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Simone Guiducci: il ritorno del Gramelot

Simone Guiducci: il ritorno del Gramelot

Courtesy Rocco DeLillo

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Il recente Mantova Jazz Festival ha visto il ritorno del Gramelot Ensemble di Simone Guiducci, uno dei gruppi più originali del jazz italiano nell'ultimo trentennio. Dopo una lunga pausa, il chitarrista e leader lombardo ha rimesso assieme i membri storici della formazione per quella che non è una riunione celebrativa ma un ritorno in piena regola. Lo sviluppo di un progetto nato nel 1995 che ha realizzato in sette album ospitando Chris Speed, Enrico Rava, Don Byron, Ralph Alessi, Erik Friedlander, Maria Pia De Vito, Gianni Coscia e altri. In quest'intervista Guiducci non si limita a parlare del Gramelot ma spazia a tutto campo, dai suoi progetti su Django Reinhardt a riflessioni sull'attualità.

All About Jazz: Il 26 ottobre scorso, in una serata di Mantova Jazz, sei tornato a guidare il Gramelot Ensemble, dopo una decennale assenza dalle scene. Com'è nata l'idea del rientro e quali sono le ragioni della lunga assenza?

Simone Guiducci: Le ragioni sono multiple. Diverse volte ho avuto la spinta a progettare una nuova uscita ma anche per motivi di salute ho dovuto rimandare. Più volte anche i musicisti del gruppo, che sono splendidi artisti e amici di lunga data, mi avevano sollecitato e nel 2019, avevo organizzato una prova di gruppo con nuovi pezzi ma la pandemia ha bloccato tutto. Devo però dire che questa pausa forzata mi ha portato a riflettere sui cambiamenti avvenuti dentro e fuori il jazz nel decennio e sull'opportunità di tornare a pubblicare nuova musica. Mi sono chiesto se avevo del materiale interessante che potesse dare un contributo significativo.

Ho anche voluto tenermi distante dalla tendenza attuale di pubblicare ad ogni costo, solo per tenermi aggrappato ai social. Ora penso di avere qualcosa di nuovo da dire rispetto al Gramelot di dieci anni fa.

AAJ: Ho notato che si è consolidata la collaborazione di qualche anno fa con Oscar Del Barba, che ha dato un contributo significativo nei nuovi arrangiamenti...

SG: Esattamente. Con Oscar ho iniziato a collaborare cinque, sei anni fa. La situazione pandemica non permetteva di riunirsi in gruppo e con Oscar ci siamo trovati per due anni a operare in duo, rielaborando e orchestrando materiali jazzistici noti. Intendo proprio i classici, che sono sempre importanti per la crescita individuale. Oscar è uno specialista nella scrittura per ampi organici ed il passo seguente è stato di occuparci di materiale originale che oggi presentiamo.

AAJ: Il Gramelot ha inciso un nuovo disco?

SG: Si, nei tre giorni precedenti il concerto del 26 ottobre, ci siamo trovati in uno studio a Mantova ed abbiamo registrato nove pezzi, alcuni nuovi altri già editi ma riorchestrati. L'album uscirà quasi certamente nella tarda primavera del 2025. Il titolo del disco non c'è ancora e lo stesso vale per i titoli di alcuni brani.

AAJ: Anche la collaborazione con Ralph Alessi s'è approfondita al punto da considerare il trombettista parte integrante del Gramelot...

SG: È stata una fortuna averlo conosciuto. Nel 2001, dopo la pubblicazione il disco Cantador, un critico jazz che vive negli Stati Uniti fece ascoltare il disco ad Alessi che ne fu colpito. In occasione di un suo concerto con Uri Caine a Milano ci siamo incontrati e abbiamo programmato di collaborare. Da Chorale in avanti Ralph Alessi ha partecipato a tutti i dischi del gruppo ed ormai s'è stabilita un'amicizia che va oltre la musica.

AAJ: Altra novità da registrare è che hai ripreso a suonare la chitarra elettrica...

SG: È un aspetto su cui ho meditato lungamente. Come sai bene io suonavo la chitarra elettrica già dalla partecipazione nel Trapezomantilo di Mauro Negri, negli anni Novanta. Allora mi ispiravo a Bill Frisell ed oggi ho sentito l'esigenza di esprimere una parte di me che era stata un po' sacrificata. Pur essendo uno strumento meraviglioso, la chitarra acustica non consente di esprimere quelle sonorità che da Jimi Hendrix in avanti hanno caratterizzato non solo il rock ma anche il jazz.

AAJ: Restiamo ancora sul Gramelot Ensemble che festeggia ormai tre decenni di vita con sette album incisi. Su quali basi espressive è nato poco il progetto?

SG: In primo luogo, la ricerca di un suono compatto che esprimesse l'italianità in generale e la tradizione delle orchestrine folk del nord Italia, privilegiando le sonorità di clarinetto, fisarmonica, chitarra e contrabbasso. In secondo luogo, la volontà di costituire un nucleo molto unito, quasi una comunità di musicisti che lavorasse molto assieme, a differenza dei gruppi a geometria variabile usuali nel jazz. Forse è un folklore immaginario—come lo chiamava Gianni Coscia—ma con un'identità. Una musica che non cerca di adattarsi di volta in volta agli stimoli che vengono dalle varie tradizioni. Questa era un po' la mia idea iniziale che poi si è evoluta nel tempo.

AAJ: Nei primi metà degli anni Novanta hai iniziato la tua carriera professionale collaborando con Mauro Negri nel suo Trapezomantilo. Cosa ricordi di quel periodo?

SG: Per me è stato il battesimo perché fino ad allora studiavo jazz e non ero ancora entrato in un'ottica, tra virgolette, professionale. Mauro era invece molto focalizzato a creare un progetto definito, oltre le serate occasionali che facevamo. Sul finire degli anni ottanta abbiamo viaggiato in Grecia e dal quella vacanza viene anche il nome del gruppo: Trapezomantilo è un nome greco e significa tovaglia. Mauro mi ha espressamente chiesto di usare timbri elettrici che già utilizzavo ed ha avuto un ruolo importante nel mio ingresso in scena: dal 1992 al 1994 abbiamo realizzato diversi dischi e dato concerti in festival e locali di rilievo. Anche quello era un organico dallo stile riconoscibile con violoncello, clarinetto, chitarra elettrica e batteria.

AAJ: È stata carina la coincidenza nella serata del tuo rientro col gruppo, quando hai condiviso il palco col quartetto guidato dal figlio di Mauro Negri, Federico.

SG: Peccato che Mauro fosse assente per impegni musicali. Federico è un batterista dal profilo sempre più importante, che acquisisce rilevanza nazionale come leader e compositore.

AAJ: Ricordando ancora la tua formazione musicale ho letto che Giorgio Signoretti è stato un chitarrista importante per la tua scelta verso il jazz. È vero?

SG: Assolutamente vero. Fino all'età di 20 anni ero stato un totale autodidatta ma poi mi decisi a studiare. Giorgio per me è stato importantissimo non solo per il suo valore come chitarrista ma per la sua grande competenza musicale e per l'apertura mentale. Giorgio è una mente illuminata: quando andavo a casa sua estraeva dalla sua collezione di 7-8 mila vinili il disco in quel momento importante per la lezione. Dal punto di vista culturale è stato fondamentale e gli sarò sempre riconoscente.

AAJ: Tu sei un cultore della musica di Django Reinhardt, a cui hai dedicato due dischi: il primo del 2001 Django's Jungle e il secondo Django New Directions del 2009. In entrambi hai privilegiato la statura compositiva di Django e, soprattutto nel secondo, hai dato una delle reinterpretazioni più originali in assoluto della sua musica.

Ricordo che il quel disco c'erano Emanuele Parrini, Mauro Ottolini, Achille Succi, Danilo Gallo e Zeno De Rossi. Gian Mario Maletto nella recensione parlò di "rilevante operazione maieutica." Cosa ricordi, cosa mi vuoi dire di questi progetti?

SG: Concordo sul fatto di non aver seguito una direzione filologica come quella —che comunque rispetto—fanno i seguaci del suo stile, da Stochelo Rosenberg a Bireli Lagrene. La musica di Reinhardt aveva un'intrinseca capacità di stimolare la creatività in senso più ampio rispetto al suo stile chitarristico. Questo mi ha portato a scegliere dei musicisti non più filologicamente legati a Django come quelli che hai citato.

Nei suoi ultimi anni di vita, Reinhardt era proiettato decisamente verso la modernità e chissà cosa avrebbe fatto se non fosse scomparso ancora giovane. Sono felice dei riconoscimenti ricevuti dall'album, in particolare dai superlativi giudizi che hanno dato Billard e Antonietto nel libro "Django Reinhardt. Il gigante del jazz tzigano."

AAJ: Quali altri chitarristi (o musicisti in generale) hanno avuto un peso importante nella tua vita?

SG: Oltre Django Reinhardt, e in generale il rock e Jimi Hendrix degli inizi, tra i musicisti che mi hanno segnato di più c'è Jim Hall anche perché ho avuto l'occasione di seguire un suo seminario di tre giorni a Ravenna negli anni ottanta, a cui parteciparono tutti i chitarristi italiani interessati al jazz. In quell'occasione Hall ribadì l'importanza di cercare un proprio suono e privilegiare la creatività invece del virtuosismo. Un altro musicista da cui ho tratto molto del punto di vista espressivo è stato Sandro Gibellini. Rifacendosi alla lezione di Jim Hall, Sandro ha sviluppato uno stile in cui la concatenazione delle frasi è motivata dallo sviluppo della melodia. Ho avuto modo di frequentarlo e suonare con lui è sempre stata un'esperienza gratificante.

AAJ: Tu hai ottenuto un'alta notorietà come leader. Non ti sembra di essere invece di essere sottovalutato come chitarrista?

SG: È possibile ma è anche vero che ho sempre privilegiato l'aspetto orchestrale, il gruppo nel suo complesso, mentre tanti chitarristi hanno dedicato la vita esclusivamente allo strumento e li stimo tantissimo per questo. Coniugare le due cose è arduo ed io mi sento portato per il primo aspetto. Ricordo che tante volte ho scartato delle versioni di brani in cui avevo maggior risalto a favore di altre che risultavano migliori in senso complessivo.

AAJ: Tu sei laureato in filosofia all'Università di Bologna. Gli studi filosofici hanno avuto un'influenza nella tua carriera di musicista?

SG: Studiare i grandi del pensiero occidentale è sempre una cosa che aiuta l'autocritica ma la cosa più significativa degli anni universitari a Bologna è stata la relazione con Carlo Ginzburg, un professore che ho seguito anche oltre gli esami di storia moderna. Ho seguito con interesse i suoi libri di taglio antropologico sulla condizione popolare del tardo medioevo, sul carnevale, la stregoneria, i culti agrari, il sabba e ne sono rimasto colpito. La cosa mi ha poi influenzato ad approfondire il folklore delle nostre zone, che ho scoperto essere di una ricchezza incredibile. E ovviamente la cosa s'è riverberata nella musica del Gramelot.

AAJ: Tra i tuoi dischi quali ti hanno dato più soddisfazione o che ritieni più rappresentativi?

SG: Storie di Fiume è stato una bellissima esperienza. Risale al 2006, quindi un ventennio fa. A differenza di Chorale che è stato molto apprezzato e presenta brani di Erik Friedlander, Chris Speed e Maria Pia De Vito, in Storie di Fiume tutte le composizioni erano mie e sono state fortemente meditate. Quindi mi rappresenta particolarmente. Devo poi aggiungere Django New Directions di cui abbiamo parlato prima.

AAJ: Insegni chitarra jazz al conservatorio di Mantova. Come trovi le nuove generazioni?

SG: Il compito del docente oggi è molto diverso dal passato. Una volta nel jazz si seguiva il maestro come una fonte di apprendimento, a parte i dischi, in una logica quasi orientale di maestro e discepolo. Ricordo che Tommaso Lama di diceva: "Ti dò questo materiale, torna solo quando sei pronto." Oggi i giovani musicisti hanno di fronte una quantità sterminata di materiale su internet e fanno fatica a trovare il bandolo corretto e il loro ascolto è spesso superficiale. La loro difficoltà è riconoscere le derivazioni, il percorso logico che lega un musicista all'altro. Nel primo giorno delle lezioni dico ai ragazzi che cercherò di essere la loro guida cronologica, quello che li guida nel percorso di scoperta e parto rigorosamente da Louis Armstrong. Loro sono bombardati da una quantità di materiale che noi non avevamo. Io ascoltavo un disco 25 volte, loro fanno fatica a finirlo. Anzi la fruizione è frammentata e sul Web non ascoltano il disco in quanto opera unitaria. Oggi si vive in un eterno presente e questo influenza mentalmente perché rompe con l'unitarietà del pensiero, che viene dalla storia culturale dell'umanità. Questa è la contemporaneità.

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