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Jazzfestival Saalfelden 2025

Courtesy Matthias Heschl
Jazzfestival Saalfelden 2025
Varie location
2124 agosto 2025
Centonovanta artisti, provenienti da ventisei paesi, quasi trentamila presenze, otto location differenti, più di sessanta concerti, record di biglietti venduti. Sono solo numeri ma testimoniano come il Saalfelden Jazz Festivalgiunto alla quarantacinquesima edizionesia una rassegna che richiama spettatori da tutta Europa, sia profondamente radicata sul territorio, e catalizzi risorse ed energie con la partecipazione attiva di tutta la comunità.
La programmazione artistica della rassegna è sempre stata fin dalle prime edizioni una cartina di tornasole più che attendibile sullo stato dell'arte del jazz e dintorni, tra picchi altissimi (tanti), numerose prime mondiali e qualche fisiologico scivolone. Il programma di quest'annoin linea con le ultime edizioni non si presentava sulla carta clamoroso, ma comunque forte di un buon numero di eventi di sicuro richiamo e qualche possibile sorpresa. Ecco il nostro sguardo in (dis)ordine sparso.
Il pianista argentino Leo Genovese è stato il musicista "ovunque" del festival con ben quattro esibizioni, anche se nessuna di queste ha entusiasmato. Sia il trio Eyes to the Sun con Camila Nebbia al sax e Alfred Vogel alla batteria che la formazione allargata della Bezau Beatz Orchestra of Good Hope hanno proposto un free datato, una libera improvvisazione senza colpi di coda né sviluppi di particolare interesse. Il duo con la voce di Andreas Schaerer e il trio con il chitarrista finlandese Kalle Kalima non sono andati oltre una calligrafica esibizione.
Unica presenza italiana quella del trio denominato Hiit con Simone Quatrana al pianoforte, Andrea Grossi al contrabbasso e Pedro Melo Alves alla batteria. Un set misurato, dove l'attenzione ai particolari è stata una costante, sempre in bilico tra vuoti e pieni con più di una radice nella musica del Novecento.
Era uno dei momenti più attesi del festival e il concerto non ha tradito, risultando uno dei vertici assoluti della rassegna. Weird of Mouth ossia Mette Rasmussen al sax, Craig Taborn al pianoforte, Ches Smith alla batteria hanno entusiasmato la platea con un'unica lunga esecuzione dove i tre formidabili musicisti hanno spinto ai limiti l'esplorazione sonora, giocando con l'intensità esecutiva tra vortici furibondi e miracolosi equilibri ritmico-timbrici. Il pianoforte di Taborn e la batteria di Smith si inventano trame ardite, solisti e accompagnatori nello stesso tempo, e forniscono un terreno mobile per la dirompente forza di Rasmussen, formidabile nel controllo delle dinamiche, dotata di un suono clamoroso e di un'inventiva smisurata. I canoni del free e della libera improvvisazione nella loro massima espressione.
Patricia Brennan si presentava con due formazioni assai differenti. La prima un settetto di gran lusso che ha da poco licenziato l'ottimo e pluripremiato Breaking Stretch . Quella ascoltata è musica molto ben organizzata, basata su una scrittura che attinge ai mondi musicali che hanno accompagnato la crescita della leader (Messico e New York) e che poco concede alle estemporaneità esecutive dei componenti. La presenza di una frontline formata da Jon Irabagon, Mark Shim e Adam O'Farrill poteva essere essere sfruttata in maniera più incisiva. La leader si è dedicata maggiormente alla direzione musicale e alla creazione di un sound complessivo nel quale ha brillato in maniera superba il talento del contrabbassista Kim Cass. Il trio con il contrabbassista olandese Jort Terwijn e il batterista Christian Lillinger ha confermato la capacità di Brennan di muoversi con disinvoltura in contesti diversi e le qualità del suo solismo, in un mix di esuberanza ritmica e attenzione timbrica, linee sghembe e risvolti melodici.
Exit Knarr è l'ultima formazione del vulcanico bassista norvegese Ingebrigt Håker Flaten, un sestetto votato alla libera improvvisazione con sconfinamenti nell'hard rock, nell'heavy metal e tanto altro. Musica che risulta complessivamente non troppo originale senza particolari impennate, se non la solita vulcanica propulsione del leader. Laura Jurd è una quotata trombettista e compositrice britannica, nome di punta della Edition Records, che sul mainstage ha presentato la sua ultima formazione denominata Rites & Revelations. Non solo per la presenza del violino irlandese di Ultan O Brien siamo in zona jazz folk, dalla quale emergono anche le radici scozzesi di Jurd. Temi popolari e improvvisazione jazz suonati con buon gusto ed eleganza, in un set piacevole, leggero ma non frivolo dal quale emerge una versione dell'ornettiana "Lonely Woman," scura, grumosa, dal crescendo quasi apocalittico che vale il concerto.
Con il chitarrista di origine danese Teis Semey siamo forse alla sorpresa del festival. Protagonista di un set esplosivo presso la Gruberhalle, area industriale dismessa trasformata in una delle location più frequentate dai giovani, con un sestetto che ha goduto dei servizi di Jim Black alla batteria e di Adam O’Farrill alla tromba, il giorno successivo ha confermato tutto il suo talento sul mainstage. La miscela di jazz, indie rock, riffs assassini e improvvisazioni fulminanti possiede energia, freschezza di idee, organizzazione e fantasiosa leadership. Il lavoro alla chitarra sia in fase solistica che di accompagnamento è a tratti geniale, i fiati si combinano a meravigliaesuberante il contralto di José Soares, algido e misurato il tenore Jesse Schilderinkcon variazioni timbriche sollecitate dalla potente drumming di Sun Mi Hong.
Ritroviamo la batterista di origine coreana a capo della Bida Orchestra, sestetto che raduna esponenti di spicco della scena improvvisativa europea. Ma a fronte dell'eccellenza della formazione quello di Mi Hong appare un progetto discontinuo almeno nella versione live. Fortunatamente una prima parte impalpabile dove abbondano i pianissimi ed effimere armonizzazioni viene spazzata via da uno strepitoso assolo di John Edwards al contrabbasso che sostanzialmente accende la miccia. Le composizioni diventano più articolate e chiare nella direzione, vi è un maggiore attenzione alle dinamiche e il sax contralto di Mette Rasmussen emerge in tutta la sua furiosa bellezza.
E siamo al concerto che segnerà l'edizione quarantacinque del festival. A prescindere, dagli estimatori e dai detrattori, dagli scettici e dagli entusiasti. Perchè una proposta del genere è un unicum assoluto. Parliamo di [Ahmed] ossia Pat Thomas al piano, Seymour Wright al sax alto, Joel Grip al contrabbasso e Antonin Gerbal alla batteria (Cafe Oto e dintorni). Un unico brano, "African Bossa Nova" ovviamente di Ahmed Abdul-Malik, un'ora senza interruzioni, radicale, ossessiva, disturbante, feroce, senza compromessi, monolitica, giocata su minime variazioni, su impercettibili ma inesorabili slittamenti, con il ribollente moto perpetuo di basso e batteria, con i cluster e le scorribande furiose del pianoforte e con l'imperturbabile sax alto acido, gracchiante, rugoso, dalla serialità ipnotica. È musica senza rete e senza barriere ma dalla lucidissima progettualità, libera ma con evidenti riferimenti alla storia della musica afroamericana proiettati in un'altra dimensione, che stordisce e fa riflettere.
All'insegna del divertimento e del gesto plateale l'esibizione di Tomoki Sanders, figlio del grande Pharoah, istrionico nel coinvolgere il pubblico tra sonorità fusion, assoli pirotecnici e riffs ballabili. Un'eredità difficile, un percorso artistico ancora in piena evoluzione. Non ha entusiasmato, come ci si poteva aspettare, il quartetto Ancient to the Future con Ava Mendoza alla chitarra, Hamid Drake alla batteria, Xhosa Cole a sax e flauto e Majid Bekkas al gimbri. Il chiaro riferimento all'estetica A.E.O.C rimane solo nel nome e nelle intenzioni, poi la musica si sviluppa sull'intreccio tra il gimbri elettrificato e la chitarra avant, a tratti rock a tratti rumorista, con la solita esuberanza di Drake e l'impalpabile Cole al sassofono. Una proposta racchiusa nella terra di nessuno, un ibrido che stenta a decollare, salvo qualche sortita solistica proprio di Mendoza.
La chiusura del festival è affidata ai The Bad Plus con Craig Taborn e Chris Potter. Finale di gran classe e di grande musicaquella del quartetto americano di Keith Jarrettche è di per sé una garanzia, ma i quattro musicisti sul palco ci hanno messo molto del loro: superbo interplay, estrema sensibilità, rispetto creativo nei confronti del materiale affrontato, eccellente qualità e freschezza di idee negli interventi solistici. Con una versione di "Silence" da ricordare.
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Kim Cass}. Il trio con il contrabbassista olandese {{Jort Terwijn
Christian Lillinger
Ingebrigt Haker Flaten
laura jurd
Ultan O'Brian
Teis Semey
Jim Black
Adam O'Farrill
José Soares
Jesse Skilderink
Sun Mi Hong
John Edwards
Pat Thomas
Seymour Wright
Joel Grip
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Ahmed Abdul-Malik
Tomoki Sanders
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Majid Bekkas
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