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Umbria Jazz 2024

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Umbria Jazz 2024
Perugia
12—21 luglio 2024

Partecipare a Umbria Jazz significa per me affrontare un'esperienza non solo frastornante, per la molteplicità di stimoli che si ricevono nei diversi luoghi della città e in ogni ora del giorno, ma anche anomala, per certi versi schizofrenica. Da un lato ci sono i concerti che si tengono alla Sala Podiani della Galleria Nazionale dell'Umbria e al Teatro Morlacchi, con proposte jazz di varia natura, dal mainstream ai beniamini di casa nostra; concerti da cui non mi aspetto grandi novità, ma piuttosto conferme sulla classe, sulla forza della tradizione, sulla poesia di espressioni già note, eventualmente affiancate da altre meno conosciute ma più attuali. Al contrario i concerti nella capiente Arena Santa Giuliana, dove approdano per lo più le star del rock, del pop, della musica brasiliana, con nomi internazionali di grosso richiamo ma a me spesso sconosciuti, sono fonte di sorprese, scoperte, emozioni inedite. Nell'edizione 2023 fu il caso della voce incredibile di Rhiannon Giddens e della chitarra di Joe Bonamassa; quest'anno è stata la volta dei Toto, di Fatoumata Diawara e soprattutto di Lenny Kravitz.

Nel pomeriggio del 1° maggio 1968, al Palasport di Bologna, ero presente al concerto della Jimi Hendrix Experience. Nell'assistere all'apparizione di Kravitz mi è venuto quindi spontaneo fare un confronto fra quell'esperienza di oltre mezzo secolo fa e quella perugina di oggi per rilevare più le differenze che le analogie. Sarà anche perché da allora ho ascoltato rare volte concerti di rock, preferendo rivolgermi al jazz di Ornette e Cecil, di Miles e Gato... Cinquantasei anni fa si era in un'epoca eroica, quasi pionieristica anche per il rock; nella musica di Hendrix tutto era nuovo, essenziale, tutto era alla ricerca di una sintesi personale e sconvolgente, era questione di vita o di morte. Oggi invece siamo nell'epoca del gigantismo spettacolare e sensazionalistico, del trasferimento in una dimensione abnorme dove tutto è "iper," tutto è amplificato a livelli parossistici. Non mi riferisco tanto al volume sonoro, adeguatamente elevato, quanto alla complessiva messa in scena, rutilante di idee eccentriche, fumi, luci colorate, riprese e proiezioni in diretta, virate e mosse ad arte... Tutto fa parte di un abbagliante, illusorio e ineludibile effetto visivo, otre che musicale, che aggredisce lo spettatore con soluzioni sorprendenti, surreali o di crudo realismo, ora Kitsch ora di raffinato buon gusto.

Non fa eccezione il mondo espressivo e comunicativo di Kravitz, in cui ha la sua funzione anche la chioma immaginifica agitata dalla tonitruante batterista Cindy Blackman Santana, mentre l'aspetto della lead guitar Craig Ross—la sua magrezza, i suoi occhialini neri, la capigliatura rotonda—può ricordare quello di Noel Redding, il bassista di quel trio storico di Hendrix. Quanto al pubblico, circa 12.000 spettatori gremivano l'Arena per Kravitz a fronte del Palasport bolognese semivuoto per Hendrix (anche se può sembrare incredibile), tanto che il previsto concerto serale dovette essere soppresso.
Riguardo ai contenuti prettamente musicali, va detto che la voce non particolarmente potente e personale del sessantenne cantante e polistrumentista newyorkese ovviamente non può competere con quella ruvida, bluesy, drammatica di Hendrix; a differenza del suo chitarrismo invece, che racchiude un compendio efficace dei modelli più importanti degli ultimi decenni. Ma, soprattutto, è la conduzione dello spettacolo e del repertorio che ha convinto appieno, raggiungendo progressioni imponenti e dando l'occasione a molti partner, oltre ai già citati Blackman e Ross, di emergere in evidenza; ad esempio quando il leader ha accennato alla cantilena di "A Love Supreme," dal nulla è apparso un sassofonista tenore con un intervento stentoreo. Impossibile citarne i nomi, perché purtroppo il catalogo non riportava al completo i componenti della nutrita formazione.

Quattro sere dopo, a Kravitz hanno fatto riscontro i Toto, un'altra super-band di "vecchioni" con pochi innesti più giovani. La loro musica potrebbe essere definita pop, per via della qualità melodica dei temi, dell'ampio uso delle voci da parte di tutti i membri, trascinate dal lead singer Joseph Williamson e talvolta delle risonanze evocative delle tastiere. Ma ben presto essa volge verso ineludibili intensità di matrice rock, con il prevalere di collettivi strumentali e vocali di grande impatto, dagli impasti densi e compatti, mettendo in evidenza a turno i vari protagonisti: in primis la chitarra allucinata di Steve Lukather, la conduzione poderosa del basso elettrico di John Pierce, l'azione intrigante del tastierista Greg Phillinganes, il drumming esorbitante di Shannon Forrest, trincerato dietro un set batteristico abnorme... I sette elementi di Toto hanno confezionato uno spettacolo generoso, super professionale e coinvolgente, entusiasmando una platea di 5000 presenze, composta prevalentemente da fans di età piuttosto avanzata.

Merita attenzione anche la serata tutta africana, conclusa con il recente progetto "London Ko" di Fatoumata Diawara, in cui l'allestimento scenico e musicale ha preso colori, ritmi, rappresentazioni visive tali da cantare un omaggio ad un'Africa futuribile, auspicando un ipotetico ponte fra cultura africana ed europea. La stessa presenza scenica della cantante-chitarrista—l'elaboratissima acconciatura, il trucco pesante ma curatissimo, i monili etnici, il colorato costume—ha assunto il significato simbolico di un orgoglioso riscatto sociale. Di analogo tenore erano i video creati appositamente, immaginifici e suggestivi, proiettati su un enorme schermo alle spalle della formazione. Le strutture semplici delle canzoni presentate sono state scandite con una voce dalla concretezza decisa e impegnata, terminando tutte immancabilmente con chiusure secche. Un gruppo coeso, in cui prevalevano le sonorità di chitarre, tastiere e batteria, ha sostenuto la leader con efficienza ritmica, avviandosi ad un frastornante e frenetico crescendo finale.

La serata era stata aperta da Somi, cantante americana ma con origini africane, già presente nella passata edizione. Anche per lei la motivazione costante è il riferimento all'Africa, rileggendo il modello dichiarato di Miriam Makeba. Rispetto all'apparizione del 2023 la sua interpretazione è parsa ancor più apprezzabile, in quanto prosciugata, condotta su tempi lenti con un'emissione vocale sofferta e intimista, inserendo però anche sprazzi di grida disperate e drammatiche. Prosciugato e funzionale era anche il gruppo di sostegno strumentale, ridotto a un trio in cui ha spiccato il pianista Toru Dodu.

D'altra parte gli appuntamenti all'Arena hanno puntato su una sorta di tenzone a distanza fra voci femminili molto diverse fra loro. La ventiseienne "politicizzata" e logorroica Raye, fenomeno recente della scena inglese, ha calamitato circa 3500 spettatori, in gran parte ragazzine teenager, alcune accompagnate dalle loro ancor giovani mamme. Dotata di una voce pastosa, che si estende su un ampio registro medio-alto, e assecondata da arrangiamenti pop-jazz eseguiti da una band "ingessata" in smoking bianchi di gusto retrò, la cantante e autrice non è sembrata però in possesso di una personalità particolarmente originale.

Di contro la voce brunita e vibrante, l'eloquio compassato, a tratti dolente, della chicagoana Lizz Wright sono parsi totalmente radicati nella tradizione blues della sua città, salvo inserire ogni tanto inflessioni Soul e perfino più attuali deviazioni pop. Tuttavia l'uniformità della sua impronta vocale ha connotato un approccio coerente e affascinante, ma senza picchi particolarmente emozionanti. Non ho potuto ascoltare invece un'altra cantante statunitense, che avrebbe permesso di completare un confronto ideale fra le voci femminili: l'ecclettica Veronica Swift, già presentata ad Umbria Jazz nel 2019, ma in una sede molto più raccolta.

Un eccitante impatto spettacolare è stato inoltre garantito dalla serata dedicata alla musica cubana. Le due formazioni pilotate da due pianisti di primaria importanza, la Chucho Valdes Irakere 50 e La Gran Diversión di Roberto Fonseca, erano accomunate da una ripetitiva fissità ritmica, da un'enfasi che dai due leader si è trasferita automaticamente agli unisoni delle sezioni dei fiati e all'azione incessante dei percussionisti. Fra questi, in Irakere 50, ha goduto di una particolare esposizione il batterista Horacio "El Negro" Hernandez. Quello che invece differenziava le due proposte era la pronuncia pianistica dei due leader, entrambe dal tocco solido e determinato, dalla comunicativa diretta: quella insistita dell'ottantaduenne Valdés ha racchiuso vari stilemi del jazz classico, insistendo su eccitanti reiterazioni, mentre Fonseca, di trentatré anni più giovane, ha presentato un pianismo più frammentato e nervoso, con spunti virtuosistici, tutto sommato più attuale.

Ma all'Arena Santa Giuliana non è mancato il jazz di qualità, concentrato soprattutto in una grande serata di puro jazz statunitense, in cui si sono succeduti due nuovi super-gruppi. Nel primo set, il quartetto formato da Chris Potter, Brad Mehldau, John Patitucci e Johnathan Blake ha ripercorso in parte il repertorio del recente CD Eagle's Point a nome del sassofonista. Il pianista, oggi maturo cinquantatreenne dai capelli grigi, e il sassofonista si sono continuamente scambiati i ruoli per sviluppare improvvisazioni sui temi eseguiti: alle scale avvincenti, alle insistenze e alle deviazioni di Mehldau hanno fatto riscontro le possibilità pressoché infinite del tenorista, che gli hanno permesso di costruire un fraseggio immaginifico ma conseguente, con un sound seducente, memore di tanti modelli del passato. Il pizzicato sontuoso di Patitucci, condotto sull'intera cordiera, ha elaborato un eloquio di grande mobilità, mentre la postura eretta di Blake, con le braccia distese verso le pelli e i piatti, ambedue disposti in basso alla stessa altezza, ha permesso al batterista il minor dispendio fisico, ottenendo un drumming agile e variegato, di sicura efficacia. Ottima quindi la loro performance, che ha racchiuso molte delle modalità tecniche ed espressive della storia del jazz, riproponendole secondo inflessioni personali. Tuttavia, pur risultando Potter il vero armonizzatore dei risultati musicali, non si può negare che l'impressione sia stata, come tante altre volte in passato, quella di assistere a una formazione eclatante creata per l'occasione, aggregando quattro forti personalità.

Tutto sommato si è rivelato più convincente, anzi entusiasmante, il secondo set della serata col progetto Gil Evans Remembered in cui l'ottantunenne Pete Levin ha raccolto molti dei jazzisti che hanno fatto parte dell'orchestra diretta dal leader canadese negli anni Settanta e Ottanta. Oggi tutti ampiamente ultrasettantenni, ma ancora mossi da una motivazione, da idee ed energie invidiabili. I tanti assenti, che purtroppo nel frattempo ci hanno lasciato, sono stati opportunamente ricordati dallo stesso Levin: George Adams, Lew Soloff, David Sanborn...

L'operazione non è risultata un nostalgico omaggio, non una rigida e ossequiosa rilettura di un classico del jazz, in quanto, in pieno spirito evansiano, è prevalsa un'improvvisazione collettiva e individuale aperta e vibrante, che è riuscita a rivitalizzare il repertorio e gli arrangiamenti originali, facendoli apparire del tutto attuali; una verve autentica e un interplay mobilissimo hanno compattato le voci inconfondibili degli interpreti. Sotto la pulsazione morbida e insinuante del basso elettrico di Mark Egan e della batteria di Danny Gottlieb, mai invadenti, hanno preso il volo i guizzanti assoli dell'altista Chris Hunter, del sopranista Alex Foster (stentoreo al tenore), del trombettista Alex Sipiagin, la nota riflessiva del corno francese di John Clark, le sortite essenziali e compatte del chitarrista Dave Stryker, le pronunce scure e irruente dei trombonisti Tom Malone e David Taylor, l'incalzante azione percussiva di Beth Gottlieb.

Dopo essermi dilungato, a differenza degli scorsi anni, sui protagonisti principali dell'Arena Santa Giuliana, esibitisi dal 13 al 19 luglio, passo alle molte conferme positive venute dai concerti del Teatro Morlacchi e della Sala Podiani, della quale va segnalata una volta per tutte l'acustica rimbombante inadatta ad accogliere i gruppi. Delle apparizioni in queste due location mi limito a dare dei resoconti telegrafici, delle mini-recensioni "in pillole," sperando comunque di rendere l'essenza delle proposte ascoltate. È d'obbligo cominciare dal decano Kenny Barron: in trio, il pianista ha dispiegato la sua classe stagionata, dalle linee sicure e distese, che deriva dalla consapevolezza con cui interpreta una tradizione jazzistica fatta propria.
Abbellimenti virtuosistici e un approccio quasi da musica classica hanno caratterizzato il linguaggio del pianista venezuelano Luis Perdomo e del contraltista di Porto Rico Miguel Zenon, che, con ottima coesione e un languore tutto latino, hanno interpretato composizioni di vari autori del Sud America. Per il repertorio per lo più sudamericano, per l'interplay con continui scambi di ruolo, per il virtuosismo strumentale, non molto diverso è risultato l'orientamento del duo Vincent PeiraniEmile Parisien. Quello che ha connotato la loro performance è stato l'ambito sonoro, determinato dalla fisarmonica e dal sax soprano, e la loro verve tipicamente francese. L'apparizione in solo di Peirani ha messo in evidenza atmosfere introspettive, che via via si sono animate con idee melodico—ritmiche eccentriche e anomale, per approdare a versioni molto personali e contrastate di canzoni ben note.

La solo performance dell'ottantatreenne Franco D'Andrea ha donato un pianismo dalla raffinatezza arabescata e immaginifica, ora intimista ora tinta di blues. Colpisce sempre l'indipendenza delle sue mani, che gli permette di affrontare brani propri e altrui in modo impegnato e trasversale. Un esempio altrettanto classico dell'italianità jazzistica, ma diversissimo da quello di D'Andrea, è stato incarnato dal pianismo di Danilo Rea. Risulta sempre avvincente il suo modo di circuire o aggredire, alternare o intrecciare, con inventiva e determinazione percussiva, i brani di un repertorio molto composito. La scena pianistica italiana era completata dalle apparizioni solitarie di Rita Marcotulli, Ramberto Ciammarughi e Giovanni Guidi, alle quali non ho potuto assistere. Il trentasettenne spagnolo Marco Mezquida, nome nuovo per le scene italiane, ha proposto un pianismo totale, in cui si sono compenetrate varie componenti: musica classica a cavallo fra Otto e Novecento, inflessioni folkloriche, minimalismo, piano preparato, improvvisazione jazzistica... Notevolissimi il suo senso delle dinamiche, la brillantezza del suono, la ricchezza timbrica.

Singolare e coraggiosa la rilettura del mondo di Louis Armstrong da parte di Mirco Rubegni, attorniato dai partner ideali. Fra le vampate di suono della chitarra di Gabrio Baldacci e il costante, morbido accompagnamento di Glauco Benedetti alla tuba, ha svettato la tromba guizzante ma asciutta del leader. Infallibile l'obliqua e personale conduzione ritmica di Federico Scettri, coadiuvato dal percussionista Simone Padovani.

Dopo sette anni di sodalizio è apparso sempre creativo e motivato il duo Pasquale MirraGianluca Petrella. Al materiale tematico ha dato vita la loro improvvisazione palpitante e la sontuosità dei loro sound complementari. L'uso sapiente e indispensabile dell'elettronica e di basi preregistrate ha conferito una compattezza e una continuità ipnotiche alla loro musica gonfia di umori ancestrali.

Tutto è funzionato a meraviglia anche nel trio del pianista emergente Christian Sands: tecnica ed espressività hanno creato ricche armonie, un sound potente, un drive incalzante, un interplay fluido, ma allo stesso tempo tutto si è mosso a conferma, anzi ad esaltazione, della tradizione statunitense più riconoscibile, senza donare novità sorprendenti, capaci di portare il jazz in un altrove sconosciuto.

Un messaggio opposto è venuto invece dal quartetto italo-francese Weave4 (Francesco Diodati, Francesco Bigoni, Benoit Delbecq e Steve Arguelles), che, rispetto alle linee di Umbria Jazz, è risultato un po' tangenziale e anomalo. L'astrazione melodica, ritmica e timbrica della loro sperimentazione ha evocato situazioni meditative e problematiche, a tratti quasi inquietanti, ma anche intrise di una poesia intima e reticente.

Fra gli appuntamenti del Teatro Morlacchi è il caso di soffermarsi sul concerto di Enrico Rava alla testa dei Fearless Five. L'esposizione dei temi, d'annata o più recenti, si è limitata all'essenziale, facendo prevalere le introduzioni, gli intermezzi, i passaggi di raccordo, le deviazioni, in cui un'improvvisazione del collettivo ha fatto emergere il contributo di ognuno. La chitarra di Francesco Diodati, al fianco del trombettista da una decina d'anni, ha elaborato interventi forbiti, ora con attacchi sgranati e nervosi ora con una narrazione più poetica. La pronuncia del trombonista Matteo Paggi, musicista sempre più maturo, ha alternato note nitide e staccate ed altre lunghe e rotonde, intraprendendo duetti intensi con il leader e con Diodati. Il ponderato procedere di Francesco Ponticelli, anch'egli collaboratore di lunga data di Rava, e il drumming di Evita Polidoro, frastagliato e leggero, timbricamente vibrante, hanno fornito un tessuto ritmico molto caratterizzato. Una breve digressione, malinconica e struggente, è stata la canzone intonata dalla Polidoro in duo con il chitarrista.

Soprattutto, sorprendente è stata la forma dimostrata dal leader, che ha previlegiato la tromba al flicorno con tecnica ammirevole, compenetrando il suo fraseggio crepitante soprattutto con la voce complementare e suadente di Paggi, ma anche a turno con tutti gli altri. Un concerto memorabile, decisamente più coeso e creativo rispetto a quello ascoltato sette mesi fa ad Orvieto, in cui il compositore e leader (ottantacinque anni il prossimo 20 agosto) ha gestito i più giovani partner con mano leggera, quasi con disimpegno, fidandosi dell'affiatamento palpabile che ormai li lega e lasciando loro un'ampia iniziativa nel collegare le varie situazioni di volta in volta affrontate.

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