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JazzMI - II Edizione
Che bello vedere Milano sveglia, finalmente!
Milano
02.11 -12.11.2017
"Che bello vedere Milano sveglia, finalmente!"
Queste parole, colte in una conversazione tra appassionati in coda per uno dei tanti concerti di questa seconda edizione di JazzMI, ben fotografano il vero punto di forza del festival. Che non è tanto l'aver proposto un programma ricco e variegato, fatto di concerti, mostre fotografiche (Roberto Masotti, Pino Ninfa), incontri e conferenze (il progetto jazzdo.it, realizzato in collaborazione con la SIAE). Quanto piuttosto l'aver (ri)svegliato l'interesse della città nei confronti del jazz.
Risultato ottenuto grazie soprattutto ad un lavoro di inclusione e di comunicazione molto efficace. Impossibile, anche per il milanese più distratto, non accorgersi dell'esistenza di questo festival, non sentirsi invogliato a partecipare ad un evento che coinvolge la vita culturale della città ed i luoghi in cui essa si svolge.
E grazie, naturalmente, ad un cartellone imponente fatto di grandi nomi del jazz internazionale e di giovani artisti emergenti, che ha posto il jazzofilo milanese di fronte a non poche sovrapposizioni e dilemmi. Chi seguire tra Brad Mehldau e Rob Mazurek, tra Joe Lovano e Bill Frisell, tra Jan Garbarek, il quartetto Tinissima, Abraham Inc e i Kneebody? Di Mulatu Astatke e Donny McCaslin abbiamo parlato nei giorni precedenti.
Nelle nostre scelte di ascolto, abbiamo privilegiato quelle proposte caratterizzate da un linguaggio evoluto e contemporaneo. Come ad esempio il trio Thumbscrew (Mary Halvorson alla chitarra, Michael Formanek al contrabbasso e Tomas Fujiwara alla batteria), che nella prima serata del festival ci ha molto ben impressionato con un repertorio fatto di composizioni originali, brani di grandi del passato ("House Party Starting" di Herbie Nichols) ed echi sudamericani ("Buen Amigo" dell'argentino Julio de Caro), rivisitati con spirito avventuroso e notevole brio.
Grande spiegamento di forze (quintetto più orchestra) per Nels Cline, che ha proposto un programma incentrato sull'Amore (il progetto Lovers), spaziando dai Sonic Youth a Jimmy Giuffre, passando per Gabor Szabo e colonne sonore di film come "Portiere di Notte" e "Hiroshima Mon Amour" grazie agli squisiti arrangiamenti di Michael Leonhart. Una scaletta intrigante, affrontata tuttavia in modo un po' riduttivo. Più che un concerto, uno showcase di un chitarrista ormai divenuto cult, che compensa la semplicità del fraseggio con un ottimo lavoro sulle sonorità dello strumento.
Restando in ambito chitarristico, i Guano Padano (Alessandro "Asso" Stefana, Danilo Gallo e Zeno De Rossi) hanno rievocato l'epopea western in modo volutamente posticcio ed infarcito di echi di rocker della bassa, mentre Bill Frisell, con il suo Music for Strings (Jenny Scheinman al violino, Eyvind Kang alla viola e Hank Roberts al violoncello ha presentato una rivisitazione affettuosa e cameristica del repertorio popolare americano, passando da Thelonious Monk al musical ("Tea for Two"), da Burt Bacharach ("What the World Needs Now") a Stephen Stills ("For What It's Worth"), senza dimenticare la musica western ("Bonanza") e regalandoci una versione di "Blue in Green" se possibile ancora più toccante dell'originale. Distillato purissimo, autentica poesia.
Musica energica, fatta prevalentemente di pedali sviluppati in modo corale attraverso intrecci contrappuntistici, per i Ghost Horse (Dan Kinzelman al sax, Filippo Vignato al trombone, Glauco Benedetti, Gabrio Baldacci alla chitarra, Joe Rehmer al basso, Stefano Tamborrino alla batteria). Di contro, il successivo duo Rob Mazurek -Jeff Parker ci ha proposto una ricerca sonora e timbrica rarefatta, che passa attraverso l'abbondante uso di elettronica, con vaghi accenni di blues e qualche (inevitabile) iterazione di troppo.
Passando ai pianisti, abbiamo ascoltato Franco D'Andrea, in compagnia di Daniele D'Agaro, Mauro Ottolini e Han Bennink, in un omaggio al jazz delle origini (ricordiamo che quest'anno ricorre il centenario della registrazione del primo album di jazz). Un concerto festoso e bellissimo (a nostro avviso il migliore del festival), che ci ha mostrato come anche un genere ormai datato e sottovalutato come il possa essere attualizzato e riletto in chiave contemporanea. Palpabile, sul palco, l'intesa musicale e umana tra i musicisti. Memorabile il secondo bis, una "Summertime" destrutturata per solo piano, in cui si potevano cogliere echi di Ellington e di "Someone to Watch Over Me" .
Come di consueto, ci ha lasciato invece con sensazioni contrastanti il concerto, incentrato sulla città di Milano vista attraverso una serie di brani dei primi anni '60, di Stefano Bollani. Non vogliamo tuttavia ripetere per l'ennesima volta cose note e già elaborate più compiutamente di quanto potremmo fare in questa sede (il pianista straordinario che troppo spesso cede il passo all'intrattenitore e al modesto cantante).
Ci limiteremo dunque a rilevare l'ottimo lavoro fatto da Bollani sul repertorio. Il nostro ha coperto infatti, più o meno esplicitamente, con brani interi o con frammenti e citazioni, tutti gli artisti che hanno cantato la Milano di quel periodo (Gaber, Celentano, i Gufi, Nino Rota, Cochi e Renato, Walter Valdi, ... la lista è lunghissima). Riscoprendo qualche gioiello dimenticato ("Quella Cosa in Lombardia" di Jannacci e Fortini) e ritrovando echi di quando questa era davvero la Città del Jazz ("Milano" di John Lewis).
Per la serata di chiusura, abbiamo scelto le atmosfere postmoderne newyorkesi dei Kneebody (Adam Benjamin alle tastiere, Shane Endsley alla tromba, Ben Wendel al sax, Kaveh Rastegar al basso e Nate Wood alla batteria), che hanno eseguito brani prevalentemente tratti dal recente album Anti-Hero, ribadendo ancora una volta una formula musicale fatta di temi orecchiabili, ritmiche pulsanti e mutevoli, mix di generi, grande energia.
Foto: Roberto Cifarelli
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