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Jazz&Wine of Peace 2023

Jazz&Wine of Peace 2023

Courtesy Luca D'Agostino

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Jazz&Wine of Peace 2023
Cormons e altre località del Friuli e della Brda slovena
Varie sedi
26-29.10.2023

Tagliato un importante traguardo con la splendida edizione celebrativa del venticinquennale, il Jazz&Wine of Peace di Cormons ha ripreso il suo corso, che ne fa uno dei festival più interessanti della penisola, approntando un programma come sempre tanto estremamente vario, quanto ricco di personalità di spicco.

Dopo un'anteprima andata in scena lunedì 23 ottobre al Kulturni Dom di Gorizia, con la Zerorchestra e l'Orchestra of the Imaginary, il festival è iniziato la mattina di giovedì 26 presso la cantina Jermann con il duo del flautista colombiano Mauricio Valsierra e della cantante e chitarrista tedesca Heidi Heidelberg, che hanno destato un interesse che non possiamo documentare, cosa che vale anche per il successivo concerto pomeridiano, a Villa Attems, del pianista Chris Jarrett, fratello del ben più noto Keith.

Eravamo invece presenti alla storica Cantina Produttori di Cormons per il concerto delle 18,00, con il quartetto del contrabbassista veneziano Marco Centasso, che proponeva le musiche del suo recente ed eccellente disco Hidden Rooms, edito da Parco della Musica. Della formazione originale erano però presenti solo il leader e il clarinettista Alberto Collodel, con Lorenzo Liuzzi al pianoforte e Massimiliano Trabucco alla batteria. La musica non è tuttavia sembrata risentirne e dal vivo è suonata non meno interessante che su disco, con in aggiunta la possibilità di coglierne meglio, oltre che le qualità espressive dei solisti, anche alcune articolazioni. Basata su un approccio abbastanza tradizionale, che include temi lirici, narratività, spazio per assoli e ispirazioni extramusicali, la musica di Centasso non ha perlopiù una struttura standard, presenta spesso repentini mutamenti di scena e stilemi provenienti dalla musica contemporanea colta. A parte perciò un paio di brani un po' più tradizionali, anche dal vivo ne è scaturito un concerto al tempo stesso tanto originale e stimolante, quanto fruibilissimo, con atmosfere omogenee e distinte soprattutto dall'uso alternato da parte del leader del basso elettrico o del contrabbasso. Di particolare pregio proprio gli assoli di Centasso a quest'ultimo strumento e quelli di Collodel, impegnato al solo clarinetto basso. Ottimo concerto e giovane formazione da seguire con attenzione nei suoi prossimi sviluppi.

Il concerto serale, tutte e tre i giorni presso il Teatro Comunale di Cormons, è stato invece una delle maggiori delusioni della rassegna. Che un omaggio a Fabrizio De André fosse un po' fuori contesto in un festival come quello friulano era forse prevedibile, ma quel che invece non ci si attendeva era uno spettacolo per metà parlato (dal suo ideatore, diventato poi anche protagonista sul palco, il giornalista Luigi Viva) e per l'altra metà fatto di arrangiamenti piuttosto banali di alcuni dei principali successi dell'artista genovese, oltretutto privati della loro inseparabile componente testuale e non legati l'un l'altro da alcun impianto drammaturgico. Il primo aspetto, ha drasticamente appesantito lo spettacolo nonostante il valore delle informazioni comunicate (uno spettacolo non è un programma d'informazione...), cosa resa ancor più drammatica dal fatto che, com'è noto, almeno metà degli spettatori al Jazz&Wine sono di lingua tedesca o slovena; il secondo ha dato anche alla parte musicale un sapore da "operazione nostalgia," perché —nonostante l'indiscutibile qualità messa in campo dai musicisti, in particolare da Francesco Bearzatti e Alessandro Gwiss —i pezzi suonati hanno solo riassunto e ricordato gli originali, senza dar loro quasi niente di nuovo. Certo, parte del pubblico ha apprezzato; ma si trattava appunto della commozione degli antichi fan di De André. Un evento, insomma, che avrebbe figurato meglio in un diverso tipo di rassegna.

Il venerdì, come ogni anno, si è aperto al mattino presso la splendida Abbazia di Rosazzo, nella quale vengono ospitati i concerti più raccolti e suggestivi del festival. Quest'anno è stata la volta del progetto Miserere di Rosario Giuliani assieme al Mac Saxophone Quartet. Anch'esso recentemente uscito per l'etichetta Parco della Musica, Miserere presenta musiche di compositori classici italiani di ogni epoca, a partire dal gregoriano fino all'Ottocento. Il Mac (Stefano Pecci al soprano, Luis Lanzarini al contralto, Alex Sebastianutto al tenore e Valentino Funaro al baritono) è un quartetto di impostazione classica e ha selezionato i brani, poi arrangiati da Mario Corvini per permettere la commistione stilistica e l'interazione di Giuliani, che porta con sé la tradizione jazzistica. Il risultato, così come ascoltato nella suggestiva cornice, è senza dubbio meritorio e interessante, ma è parso anche da un lato molto "ingessato," con una larga prevalenza della scrittura sull'improvvisazione, dall'altro —forse conseguentemente —non perfettamente omogeneo nella fusione stilistica.

Nel primo pomeriggio, a Villa Codelli, il sestetto di giovani viennesi AHL6 ha colpito per la fresca vivacità della sua musica. Messa in piedi dal batterista Lukas Aichinger, la formazione affiancava chitarra e basso elettrici a due ance e una tromba, fondendo così fin dall'organico atmosfere acustiche ed elettriche. Le composizioni, tutte di Aichinger, assemblavano varie ispirazioni stilistiche, rimanendo comunque su una chiara cifra jazzistica contemporanea, entro la quale interventi più prossimi al rock, assoli irruenti dei fiati e perfino intromissioni folk come la marcetta popolare proposta nel bis, si configuravano come episodi di un discorso variopinto e ludico. Molto apprezzabili sia lo stile, sia la capacità di dettare pause e cambi di direzione del batterista —sebbene in generale la direzione passasse di mano in mano a più membri del gruppo —, così come la qualità strumentale del clarinettista e tenorsassofonista Leonhard Skorupa. Una sorpresa da seguire, da un paese troppo spesso trascurato, a dispetto dell'aver dato i natali a notevolissimi musicisti.

Nel tardo pomeriggio, presso la Sala Bergamas di Gradisca, è stata la volta di uno dei concerti più prestigiosi, quello dello storico contrabbassista Henri Texier, presentatosi in trio con il figlio sassofonista Sebastien Texier e l'eccellente batterista Gautier Garrigue. Concerto tutto sommato molto tradizionale, forse più di quanto l'ormai settantottenne musicista francese ci abbia abituato, in quanto costellato di standard, e che penalizzava in po' il pur bravissimo Sébastien, ma che entro questi suoi limiti perimetrali ha rasentato la perfezione: molto belle le interpretazioni dei brani, perfetta l'interazione dei musicisti, soprattutto splendido Texier padre sia nell'(apparentemente) ordinario compito di fulcro del trio, sia negli assoli strepitosi, nei quali univa varietà di arpeggi e cantabilità, intensità ritmica e profondità del suono. Oggi uno dei vertici assoluti dello strumento, Texier ha in più momenti lasciato a bocca aperta, e infatti è stato alla fine a lungo applaudito e richiamato sul palco dal pubblico.

Un altro francese, Vincent Peirani, ha chiuso la giornata con il concerto serale al Teatro Comunale di Cormos incrociando non solo i suoni della sua fisarmonica con quelli della chitarra del brasiliano Yamandu Costa, ma anche le tradizioni musicali dei rispettivi paesi. Un incontro tra virtuosi, che hanno iniziato con un dialogo che ha permesso loro di mostrare fin dove sapessero spingersi nel padroneggiare strumenti e riferimenti culturali, hanno proseguito esibendosi a turno in solitudine —qui la distanza dei retaggi s'è fatta corposa, con Costa che ha ripreso la tradizione "colta" che va da Villa Lobos a Egberto Gismonti, mentre Peirani ha proposto prima un brano "sinfonico," quasi da tradizione organistica, poi una canzone ricca di ritmi di ballo popolare francese —e hanno concluso, con composizioni più organiche, nelle quali la loro unione risultava meno estemporaneamente virtuosistica e più mirata a un discorso drammaturgico. Spettacolo di altissimo livello in tutte le sue diverse forme, senza un momento di pausa e tra le cose migliori dell'intero festival.

Come tutti gli anni, il concerto di apertura del sabato si è svolto al mattino nella sala del Kulturni Dom di Nova Gorica, in Slovenia, dall'invidiabile acustica: di scena un'altra delle formazioni più attese, il trio di Andy Sheppard, con Rita Marcotulli al pianoforte e Carlos Bica al contrabbasso. Anche in questo caso, pur in presenza di musica quasi tutta originale, si è rimasti su territori piuttosto tradizionali, permettendo però ai tre di valorizzare le loro grandi qualità strumentali e la loro fantasia improvvisativa. Meditative linee melodiche, espresse dal sassofonista britannico (quasi sempre al tenore, ma in due brani anche al soprano) in modo estremamente elaborato, aprivano infatti spazi di assolo per entrambi i compagni, sobri e raffinati quelli della Marcotulli, sintentici e singolari quelli del contrabbassista portoghese. Tre musicisti in piena maturità artistica, eleganti ed espressivi, portatori assieme di una cifra musicale personale pur se nel solco della tradizione. Quanto basta per affascinare e convincere.

Prima del programma pomeridiano, ci siamo permessi un assaggio della rassegna "Taste," che ogni giorno univa raccolti concerti a degustazioni in alcune delle molte e prestigiose aziende vinicole del territorio. Nel nostro caso si trattava della cantina Lis Neris di San Lorenzo Isontino e del concerto del duo Vrezaj Krimec, composto dai giovani sloveni David Križaj al Fender Rhodes e Timi Vremec al basso elettrico: un programma che alternava standard e storici brani del jazz meno tradizionale (Ornette Coleman, Carla Bley), così da restare su un terreno confortevolmente adatto al contesto, senza tuttavia scadere nel banale, anzi offrendo momenti piuttosto originali —come l'esposizione narrativa dei temi per opera del basso elettrico.

Il primo pomeriggio, alla Villa Nachini Cabassi di Corno di Rosazzo, destava curiosità il concerto dell'emergente vibrafonista statunitense Joel Ross, alla testa di una formazione composta da giovanissimi musicisti. I quattro si sono lanciati in una musica tanto intensa, quanto ripetitiva e priva di autentiche sorprese, con il pianista Jeremy Corren dedito al solo ritmo e il batterista Jeremy Dutton terribilmente aggressivo —un contesto che ha fatalmente nascosto anche l'indubbia abilità e la fantasia del leader. Pur tenuto conto della stanchezza degli artisti, arrivati in extremis dopo un viaggio costellato da ritardi e voli cancellati, viene il sospetto che, se questo è quanto ha da offrire la nuova generazione dei musicisti statunitensi, forse sia meglio guardare al vecchio continente.

A quest'ultimo, con approccio retrospettivo ma al tempo stesso attento al presente, guardava il concerto del tardo pomeriggio, che celebrava il mezzo secolo dall'uscita del primo album degli Area, il mitico Arbeit Macht Frei. A festeggiare l'anniversario l'attuale formazione degli Area Open Project, cioè Patrizio Fariselli, il solo rimasto del gruppo originale, con Claudia Tellini alla voce, Stefano Fariselli ad ance e flauto, Marco Micheli al basso elettrico e Walter Paoli alla batteria. Una formazione che di quell'antico disco ha usualmente in programma solo "Luglio, agosto, settembre (nero)" e che, dopo un'apertura con alcuni altri brani storici, ne ha riproposta l'intera scaletta. Non si è tuttavia trattato né di una mera "operazione nostalgia," né di una riproposizione strettamente filologica della musica di cinquant'anni orsono, vuoi perché erano incluse anche parti che nel disco non avevano trovato posto, vuoi perché l'organico attuale non potrebbe —né vuole —essere filologico; così, accanto ai temi originali e ad alcune sonorità d'antan —specie quelle delle tastiere di Fariselli —spiccavano le interpretazioni della Tellini (il cui ingresso nella formazione è alla base del suo rilancio, stante il recupero della parte vocale in una forma totalmente e intenzionalmente diversa da come la interpretava, in modo inimitabile e insurrogabile, Demetrio Stratos), vocalmente ineccepibili, timbricamente autorevoli e scenicamente efficacissime, e quelle di Stefano Fariselli, per chi scrive davvero sorprendente per l'originalità e l'espressività degli assoli, specie al sax soprano e al clarinetto basso. Il concerto, piuttosto lungo a dispetto della brevità del disco d'origine, ha alla fin fine costituito una bella fusione tra passato e presente, lasciando soddisfatto sia chi vi cercasse la memoria di una musica che ha segnato un'epoca e una generazione, sia chi volesse cercarvi qualcosa di più. Una sintesi non facile per questo genere di operazioni, ma qui perfettamente riuscita.

Invece un po' più opaca, ancorché ben eseguita, la sintesi del concerto serale, che vedeva in scena l'ultima formazione di Enrico Rava, i Fearless Five, nella quale accanto all'ormai fido chitarrista Francesco Diodati e all'esperto contrabbassista Francesco Ponticelli, figuravano due giovani promesse come il trombonista Matteo Paggi e la batterista Evita Polidoro. Proprio questi ultimi due sono risultati di fatto i protagonisti dei momenti più stimolanti di un concerto che aveva in programma in larga parte più o meno noti brani del trombettista torinese: a illuminare la scena un po' statica hanno infatti provveduto i brillanti assoli di Paggi e i duetti di Rava con la Polidoro, che occasionalmente si è anche presa la scena cantando. Spazio anche per un paio di assoli di Ponticelli e per vari interventi solistici di Diodati, che tuttavia non spostavano la cifra stilistica da quella, classica e ben nota, delle formazioni di Rava.

L'ultimo giorno è stato inaugurato da uno dei concerti di spicco della rassegna, il duo di Alexander Hawkins e Marco Colonna dedicato alla musica di Eric Dolphy, del quale non possiamo dar conto: essendo esauritissimo, non siamo riusciti a prendervi parte. A sentire chi c'era, i due non hanno tradito quanto chi scrive aveva già potuto apprezzare sia dal vivo a Firenze, sia sul disco Dolphy Undelined.

In un'orario atipico, le 13,30, alla Tenuta Villanova di Farra d'Isonzo la trombettista canadese Steph Richards, alla testa di un quartetto in cui campeggiava il bassista elettrico Stomu Takeishi e completato dal pianista Joshua White e dal batterista Max Jaffe, ha presentato il suo curioso progetto Supersense, che prevedeva l'ascolto dei brani annusando contemporaneamente degli odori presenti su un cartoncino distribuito al pubblico in apertura di concerto. Non ci sentiamo francamente di dare una valutazione su questa singolare forma di multimedialità, che la Richards ha sostenuto con ardore ma anche con una certa ludica ironia; riguardo alla musica, è parsa il linea con quel vasto ambito di ricerca con cui la trombettista è solita collaborare (da Henry Threadgill a John Zorn, fino a Jason Moran, pianista titolare proprio del progetto Supersense): dinamica e variegata, alternava libere linee narrative, vagamente melodiche, a frantumazioni e cambi di scena. Efficace la leader, che spesso ricordava stilisticamente Dave Douglas, come sempre originalissimo Takeishi, hanno convinto anche White e Jaffe, tutt'altro che limitatisi a ruoli di supporto. Non qualcosa che faccia saltare sulla sedia, ma una musica interessante e con una propria personalità, suggestioni olfattive a parte.

Il culmine della rassegna, a parere di chi scrive, è stato toccato nel primo pomeriggio a Villa Vipolze, in Slovenia, con il concerto di Jim & The Schrimps, vale a dire Jim Black e tre giovanissimi (tra i venti e i ventiquattro anni) musicisti europei: i tedeschi Julius Gawlik al sax tenore e Felix Henkelhausen al contrabbasso, e il danese Asger Nissen al sax contralto. In certa misura Black vi ha trasposto l'esperienza fatta con il suo storico quartetto AlaNoAxis, dirigendovi dalla batteria una musica ricca di sipari e sterzate, sempre molto intensa dinamicamente, vivacissima; qui era tuttavia assente l'elettronica, mentre maggiore era l'influenza della "tradizione avanguardistica," da Ornette a Zorn; i "gamberetti," inoltre, ci mettevano del loro quanto a freschezza e spavalderia: negli assoli di Nissen, infatti, era sempre presente un'irruenza forse un po' ingenua ma efficacie e priva di retorica, mentre in quelli di Gawlick, apparentemente più timido e posato, veniva progressivamente fuori un suono e degli stilemi palesemente prelevati dalla tradizione dello strumento, ma ricollocati —ancora una volta senza retorica —in un contesto tutto diverso. E anche il contrabbassista, Henkelhausen, pur relegato per gran parte del concerto al tradizionale e limitativo ruolo ritmico, quando ha potuto prendersi la scena ha palesato un suono e una capacità narrativa sorprendenti. Si aggiunga a tutto questo che Black, come sempre, è stato in grado di catturare l'attenzione con il suo drumming variopinto e ricco di sfumature, e si comprenderà come il concerto abbia entusiasmato gli astanti, risultando coinvolgente, originalissimo e comunicativo. Probabilmente il migliore del lotto, appunto.

A pochissimi chilometri di distanza, appena rientrati in Italia, nella cantina dell'azienda Gradis'ciutta di San Floriano del Collio, si è subito dopo svolto il concerto del trio di Francesco Bearzatti, alle prese con una rilettura del songbook dei Led Zeppellin. Bearzatti non è nuovo a questo tipo di operazioni, che una decina d'anni orsono erano state parte del progetto Monk'N'Roll del suo quartetto Tinissima; stavolta però l'intero lavoro girava attorno ai brani del gruppo rock, che il sassofonista in buona parte reinterpretava trasformando con l'elettronica il suono del suo sassofono in quello di una chitarra elettrica. Consequenziale anche il lavoro dei suoi due compagni d'avventura, con Danilo Gallo impegnato al solo basso elettrico e Stefano Tamborrino nel ruolo del batterista rock, aggressivo e monotematico. Un'operazione indubbiamente divertente —e che infatti ha appassionato una larga parte del pubblico presente, intento in massa a riprendere l'esibizione con i telefoni—ma certo non particolarmente raffinata o innovativa. Bravissimi i tre protagonisti, perché comunque un'operazione del genere non è semplice da render plausibile, ma alla fin fine il solo a trovare lo spazio per proporre qualcosa di più particolare e sfumato è stato Danilo Gallo, autore di alcuni preziosismi interventi. Comunque un bel concerto, festoso e appassionante.

Lo stesso non si può purtroppo dire del concerto di chiusura. Paolo Fresu e Omar Sosa, indubbiamente grandi musicisti, hanno proposto, in duo, il loro progetto dedicato al cibo che, con alcuni ospiti, aveva già visto la luce sotto forma di album per l'etichetta Tuk. Un vero e proprio progetto pop, costruito per suggestioni extramusicali, assemblato con estratti sonori aventi la funzione di vere e proprie suggestioni citazionali (la ricetta del piatto sardo declamata in dialetto, i rumori di bicchieri e di avventori nei locali, e via dicendo) e con campionamenti di musiche del mondo, per dar vita a un "tappeto" attorno al quale far suonare i due protagonisti. Peccato che, dal vivo, i due quasi non abbiano suonato: fagocitati dai campionamenti i pochi fraseggi della tromba e i suoni a effetto delle tastiere sono apparsi pallidi e slavati. "Che c'è di male, piace, no?," ha affermato qualcuno additando il pubblico che sembrava apprezzare (ma i commenti negativi in realtà sono stati diffusi). Non c'è nulla di male a mettere in piedi questo genere di spettacoli; c'è di male, invece, a spacciarli per jazz: sparita l'improvvisazione, dissoltisi i fraseggi e gli assoli, ridottosi al minimo anche lo stesso impegno strumentale, resta solo il packaging... "Piace alla gente che piace," recitava una pubblicità anni '80; ma promuoveva appunto un prodotto industriale, non un progetto artistico, per giunta di un genere musicale per sua natura estemporaneo e votato a spingersi ogni volta oltre i propri limiti.

Con rimpianto abbiamo mancato, causa il protrarsi dello splendido concerto di Jim Black e l'incombere di quello di Bearzatti, quello svoltosi nel pomeriggio della domenica alla Kulturni Dom di Gorizia, protagonisti alcuni ragazzi seguiti dal Centro di Salute Mentale cittadino —quello della storica esperienza di Franco Basaglia —guidati dal batterista e improvvisatore Zlatko Kaućić con la collaborazione di alcuni suoi allievi. Il concerto arrivava dopo un workshop tenutosi nei giorni precedenti, una novità per il festival e per l'associazione Controtempo che lo organizza, ma pienamente coerente con lo spirito che anima fin dalla sua nascita una rassegna votata alla pace e all'incontro tra i popoli mediati dalla musica e dall'improvvisazione. A detta di chi c'era quel concerto ha sintetizzato in modo esemplare l'unione di musica, creatività istantanea e incontro tra diversi, dando vita a momenti d'arte "inauditi" e non "pensati per piacere." Tutto il contrario di quanto andato in scena la sera al Teatro Comunale.

La presenza in cartellone, accanto a spettacoli di stile ed estrazione giustamente diversi, anche di un'iniziativa come quella citata, ne esalta lo spirito, ne innalza ulteriormente il valore e controbilancia la presenza di un numero forse superiore ad altre edizioni di concerti di impianto piuttosto tradizionale, anche se —come già sottolineato —quasi sempre di altissimo livello. La propulsività della musica jazz nasce infatti anche dalla marginalità e dal disagio, che spesso in passato ne sono state fonte di ispirazione: è perciò importante che, anche quando si fa spettacolo di alto livello, essa non perda il contatto con queste aree, che si ricordi d'esservi legata a doppio filo fin dall'origine, pena il rischio di trasformarsi in mero intrattenimento da smerciare e di perdere la sua spinta a rinnovarsi, a rischiare, a vivere a contatto con la realtà —condizioni imprescindibili per essere arte. Grazie al Jazz&Wine of Peace per aver contribuito anche a tener vivo questo monito.

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