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Umbria Jazz Winter 2024

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Umbria Jazz Winter 2024
Orvieto, varie sedi
28 dicembre 2024—1° gennaio 2025

Come avviene ormai da 31 anni, Umbria Jazz Winter si svolge nel raccolto, accogliente e suggestivo centro storico di Orvieto nel clima festoso di fine anno, distribuendo i concerti in sedi storiche di grande prestigio. La serata inaugurale si è aperta con un evento inatteso: Ashley Kahn ha consegnato il DownBeat Magazine Lifetime Achievement Award a Carlo Pagnotta, un ambito riconoscimento alla sua lunga e qualificata attività di divulgazione del jazz in Europa. Una carta vincente del festival continua ad essere quella di riproporre alcune formazioni più volte anche in sedi diverse, in particolare al Teatro Mancinelli e alla Sala dei Quattrocento nel Palazzo del Popolo. Avere la possibilità di assistere a repliche dello stesso gruppo permette di fare dei confronti, rilevando che il più delle volte le differenze di repertorio o di approccio interpretativo sono minime da una performance a un'altra; intervengono invece discostamenti tutt'altro che trascurabili nell'acustica delle sale e nell'amplificazione, modificando così la percezione complessiva da parte del pubblico e molto probabilmente degli esecutori stessi. Per questo motivo, nei tre giorni in cui ho potuto seguire il festival, ho scelto di ascoltare due volte i quattro gruppi che più mi incuriosivano: il Joel Ross Trio, l'Emmet Cohen Trio, la cantante Ekep Nkwelle e lo spettacolo "Simply Cinematic" di Ethan Iverson & Umbria Jazz Orchestra. Soprattutto nel caso dei tre combo, sono emerse diversità evidenti nelle loro apparizioni; il resoconto che segue risulta tuttavia da una sintesi incrociata e soggettiva delle impressioni ricevute, senza addentrarsi in pedanti confronti fra le duplici occasioni.

Il vibrafonista Joel Ross, oggi ventinovenne, aveva già partecipato a Umbria Jazz nel luglio 2019, rivelando le ottime qualità che poi sono state riconosciute a livello internazionale. La sua performance, non interrotta da presentazioni verbali, si compone di temi lunghi, evocativi, ciclici, ritorti su se stessi, esaltati solo talvolta da un ampio effetto riverberato dato dall'uso della ventola. Via via le sue linee melodiche vengono puntualizzate e rese più turbinose, mentre la funzione costante e mirata sostenuta da basso e batteria contribuisce a creare situazioni sonore ipnotiche, raggiungendo apici di visionaria esaltazione. L'esigenza per Ross di disegnare strutture e linee melodiche nette e limpide è evidenziata dall'uso delle bacchette: soltanto una per mano invece che due, come si usa ormai da decenni per ottenere complessi impasti armonici, secondo una tecnica diffusa da Gary Burton a partire dalla fine degli anni Sessanta. È invece al pianoforte, su cui si sofferma su un periodare ripetitivo e alonato, che Ross previlegia l'aspetto armonico, lasciando sprigionare l'asciutta, inventiva energia del drumming di Jeremy Dutton . Gli spazi solistici concessi al pizzicato di Germaine Paul sono invece caratterizzati da un sound scuro che scava il discorso in profondità, senza escludere un'agilità virtuosistica nei passaggi più veloci sul registro acuto. Nell'insieme, il personale e insistito senso narrativo del leader e la compattezza del trio raggiungono momenti espressivi di trascinante intensità; non mancano tuttavia momenti in cui il mood diventa estremamente dolce e nostalgico.

Anche Emmet Cohen ha visto il suo lancio in Italia grazie a Umbria Jazz, usufruendo di una residenza all'Hotel Brufani di Perugia nel 2021. Da tempo il trentaquattrenne pianista, nato a Miami ma oggi residente a New York, guida l'affiatato trio completato dal contrabbassista Philip Norris e dal batterista Kyle Poole. Il repertorio, pur comprendendo original, rivisita soprattutto standard famosi a firma di Richard Rodgers, Dizzy Gillespie, Tadd Dameron, James P. Johnson e tanti altri, dando il via a una performance briosa e coinvolgente. Vi prevale l'alternanza fra il piano di episodi appena accennati e il forte di accenti improvvisi, fra un fraseggio discorsivo e rapsodico e frequenti pause di sospensione. Entrambi i partner interpretano al meglio gli andamenti e le intenzioni musicali impostate dal leader. Il pizzicato del notevolissimo Norris, originario del Nord Carolina, nella funzione di accompagnamento traccia un walking bass implacabile o un elegante controcanto, per poi scatenarsi in assoli perentori per volume sonoro e scattante dinamismo melodico. Poole, nato a Los Angeles, produce un drumming diffuso e abbastanza soft, che nei finali si fa pausato, sussultorio e di estremo vigore. Anche se talora sopra le righe, il pianismo di Cohen e l'organizzazione del suo trio s'inseriscono consapevolmente in quella tendenza interpretativa, martellante, estroversa e ben scandita, che rilegge e attualizza i classici profondendo sorprese eccentriche e cantabilità avvincente.

Ekep Nkwelle, nata a Washington venticinque anni fa da genitori immigrati dal Camerun, costituiva una novità assoluta, attesa con grande curiosità, anche per il fatto che la cantante non ha ancora al suo attivo incisioni discografiche. Fin dalle prime battute delle sue esibizioni, il timbro brunito della voce, il tono austero ma confidenziale dell'eloquio, certe note lunghe e i glissando verso il registro basso rispecchiano la sua derivazione da modelli importanti, quali Nina Simone e Abbey Lincoln. Subito dopo emergono riferimenti alla solennità dello Spiritual o al contrario a più vezzose inflessioni del Pop, orientandosi verso il registro acuto; non mancano inoltre omaggi al blues o a ballad accorate, ad Aretha e a Duke. Con il repertorio composito affrontato la Nkwelle dà prova della sua versatilità, dimostrando di possedere temperamento e un grande cuore, oltre a indubbie doti tecniche, in primis un'estensione vocale in grado di dominare un ampio registro. Nel giovane trio che l'accompagna spicca soprattutto l'elegante pianista Luther S Allison, in duo col quale intona un delicato "Come Sunday" di Ellington; la formazione è completata dai pertinenti Jeremiah Edwards e Nazir Ebo, rispettivamente contrabbasso e batteria. Il passare degli anni non potrà che giovare alla personalità della cantante, irrobustendo il corpo della sua voce, focalizzando maggiormente le scelte interpretative e l'autorevolezza del suo approccio.

Quella di quest'anno è la quarta esperienza di collaborazione fra Ethan Iverson, in veste di direttore, arrangiatore e pianista, e la Umbria Jazz Orchestra, comprendente ottimi elementi. In "Simply Cinematic," in cui la formazione è integrata dagli ospiti Thomas Morgan al contrabbasso e Kush Abadey alla batteria, vengono riproposti undici temi di famose colonne sonore: da "La pantera rosa" di Henry Mancini alle musiche di John Barry per "Goldfinger," dall'immancabile Ennio Morricone a Lalo Schifrin di "Mission Impossible," dalla colonna sonora di "Chinatown" scritta da Jerry Goldsmith fino all'omaggio dedicato a Nino Rota a conclusione del concerto dal garbato duo Ethan Iverson—Manuele Morbidini al sax alto. Gli arrangiamenti, sempre piuttosto stringati, rispettano molto fedelmente l'impatto delle linee melodiche originarie, impiegando modalità ricorrenti: la compresenza o il conflitto fra i timbri gravi e quelli acuti; l'incrocio fra vari temi della stessa colonna sonora; a volte il ricorso ad audaci impasti armonici; la compenetrazione fra introduzioni o passaggi allusivi e le note melodie esposte in modo esplicito; l'integrazione o gli scambi di ruolo fra l'orchestra e il trio jazz piano-basso-batteria... In molte occasioni Iverson si ritaglia spazi solistici ben finalizzati ed efficaci ed un espediente anomalo e curioso compare nell'arrangiamento del famoso motivo da "Il terzo uomo," fischiettato dagli orchestrali o scandito col battito delle mani, anziché usare i rispettivi strumenti. In definitiva anche questa produzione esclusiva si è rivelata un'esperienza riuscita e convincente, soprattutto per l'onestà e la partecipazione dell'approccio al materiale sonoro trattato.

Negli ultimi anni, sia a Perugia che a Orvieto, è diventata consuetudine di affidare all'ospite Ashley Kahn, critico di DownBeat, la preparazione e la conduzione di un blindfold test molto impegnativo, da sottoporre a uno dei musicisti presenti al festival. Quest'anno la scelta è caduta sul pianista Ethan Iverson. È sempre stimolante assistere a queste gare di memoria jazzistica e misurarsi con gli ascolti proposti da Ashley; come nelle prove del passato, bisogna riconoscere la professionalità dell'intervistatore americano, ai quesiti del quale Iverson ha saputo quasi sempre rispondere, dando sfoggio di una competenza enciclopedica e facendo di volta in volta commenti soggettivi ma profondi sul brano appena ascoltato e sugli interpreti.

Come anche in passate edizioni, il Teatro del Carmine ha ospitato per quattro pomeriggi consecutivi uno spettacolo multimediale; in "The Feeling of Jazz—un secolo" si alternano o compenetrano tre componenti distinte. In primo luogo i testi concepiti e letti da Guido Barlozzetti, che mettono in relazione la nascita e l'evoluzione del jazz con altri ineludibili fatti sociali e artistici del Ventesimo secolo, fino a sostenere la stretta identificazione dell'espressione musicale con il secolo stesso; ne sortisce un'interpretazione coraggiosa, anche se inevitabilmente parziale e soggettiva, a tratti intellettualistica.

Sullo schermo scorrono in velocissima sequenza le immagini montate da Massimo Achilli e Silvia Spacca: incorniciato dall'Angelo di Paul Klee e l'apocalittico Angelo caduto di Anselm Kiefer, il percorso mette in relazione foto di jazzisti e di opere d'arte di vari periodi, eventi bellici e di ricostruzione, lotte sindacali e riunioni di popolo di vario orientamento; il tutto raramente messo a fuoco in modo realistico, quasi sempre virato, sfuocato, stratificato, smembrato e ricomposto... Contemporaneamente il commento musicale improvvisato dal contrabbasso di Enzo Pietropaoli e dalle percussioni varie di Michele Rabbia non si preoccupa di rispettare ritmi o analogie mimetiche con le immagini; sceglie invece un procedere molto libero su movenze più compassate e astratte, stendendo un panorama sonoro per lo più intimo e fosco, senza escludere di inserire momenti di estemporaneo risveglio o di riproporre caposaldi del jazz, come quando Pietropaoli si rivolge al tema inarrivabile di "Lonely Woman."

Paolo Fresu, uno dei beniamini assoluti nella storia di Umbria Jazz degli ultimi quarant'anni, si era esibito a Orvieto l'ultima volta nell'edizione 2019/20, vale a dire circa un mese prima che scoppiasse l'emergenza Covid. Il ritorno di quest'anno lo ha visto protagonista di quattro apparizioni alla testa di formazioni sempre diverse. Il Devil Quartet, nato una ventina d'anni fa, si presenta come un gruppo dall'impronta democratica, in quanto ogni membro interviene con proprie composizioni nel repertorio in programma. Nel concerto al Mancinelli si susseguono le situazioni diversificate e ben caratterizzate che qualificano la formazione, in cui ciascuno riveste un ruolo ben preciso in stretto rapporto con gli altri. In prima linea s'impone il dialogo fra il leader e la chitarra di Bebo Ferra: al flicorno di Fresu, che prende veloci progressioni vibranti o viene deformato nella sonorità da effetti elettronici, assumendo esasperate insistenze, fanno riscontro le figurazioni nervose di Ferra, che interviene in perfetta sintonia da par suo. Paolino Dalla Porta, con il suo procedere compassato e rassicurante, con la rotonda sonorità avvolgente, rappresenta un fidato ancoraggio, affiancato dal drumming leggero ma fantasioso e incalzante di Stefano Bagnoli.

Sarebbero tanti gli episodi notevoli da ricordare in questa performance: per esempio in "E se domani" Fresu, sempre al flicorno, inventa inflessioni romantiche e imperiose al tempo stesso, confrontandosi prima con Paolino poi con Bebo; in tanti altri brani invece imbocca la tromba, spesso sordinata oppure raddoppiata dall'elettronica, a tratti emettendo note lancinanti o crepitanti. In "Lines," a firma di Dalla Porta, dopo una favolosa introduzione di Bagnoli con le spazzole, un incedere corroborante e riproposto di continuo avvia una sequenza di intrecci e assoli, portando il collettivo ad alti livelli di compattezza ed eloquenza espressiva. Nell'introduzione del brano conclusivo, il tema da "Un posto al sole," è invece Dalla Porta a imporsi con un assolo lungo e poderoso.

Dell'esibizione del più recente trio, che vede il trombettista sardo affiancato da Dino Rubino e Marco Bardoscia, sono riuscito ad ascoltare solo la parte finale. In questo caso, mi sembra che, rispetto al Devil, un mirato repertorio produca differenti equilibri sonori fra i componenti, dando vita a sviluppi più essenziali, dalla comunicativa diretta, secondo uno swing forse più tradizionale. Il bis viene vivacizzato dall' ingresso a sorpresa di Bagnoli con il suo "charleston," che progressivamente invade la scena fino a recitare il ruolo di protagonista, cercando di togliere visibilità al leader con esiti quasi clauneschi. Anche se non ho potuto assistere ai due concerti in cui il Devil Quartet e il trio hanno suonato assieme, ma su repertori diversi, chiudendo il festival umbro, quello che sorprende ad ogni apparizione dei gruppi di Fresu è che non si respira mai aria di routine; dopo tanti anni di collaborazione -il quintetto "storico" ha superato i quarant'anni di vita -hanno del miracoloso la coesione, la motivazione, lo stretto interplay che guidano sempre le sue formazioni composte da forti personalità.

Nell'approccio di Dino Rubino, che in trio affronta al piano un repertorio fra original e standard ben noti, prevale un estenuato, trattenuto intimismo, soprattutto nelle introduzioni e nelle conclusioni dei brani. Di norma negli sviluppi intervengono ora dinamiche più accese, ora accenti pensosi ed enigmatici: è questa ambivalenza probabilmente a costituire il fascino della sua musica. Nei tre concerti di mezzogiorno al Museo Emilio Greco il pianista siciliano è affiancato dai congeniali Marco Bardoscia, contrabbasso, e Stefano Bagnoli, batteria, riproponendo la stessa formazione presente nel disco triplo edito nel 2024 dalla Tǔk Music. La naturalezza e il senso melodico che sostiene il loro rapporto coeso e unitario creano un'atmosfera per lo più soft e rasserenante, senza disdegnare protratte progressioni di robusta espressività.

Al Palazzo dei Sette infine, dall'ora di pranzo a notte fonda si sono succeduti otto gruppi in ogni giorno del festival. Fra questi non mi lascio sfuggire The House Band, un classico quintetto in cui due tenorsassofonisti si alternano in un contino confronto. Piero Odorici sembra avere nel Coltrane della fine anni Cinquanta il suo modello prediletto, pur rivolgendosi anche ad altri maestri di quel periodo; egli espone per lo più un fraseggio puntato, coerente in una costruzione animosa che scandaglia il registro medio dello strumento. Il collega Daniele Scannapieco invece, anch'egli sulle orme di vari esponenti tenoristi della scuola hard bop, tende a creare un linguaggio relativamente più aggiornato e fluido, spingendosi a tratti verso note più acute. La solidità propulsiva della sezione ritmica è garantita dall'esperienza di Luca Mannutza, il cui pianismo macina imperterrito un fraseggio in continua tensione. Il contrabbassista Jasen Weaver conduce una pulsazione costante, anche se un po' rigido e afono nella sonorità. Sempre presente, efficace, immaginifico il supporto del batterista Willie Jones III, nelle fasi di accompagnamento come nelle spumeggianti sortite solistiche. Questo rinnovamento di una persistente tradizione jazzistica, basato su incalzanti temi famosi o su ballad interpretate con innegabile sensibilità narrativa, sembra fatto apposta per ospitare altri colleghi presenti al festival, avviando ribollenti jam session: cosa che è capitata ogni notte.

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