assoli e duetti, specie tra il leader e Diodati. Non in tutti i passaggi il trombettista è parso egualmente ispirato, per cui il concerto ha avuto fatalmente alti e bassi, ma è risultato complessivamente interessante e ha convinto gran parte del pubblico.

Il venerdì è stato inaugurato da un altro degli appuntamenti più toccanti: il concerto mattutino del trio d'archi Hear in Now nella suggestiva cornice dell'Abbazia di Rosazzo. La formazione, che vede il contrabbasso della nostra Silvia Bolognesi accanto al violino di Mazz Swift e al violoncello di Tomeka Reid, ha pubblicato quest'anno il suo secondo e apprezzatissimo lavoro discografico, Not Living in Fear, dal quale ha tratto gran parte dei brani proposti in concerto, e ha messo in luce un'intesa strabiliante e una raffinatezza dei suoni che hanno affascinato l'attentissimo e folto pubblico presente, nonostante un'acustica che penalizzava i momenti dinamicamente più soffusi. Particolare entusiasmo hanno destato i brani nei quali la Swift si è proposta alla voce, rivelando non solo doti tecniche sorprendenti ma anche e soprattutto una capacità interpretativa fuori del comune, commovente. Splendido concerto che ha confermato il valore di questo gruppo, non a caso scelto quest'anno da Roscoe Mitchell quale nucleo centrale della sua nuova formazione.

Nel primo pomeriggio una coincidenza di concerti ha costretto gli appassionati a una dolorosa scelta tra Frontal di Simone Graziano o il duo di Mirko Cisilino e Alessandro Turchet. Il gruppo del pianista fiorentino ha ripagato chi lo aveva scelto con una performance davvero sorprendente e anch'essa tra le migliori dell'intera rassegna. Nella sala del Castello di Spessa, la formazione si è presentata in forma ridotta—senza il contralto di David Binney—e con il leader al Fender Rhodes invece che al pianoforte, cose che avrebbero potuto far pensare a un possibile calo della qualità del progetto, peraltro tra i più interessanti del nostro jazz. Il concerto ha smentito ad abundantiam questo timore, perché se da un lato Graziano—probabilmente forte del lavoro fatto con lo strumento nel suo recente lavoro in trio Snailspace -ha integrato benissimo il Rhodes alla musica della formazione, dall'altro Dan Kinzelman si è caricato sulle spalle l'intero peso della front line dei fiati e, tirando fuori tutto il suo impressionante bagaglio tecnico ed espressivo, si è proposto in una serie di assoli semplicemente memorabili. Particolarmente emozionante, verso la conclusione, il lungo assolo su "Rock Song," prima complesso e frammentato, poi dinamicamente ascendente, senza reiterazioni o frasi prevedibili, che ha esaltato gli spettatori. Non meno apprezzabili Gabriele Evangelista al contrabbasso e Stefano Tamborrino alla batteria, che sarebbe riduttivo riassumere come "ritmica" visti gli spazi individuali che ricoprono nel gruppo, Una delle migliori formazioni non solo del nostro jazz ma della scena europea.

Il contemporaneo concerto del duo guidato da Cisilino non ha comunque deluso, presentando uno scenario alquanto diverso, molto più intimo e pacato, in forma quasi cameristica, basato su un programma di composizioni originali ispirate alla musica popolare, intitolato "Il libro delle danze." Molta melodia, ora contrappuntata dai ritmi spesso reiterati del contrabbasso, ora invece condotta proprio da quest'ultimo con l'archetto -magistralmente usato da Turchet -e poi evidenziata dalla tromba, spesso sordinata. Musica assai originale, che ha mostrato una faccia diversa di un musicista -Cisilino -che è tra i nostri migliori giovani ma che è uso muoversi in contesti dinamicamente più accessi, meno lirici e più scoppiettanti -ambiti che con questo duo non ha in alcun modo fatto rimpiangere.

Dispiace di non poter dire (quasi) niente di uno dei concerti più attesi della rassegna, quello del trio di James Brandon Lewis, tenutosi a Villa Nachini Cabassi di Corno di Rosazzo. Forse la scelta della sala, dal soffitto piuttosto basso, non era la più adeguata per una musica quale quella proposta dai tre, ma certo sarebbe stato possibile adeguarle l'intensità del suono, cosa invece negata dai musicisti fin dal sound check; il risultato è stata una potenza sonora a tal punto esagerata che dopo il primo pezzo quasi un terzo degli spettatori sono stati costretti a lasciare la sala, cosa successa anche a chi scrive. Insostenibile fisicamente in particolar modo il basso elettrico, ma anche la batteria "picchiava" a livelli davvero fastidiosi. Aver ascoltato poco più di un brano rende impossibile dare un giudizio sulla proposta artistica, la quale è stata descritta da altri come "una musica di selvaggia potenza sonica e di travolgente fisicità" che imporrebbe il primato del corpo e del movimento: per i nostri criteri la potenza era decisamente troppo selvaggia e al corpo imponeva il primato della salvaguardia e il movimento della fuga. Ma i criteri estetici non sono mai assoluti ed è giusto che se ne abbiano di diversi e divergenti.

La giornata è terminata in teatro con un pezzo della storia del jazz: la Sun Ra Arkestra, guidata da un incredibilmente arzillo Marshall Allen. La formazione ha presentato la sua consolidata miscela di tradizione e free, di arte e kitsch, forse ormai un po' datata e con alcuni aspetti discutibili (la cantante Tara Middleton non è parsa all'altezza degli altri solisti, il "trenino" dei fiati in platea avanspettacolo d'altri tempi), ma anche costellata da aspetti di indubbia qualità: ottimi tutti i fiati, impressionante il contrabbassista Stephen Mitchell, freschi e ancora sorprendenti per espressività gli assoli di Marshall Allen, classe 1924! Detto questo, per il pubblico si è soprattutto trattato di una festa, vuoi per il tipo di spettacolo, vuoi per l'entusiasmo di trovarsi al cospetto, come dicevamo, di un pezzo della storia del jazz, cosa che non accade tutti i giorni.

Omaggio a un grande del jazz anche il concerto del sabato mattina, come da tradizione tenutosi oltreconfine, al Kulturni Dom di Nova Gorica: Multikulti Cherry On del Cristiano Calcagnile Ensemble. Anche in questo caso, splendida realtà italiana che nulla ha da invidiare a prestigiose formazioni straniere, con eccezionali solisti—da Paolo Botti al banjo e al violino di Stroh a un fantastico Gabriele Mitelli, dal percussionista Dudu Kouaté al pianista Alberto Braida, fino alle due ance Massimo Falascone e Nino Locatelli e al contrabbassista Gabriele Evangelista—che ha dato vita a scenari complessi, coloratissimi e perfettamente coordinati. Merito delle musiche a cui la formazione fa liberamente riferimento, quelle del Don Cherry degli anni Settanta e Ottanta, ma anche della progettualità di Calcagnile e della splendida intesa di tutti i protagonisti. Un progetto che si conosceva per l'eccellente CD uscito lo scorso anno e per i tour già fatti, ma che nel frattempo è cresciuto ancora.

Ancora in terra slovena il concerto del pomeriggio, nella splendida Villa Vipolze, di scena il trio del chitarrista norvegese Jakob Bro, affiancato da due giganti del calibro di Thomas Morgan e Joey Baron, freschi di uscita discografica per ECM. Un concerto che ha catturato solo per la strepitosa performance di Baron, il quale -lavorando a partire dalle invero assai esili linee disegnate dalla chitarra -ha creato musica in modo vivido e tangibile, oltretutto trasmettendo la gioia di quell'atto creativo. Se globalmente il concerto ha un po' deluso, quanto fatto dal batterista lo ha in buona parte riscattato.

Doppio concerto la sera al Teatro Comunale, trasmesso in diretta su Radio Tre da Pino Saulo, prima con l'attesissimo quartetto di Craig Taborn, poi con l'inedito duo di Hamid Drake e David Murray.

Taborn vive un momento particolarmente luminoso della sua maturità artistica, che fa oggi di lui uno dei musicisti più acclamati dalla critica. Il suo quartetto, completato da tre star quali Chris Speed alle ance, Chris Lightcap al contrabbasso e Dave King alla batteria, era anch'esso fresco di uscita discografica per ECM, Daylight Ghost, lavoro dal quale ha tratto buona parte dei brani proposti. Musica brumosa e intimista, estremamente elaborata, nella quale le reiterazioni si affiancano a piccoli, ricercatissimi interventi -in particolare del pianista -che contribuiscono a mutare costantemente gli scenari nel dettaglio, mentre la cifra generale resta costante. Che dal vivo ha però evidenziato due limiti: priva di "picchi" e invenzioni improvvisative, ha sorpreso assai poco e, soprattutto, ha dato l'impressione di girare un po' a vuoto, in quanto mancante di un'identità drammaturgica ben definita -limite, questo, condiviso con non poche altre produzioni contemporanee. Un concerto, comunque, di grande spessore, assai apprezzato da gran parte del pubblico.

Hamid Drake e David Murray non avevano mai suonato assieme prima del concerto friulano, occasione nata solo a causa dell'inopinata defezione di William Parker, in origine previsto assieme al batterista. Il piacere reciproco di suonare con l'altro ha pervaso la loro performance, tutta giocata attorno ad alcuni loro cavalli di battaglia -su tutti, la celeberrima "Flowers for Albert," del sassofonista -sui quali i due hanno costruito brillanti improvvisazioni dal forte impatto espressivo, mettendo in mostra tutta la loro maestria. Un concerto, quindi, festoso e scintillante, forse non particolarmente originale e privo di grandi sorprese, ma certo gradito e adatto alla serata, un po' il clou istituzionale della rassegna e conclusasi con un brindisi finale a base dell'eccellente bianco locale.

Il festival è però andato avanti ancora per l'intera giornata domenicale, iniziatasi presso Tenuta Villanova a Farra d'Isonzo con il sorprendente concerto della trombonista israeliana Reut Regev. Affiancata da una ritmica composta dal marito Igal Foni alla batteria e da Robert Jukic a contrabbasso e basso elettrico, la Regev ha proposto uno studiato ed equilibrato mix di sperimentazione e tradizione, lasciandosi ispirare dalla musica popolare della sua terra, dei Balcani, del vicino oriente, integrate però all'interno di un'identità del tutto personale e arricchendo il tutto con improvvisazioni e forme espressive contemporanee e piuttosto libere. La formazione ha mostrato un perfetto interplay, sebbene la parte della protagonista fosse riservata all'ottone della leader, cosicché la melodicità, la varietà e l'accattivante struttura della musica ha catturato gli ascoltatori.

Ultimo passaggio al Teatro Comunale nel primissimo pomeriggio per il concerto del Luc Ex' Assemblée, quartetto con ancora Hamid Drake alla batteria e i sax di Ingrid Laubrock e Yedo Gibson. La formazione è erede dello spirito musicale libertario che da sempre caratterizza l'ambiente olandese e unisce sperimentazione anche piuttosto astratta ed elaborata -nella fattispecie assegnata in particolare alla Laubrock -con un sound diretto e coinvolgente -grazie alla presenza di Drake -e una divertita e iconoclasta teatralità -incarnata soprattutto dallo stesso Ex, sempre pronto a saltare qua e là sul palco, usando la sua chitarra al contrario o sbattendola sul palco. Al netto di qualche momento di fisiologica ridondanza, un ottimo spettacolo, con una menzione per Gibson, eccellente al soprano.

Gran finale, con "polentata" e fiumi di vino come di prammatica, all'azienda Keber, giusto sul confine tra Italia e Slovenia, dove erano in scena -festa nella festa -i BussDrumBone, in tour in occasione del loro quarantennale di attività. La formazione era analoga a quella della Regev vista al mattino, ma qui il trombone di Ray Anderson è stato assai meno lirico e protagonista, perché Mark Helias si è preso i suoi spazi al contrabbasso e soprattutto la batteria di Gerry Hemingway è stata molto presente, a tratti persino un po' invadente. Grande interazione, certo, frutto di tanti anni di attività -questo è un gruppo storico e capostipite di un certo genere di sperimentazione -ma anche una musica un po' più ostica di quella sentita al mattino, forse perché più rigorosa o forse perché un po' "datata." In generale, modi diversi di interpretare il medesimo impianto strumentale, che poi è il bello del jazz perché permette sorprese e confronti, così come gusti e letture diverse. Tutti aspetti di questa musica che l'edizione numero venti del festival di Cormòns ha nutrito con il suo straordinario programma: appuntamento alla prossima, dunque, che certo gli appassionati organizzatori di Controtempo avranno già iniziato a progettare.

Foto: Luca D'Agostino (Phocus Agency)

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