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Gianni Lenoci, madrelingua jazz

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La madrelingua jazz probabilmente non c'è: siamo tutti potenzialmente di madrelingua jazz, perché la lingua del jazz è la tua propria! Il tuo stile è il frutto delle tue fragilità.
La sera di lunedì 30 settembre, dopo breve malattia, è scomparso Gianni Lenoci, pianista, compositore, didatta, teorico, intellettuale tra i più originali e prestigiosi del nostro Paese. Non era forse un nome molto conosciuto al grande pubblico, Gianni, vuoi per il rigore artistico che lo portava a non confondere mai l'arte con l'intrattenimento, vuoi per la sua spontanea modestia, vuoi -soprattutto -per la concentrazione che aveva sullo studio e sull'insegnamento, che da quasi trent'anni portava avanti al Conservatorio Nino Rota di Monopoli, la sua città.

Artisticamente Lenoci era davvero un musicista fuori dell'ordinario, passando "da Johann Sebastian Bach a Stevie Wonder senza soluzione di continuità, affondando nel pensiero, senza distinzione di genere e stile," come dice di lui uno dei suoi allievi, Francesco Massaro. Diplomatosi in pianoforte al conservatorio "Santa Cecilia" di Roma, fin da allora è stato attento studioso della musica contemporanea—al suo attivo dischi di musiche di Morton Feldman, Earl Brown, John Cage—e ha coltivato lo studio di Bach; già da giovanissimo si è però dedicato al jazz, diplomandosi poi anche in musica elettronica al Conservatorio di Bari.

In ambito jazzistico, oltre allo studio con maestri del calibro di Paul Bley e Mal Waldron, Gianni ha collaborato con un impressionante numero di personalità di primo piano, da Steve Lacy—alla musica del quale ha dedicato nel 2005 uno splendido disco per piano solo, Agenda—e Evan Parker, fino a John Tchicai e William Parker—due dei tanti artisti che invitò a Monopoli perché arricchissero il panorama formativo dei suoi allievi. Nel 2011, negli U.S.A. su invito dell'Atlantic Center of the Arts di New Smyrna, incontrò Roscoe Mitchell che lo volle nel suo quartetto per una serie di concerti, stringendo con lui un rapporto umano oltre che artistico.

L'aspetto umano era peraltro in Lenoci inscindibile da quello artistico, come hanno sempre testimoniato tutti coloro che con lui hanno collaborato e anche chi, come chi scrive, ha avuto solo alcuni contatti verbali: la sua vivida intelligenza assieme a una marcata ironia iconoclasta e a una grande modestia, facevano di lui un interlocutore stimolante e di immediata simpatia. Molte delle sue osservazioni teoriche, reperibili in interviste scritte o su video, sono di sorprendente acutezza, pur conservando sia la semplicità, sia la divertita leggerezza. E anche in campo didattico la sua umanità era proverbiale, testimoniata dal suo dichiarato concetto di Maestro: una figura che doveva non solo rispettare le scelte dell'allievo, ma perfino eclissarsi il prima possibile.

L'amplissima cultura non solo musicale e l'umanità confluivano nel suo lavoro alla tastiera, in particolare quando si rivolgeva alla creazione istantanea, campo che coltivava con sempre maggiore dedizione. Dai recital in piano solo—come quello con cui ha concluso il suo tragitto artistico, al festival di Ruvo di Puglia, solo venti giorni prima di andarsene—ai celebri duetti assieme a Gianni Mimmo, con il quale formava i Reciprocal Uncles, e a quelli recenti e splendidi con Francesco Cusa, i Wet Cats (e con il quartetto del batterista siciliano un disco uscirà a breve postumo), passando per le molteplici collaborazioni con artisti diversi, la maestria creativa di Lenoci non mancava mai di affascinare e stupire. La sua presenza in ogni contesto musicale era discreta, ma riusciva a rivelarsi sempre decisiva, segno della sua capacità di raggiungere realmente ogni volta quel che cercava intenzionalmente di esprimere: l'inaudito.

Con la scomparsa di Gianni Lenoci perdiamo una personalità—non solo artistica—di inestimabile valore, senza neppure essere stati davvero in grado di apprezzarne fino in fondo l'importanza. Il vuoto aperto dalla sua dipartita potrà essere in parte colmato solo dalla valorizzazione delle molte cose che ci ha lasciato.

Per ricordarlo riproponiamo in calce l'intervista pubblicata poco meno di un anno fa.

Pianista, compositore, improvvisatore, Gianni Lenoci è un musicista che unisce rigore e libertà, creatività e rispetto rigoroso della forma. A cinquantacinque anni può vantare una impressionante discografia dalla quale si evidenza la varietà dei mondi musicali con i quali si è misurato. Chi ha avuto modo di ascoltare almeno parte dei lavori nei quali è coinvolto ha potuto apprezzare il modo un cui Lenoci sa offrire in ogni contesto il proprio personale contributo, originale e al tempo stesso sempre opportuno. Un artista di grande levatura, di cui troppo poco si parla, forse a causa di ragioni geografiche—è nato e risiede a Monopoli, dove insegna al conservatorio—o forse proprio per la sua difficile etichettabilità.

All About Jazz Italia: Dopo circa quindici anni che ti seguo con attenzione—la prima volta fu grazie all'interessantissimo When the Saint Goes Marching Out, di Antonio Di Lorenzo ospite Steve Lacy—è un vero piacere poter finalmente intervistarti. Mi dispiace invece che in tutto questo tempo non sia mai riuscito ad ascoltarti dal vivo...

Gianni Lenoci: Dipende probabilmente dal fatto che io non suono spesso nei festival "ufficiali," anche perché le logiche della cooptazione festivaliera sono strane e poco comprensibili (oppure, persino troppo evidenti...). Aldilà del fatto che il jazz sia declinabile in molteplici forme, persino nel campo delle cosiddette "avanguardie" (qualunque cosa possa poi significare questo termine) influiscono le mode, che non dipendono neppure dal musicista; mentre la logica del "faccio una cosa al meglio delle possibilità e questo pagherà" non ha più molta fortuna. Aggiungi a questo che io sono del 1963, quindi di una generazione che si è trovata nel mezzo a quel passaggio radicale e drammatico, avvenuto attorno alla metà degli anni Novanta, che, in Italia, ha visto il jazz mutare attitudine, avvicinandosi alla pop music—e non parlo tanto di contenuti, quanto proprio di attitudine e forma di comunicazione. Personalmente non solo non avevo e non ho la forma mentis per adeguarmi a questo mutamento, ma quando si è verificato mi è pure sfuggita la portata del fenomeno, l'ho addirittura sottovalutato. Ok!, mi sono detto, loro fanno le loro cose e io continuo a fare le mie, ci sarà sempre spazio per tutti. Viceversa, quel fenomeno ha comportato il mutamento di molti aspetti, così che tutto il complesso di fattori poetici che si vivono facendo il musicista jazz sono molto cambiati rispetto, che so, al 1985.

AAJ: In cosa senti questa differenza, in particolare?

GL: Attualmente io la percepisco fortemente nel rapporto con il pubblico, nel quale entrano in gioco anche tutte le nuove tecnologie—youtube, la musica digitale che si scarica dalla rete, la quasi scomparsa dei dischi, la comunicazione via social network, eccetera. Sia chiaro, queste ultime fanno a loro volta parte di quel mutamento estremamente complesso che tutti noi abbiamo vissuto negli ultimi trenta-quaranta anni su molti fronti, sui quali non smettiamo di riflettere e che influiscono su quel teatro della mente che poi è la sorgente da cui attinge un artista. Il cambiamento che noto, anche per la mia esperienza di docente in conservatorio e di agitatore culturale nell'ambito dell'accademia, è quello di un pubblico sempre meno capace di ascoltare e di musicisti sempre meno impegnati a volersi far ascoltare. A volte la penso come Philip Roth, che smise di scrivere perché riteneva che non ci fossero più lettori per i suoi libri. Ma la mia non è una considerazione snobistica, perché per me il pubblico è fondamentale. Se non c'è qualcuno che ascolta, che senso ha mandare un messaggio nel deserto? Solo che oggi il cosiddetto pubblico sembra incapace di rimanere concentrato su fenomeni complessi, com'è quello del jazz come forma d'arte. Questo comporta la tendenza a semplificare il messaggio in una visione aproblematica e consolatoria del fenomeno musicale, snaturando la propria arte con cedimenti verso logiche costruite a tavolino che non permettono di essere veramente se stessi a causa della continua necessità di "farsi capire." Ciò comporta la percezione di una sorta di crisi, che spinge a interrogarsi sul senso di ciò che stai facendo.

AAJ: Pensi che negli anni Settanta le cose fossero messe meglio?

GL: Non credo che il pubblico sia cambiato, nel senso che le persone sono sempre le stesse, con la loro emotività e il loro complesso di storie personali. La crisi del pubblico è una crisi dell'ascolto. Per cui il problema non è quello di quale linguaggio si adotta, ma è nell'interlocuzione con l'altro. Perché il jazz, fortunatamente, è una musica ancora da scrivere: abbiamo sì la "storia," i "reperti"—cioè quello che chiamiamo appunto "repertorio"—ma la scrittura la fai in scena, mentre suoni, ed è per questo che necessita di un ascolto attento: perché richiede di essere compresa nel momento in cui viene creata. E la cosa vale indipendentemente dalle differenze geografiche e sociali. Credo sia cambiato molto il rapporto tra artista e fruitore; cosa che dipende da una molteplicità di fattori: la progressiva semplificazione del messaggio culturale trasmesso dalla televisione e dai social network, la lenta e inesorabile demolizione delle istituzioni scolastiche e la sotterranea denigrazione di parole e concetti che richiedono di essere parte attiva. "Impegno," "sperimentazione" e "ricerca" oggi sembrano parolacce, oppure sono utilizzate per fenomeni assolutamente banali e francamente discutibili, in un gioco allo spostamento semantico che, alla fine, crea solo confusione. Per questo oggi penso che si dovrebbe cercare una maggiore chiarezza e onestà intellettuale per far sì che, per così dire, ogni fiume torni a navigare nel proprio letto, definendo in modo più chiaro ciò che si fa e distinguendo le diverse produzioni artistiche, evitando così di confondere il pubblico mettendo tutto nello stesso calderone. Insomma, è il tempo di fare attenzione all'aspetto ontologico di ciò che facciamo. Di restituire all'etica la sua dignità e il suo valore.

AAJ: Sono perfettamente d'accordo: se si smettesse di spacciare per "jazz" tante cose che vengono proposte anche nei festival jazz e si distinguesse quello che ormai può a buon diritto essere definito "pop jazz" dalle proposte più coraggiose e creative, allora potrebbe tornare a formarsi un pubblico, magari di nicchia ma costante, per queste ultime. Confondere i piani porta a confondere anche le aspettative e a rendere difficile, specie per ascoltatori neofiti od occasionali, l'assunzione della postura d'ascolto adatta alla situazione: perché, per esempio, l'ascolto di un'improvvisazione radicale richiede una postura diversa dall'ascolto di una formazione che fa standard o di una che basa tutto sul blues.

GL: Aggiungerei che la contemporaneità è ancora segnata dai cascami di un certo "postmodernismo di riflesso," che hanno contribuito all'attuale confusione, per esempio abolendo la distinzione tra cultura alta e cultura popolare. Un'abolizione che poteva avere un senso allora come reazione a uno strutturalismo a volte asettico, ma ne ha uno ben diverso oggi. Una riflessione critica sul postmoderno ritengo oggi sia assolutamente necessaria proprio al fine di ristabilire gli equilibri fra etica ed estetica, rimettendo in campo le "categorie," altrimenti da tutto questo caos non ne usciamo vivi, perché culturalmente siamo dentro una minacciosa spirale che procede verso il basso.

AAJ: Tuttavia questo "rimettere ordine," che pur condivido, entra in certo modo in conflitto con il tuo stesso percorso artistico, visto che in realtà nella tua nutritissima discografia ci sono cose anche molto diverse tra loro: non sei un "puro" improvvisatore radicale, né più in generale un indefesso sperimentatore, e non disdegni di far parte di formazioni relativamente più "tradizionali": orchestre di musicisti delle tue terre, formazioni con un "repertorio" —anche se magari non propriamente di standard—e persino accompagnamenti di cantanti, come nei recenti dischi di Tiziana Ghiglioni e Mina Carlucci (clicca qui per leggerne le recensioni). Per non parlare del tuo ruolo di esecutore della musica classica contemporanea, da Bussotti a Cage fino a Earl Brown, solo per fare qualche nome.

GL: In realtà la risposta a questo apparente paradosso è piuttosto semplice: per me non c'è separazione tra avanguardia e tradizione. A me il jazz piace tutto e mi sento immerso in un flusso che include tutte le attività che gli girano attorno. Anche la stessa musica contemporanea la frequento per nutrirmi e ampliare quel serbatoio della memoria dal quale un musicista di jazz deve attingere quando diventa lui stesso il centro della creazione. Per cui per me suonare un pezzo di bebop o uno standard, un'improvvisazione radicale o un brano di Steve Lacy sono frammenti dello stesso tutto. È semplicemente materiale da cui partire per poter essere me stesso. Lavorando con e sulla memoria, quel che vien fuori (può essere una frase assimilata quando suonavo con Massimo Urbani o un cluster appreso suonando Earl Brown o tanto altro frutto di ascolti analitici o inconsci) può comunque convivere insieme, perché fa parte in modo organico del mio serbatoio e ne fuoriesce in modo spontaneo.

Dico di più: non solo non me ne faccio problema, ma ne sono persino lieto, perché non vorrei mai essere ascrivibile a uno "stile," anzi, vorrei essere il più ubiquo e indecifrabile possibile dal punto di vista stilistico. Solo così, infatti, è possibile frequentare la storia senza farsene condizionare, riferirsi a essa restando sempre e solo se stessi. L'adesione ad uno stile è sempre a rischio di manierismo e comporta quasi necessariamente l'esclusione di cose che, se emergono spontaneamente, voglio invece accettare e accogliere. Il jazz, a mio parere, ha degli archetipi storici ben definiti, che sono per esempio i suoi rapporti con il blues (inteso in senso poetico e per il suo portato fonico orientato al temperamento non equabile e microtonale), con gli standards, con il repertorio dei grandi compositori di jazz, con il suono, con le forme, siano esse "chiuse" o "aperte," tanto per citarne alcuni. Ogni musicista dovrebbe trovare il proprio modo di affrontare e risolvere i rebus che questi archetipi consegnano. Superando le categorie di "giusto" e "sbagliato," perché ogni musicista dovrebbe fare storia a sé e possedere una propria mitologia personale il più possibile inafferrabile, rivendicando il proprio diritto all'esoterismo.

AAJ: Parlavi di lavorare con la memoria.

GL: Sì, perché l'orecchio è sostanzialmente memoria e l'emancipazione dell'orecchio—che oggi c'è poco non solo nel pubblico, ma anche nei musicisti, che tendono appunto a individuarsi in uno "stile"—è emancipazione della memoria. Una memoria libera è capace non solo di ricordare il passato, ma anche di immaginare il futuro. In questo senso le mie esperienze diversificate mi sono anche servite—e ancora mi servono—per verificare la mia (presunta) emancipazione. Ovvero, verificare se il mio portato di memoria possa funzionare sia con Massimo Urbani, sia con Steve Potts, per citare due nomi, trovando di volta in volta la chiave d'accesso alla gestione degli archetipi che evocavo prima. Fermo restando che poi ciascuno ha bisogno dei suoi momenti di relazione "diretta" con la storia.

Alcuni anni fa feci dei concerti con Evan Parker, il quale faceva mezz'ora in solo prima del nostro concerto in duo. Alla fine del solo spesso gli chiedevano dei bis: ebbene, lui faceva sempre temi di Monk, suonati perfettamente! Mi colpì moltissimo, perché credo che non abbia mai registrato nulla del genere, ma dal vivo aveva il bisogno di questo contrasto tra avanguardia e tradizione, di sostare un momento su temi di un Maestro prima di rigettarsi nella propria creazione personale. Una creazione nella quale non "rappresenti" qualcosa della storia, ma—istantaneamente—manifesti la tua storia.

AAJ: Certo c'è un complesso rapporto—diciamo così—dialettico tra la storia/repertorio e l'artista/se stesso, perché nessuno crea dal nulla...

GL: Certo, la memoria è il serbatoio della creatività; però è un serbatoio dal quale si può anche pescare "alla cieca," cosa che presuppone un grande e fondamentale atto di fiducia verso se stessi: nel momento in cui ti proponi come soggetto creativo devi credere di poterlo fare. Ma è anche vero che spesso è necessario sollevarsi dal peso della storia. Se vuoi volare lontano e in alto, devi alleggerire il tuo bagaglio.

AAJ: Una punta di narcisismo, nella sua forma "sana," si potrebbe dire, che se ben gestita facilita la creatività: chi non crede in se stesso non rischia, non apre bocca, non tira fuori niente dal proprio serbatoio della memoria.

GL: Il narcisismo può forse essere pericoloso quando si è in gruppo, perché può spingere a farti prevalere penalizzando il contributo che possono dare gli altri, ma è certo fondamentale quando sei da solo sul palco e devi catalizzare l'attenzione della platea, e devi farlo senza far conto su nessun altro. Il performer dovrebbe agire un po' come il seduttore di Søren Kierkegaard.

AAJ: Tornando alla tua produzione, non si può non osservare come tu sia dentro a molti bellissimi dischi usciti ultimamente, in contesti sempre assai particolari, ma anche diversi l'uno dall'altro: dal Bestiario di Francesco Massaro (clicca qui per leggere la recensione del recente Meccanismi di Volo) alle improvvisazioni con Gianni Mimmo, dal disco con la Ghiglioni ai due lavori realizzati con Francesco Cusa.

GL: Sì, sono cose molto diverse, anche se tutte caratterizzate da uno spirito di ricerca. Massaro, per esempio, è un mio ex studente di conservatorio, uno dei migliori, e quel tipo di lavoro che adesso sviluppa in Bestiario lo aveva già iniziato all'epoca del corso al conservatorio, anche perché io allora mi occupavo moltissimo della possibilità di far convivere il jazz con Morton Feldman. Parametri come melodia, armonia e ritmo nel jazz sono stati ampiamente esplorati nel corso della storia; anche in stretta relazione con la musica classica, perché, aldilà di quel che dice la vulgata, in realtà questi due mondi si sono relazionati osmoticamente molto più di quanto non si creda. Il parametro della dinamica è stato invece assai meno esplorato; la maggior parte del jazz si suona dal mezzo-forte al fortissimo, se vuoi anche in ragione degli strumenti solitamente impiegati negli ensemble e nel tipo di attacco e produzione del suono. Quindi all'epoca in classe, durante il mio Laboratorio di Improvvisazione e Composizione, per un paio d'anni esplorammo la dinamica come parametro d'azione privilegiato.

Apro una breve parentesi per dire che il campo della didattica per me è importantissimo, soprattutto perché nell'insegnare sono io stesso il primo ad imparare! Grazie a quel lavoro, infatti, produssi un disco—Agenda—dedicato alla rilettura dei brani di Steve Lacy, influenzato anche dal lavoro di interprete che stavo facendo in parallelo sulla musica di Morton Feldman. Massaro, invece, intraprese una sua ricerca che—dopo molti anni, circa una decina—gli ha permesso di mettere a punto questo suo progetto interessantissimo, incentrato sulla timbrica, la dinamica e il concetto di "superficie sonora." Tornando alla molteplicità, potrei dirti che egoisticamente deriva dal fatto che ho molti interessi e appetiti estetici che voglio soddisfare. Ogni volta, per me, c'è il desiderio di risolvere un diverso problema poetico, di risolverlo alla mia maniera e in modo estemporaneo, qui e ora. Sapendo che le soluzioni possono essere infinite ma parziali. Perché in fondo un brano, un'idea, una premessa, non sono altro che campi di azione; rizomi che si sviluppano diversamente a seconda del contesto, dello spazio e del tempo.

AAJ: In questo contesto plurale di interessi, la musica contemporanea come si situa?

GL: Sono un musicista di formazione classica. Ho iniziato così da bambino, a sei anni, e ho proseguito per molti anni solo su quella strada, sebbene anche allora ogni tanto improvvisassi. Avevo interessi assai diversificati. Ricordo ancora benissimo che quando facevo la terza media, era il 1977, avevo una cassetta registrata da un amico con su un lato Stop di Karlheinz Stockhausen, sull'altro le sonate per flauto dritto e basso continuo di Haendel dette "Il pastor fido." Amavo entrambe le composizioni allo stesso modo! Del resto faceva parte dello spirito del tempo: anche la pubblicistica musicale dell'epoca tendeva a interessarsi egualmente di cose diverse. Ricordo che ero abbonato a Laboratorio Musica, rivista diretta da Luigi Nono, e potevi trovare una accanto all'altra la recensione di un concerto di Maurizio Pollini, un'intervista a John Tchicai, o la recensione di una registrazione de L'Arte della Fuga, per dire. Perciò a me tutto sembrava sempre e solo musica, compresa una parte del rock, come David Bowie o i King Crimson. Con i quali saltuariamente collaborò un personaggio come Keith Tippett, che ascoltai in solo nel 1979 e mi impressionò moltissimo, così come Franco D'Andrea, che ascoltai nello stesso anno sempre in solo.

Io allora iniziavo a fare i miei primi concerti suonando soprattutto Bach, Beethoven e Liszt ed ero orientato ad una carriera di pianista classico. Del resto, in casa mia di jazz avevamo accidentalmente solo un disco di Lennie Tristano e uno di Erroll Garner. Infatti quando improvvisavo facevo cose che sembravano Boulez o Stockhausen!

Il jazz storico, il jazz "afroamericano," io l'ho conosciuto subito dopo i vent'anni, quando sono partito per il servizio militare e sono finito in una base NATO, dove fortuitamente mi capitò tra le mani una cassetta di Bill Evans. Quando l'ascoltai ebbi una sorta di shock emotivo: dentro c'era la sintesi tra il mondo di Chopin, le armonie di Ravel e un lirismo classico calato in una contemporaneità di messaggio. Iniziai subito a studiarlo, perché volevo impadronirmi del codice, della lingua. Che però ho imparato dopo, un po' come Milan Kundera che ha iniziato a scrivere in francese imparando la lingua da adulto, quando s'era trasferito in Francia. Un francese diverso dai madrelingua, chiaramente, e che quindi imponeva nuova luce sul risultato sintattico e poetico.

La differenza è che la madrelingua jazz probabilmente non c'è: siamo tutti potenzialmente di madrelingua jazz, perché la lingua del jazz è la tua propria! Il tuo stile è il frutto delle tue fragilità.

AAJ: Certo, lo stile, così come l'identità, è la difesa di alcune sicurezze che ti servono perché non ti fidi di andare avanti a mani nude. Una cosa che vale nel jazz, ma vale in tutti i campi della vita: guarda cosa sta succedendo in campo politico.

GL: Dal punto di vista biografico per me la "musica contemporanea" (per quanto possa significare questo termine, perché tutta la musica è contemporanea nel momento in cui viene suonata) entra in scena prima del jazz. E lo ha fatto in modo naturale, perché ero un adolescente, non ero influenzato più di tanto da determinati pregiudizi culturali o d'altro genere. A quindici anni, per radio, ascoltai A floresta é jovem e cheia de vida di Luigi Nono e mi colpì fortemente per il suo mistero. Solo molto dopo ho scoperto che quell'opera era largamente improvvisata.

AAJ: L'improvvisazione, appunto. Come forse saprai c'è una ricerca piuttosto fiorente in ambito filosofico su questa pratica, che si concentra sul jazz ma non si limita ad esso, della quale un po' mi interesso e che cerca di determinare meglio il concetto e i parametri che lo definiscono, in particolare cercando i criteri che permettono di individuare quando un'improvvisazione possa considerarsi "riuscita." Tu, che pratichi l'improvvisazione anche nelle sue forme più estreme, come la definisci?

GL: In primo luogo direi che l'improvvisazione "perfetta" non esiste e che il concetto stesso di improvvisazione richiede l'accettazione della fallibilità e dell'imperfezione del processo. In secondo luogo aggiungerei che si tratta di un tentativo di raggiungere quella perfezione, accompagnato però dalla consapevolezza, un po' malinconica, che non la si raggiungerà. In altre parole, l'improvvisazione riuscita per me è quella riesce a sembrare all'ascolto una composizione e la composizione riuscita è quella che sembra all'ascolto un'improvvisazione. Una specie di gioco tra esecutore e pubblico, un gioco a conservare un segreto. Forse è una posizione personalissima, ma io la vedo così.

AAJ: Credo che la cosa sia condivisa da molti altri improvvisatori, anche se magari la esprimerebbero con parole diverse. Ed è una concezione sensatissima, anche se va incontro ad alcuni paradossi.

GL: L'improvvisazione stessa è un paradosso. I miei laboratori sull'improvvisazione partono proprio dal suo paradosso. Ti faccio un esempio. Supponendo che io non abbia mai visto una chitarra in vita mia, se la prendessi facendo un gesto sulle corde ottenendo una certa figura musicale, nel momento in cui ripeto quel gesto nel corso di un'improvvisazione di fatto non sto più "improvvisando," ma sto prendendo una decisione istantanea legata alla memoria di quel risultato fonico. La memoria è analoga a un testo scritto che possiamo riprodurre. Ciò fa emergere il paradosso originario: la "vera" improvvisazione sarebbe possibile una sola volta nella vita, oppure sempre ma a patto di dimenticarsi di noi stessi, cosa impossibile perché in quel caso non saremmo più "soggetti." È per questo che Cage—il quale volutamente non parlava di improvvisazione, bensì di "azione disciplinata" —delega il processo compositivo al caso usando l'I Ching. In tal modo Cage ha liberato la decisione dalla sua riproducibilità attraverso la memoria. Se qualcosa è riproducibile vuol dire che da qualche parte c'è il calco, il "testo," la matrice; mentre l'improvvisazione ideale dovrebbe essere creata ex novo e ex nihilo.

L'improvvisazione è qualcosa di assolutamente perfetto e parziale nella sua ontologica imperfezione, perché se esistesse l'improvvisazione perfetta, sarebbe quella definitiva e non avrebbe più senso praticarla. Peraltro non si può non riconoscere che in musica e in tutte le arti "performative" si improvvisa sempre. Se interpreto un Preludio e Fuga di Bach, per fare un esempio, faccio delle scelte estemporanee, perché un conto è suonarlo su quel pianoforte, in quell'auditorium e con quel tipo risposta al suono, un altro è farlo in uno studio di registrazione, o suonarlo al clavicembalo, e via dicendo. Quindi, anche se in questo caso, diversamente che in un'improvvisazione "da zero," le note sono quelle di Bach, ci sono così tante di quelle decisioni estemporanee da poter considerare entro certi limiti anche questa un'improvvisazione. In definitiva, improvvisare significa prendere istantaneamente tutta una serie di decisioni dall'attimo successivo al momento in cui la si pratica per la prima volta.

AAJ: Rispetto alla definizione che avevi dato prima l'aspetto che mi sembra più problematico è il punto di equilibrio tra scrittura e improvvisazione, quel punto che entrambe le pratiche devono raggiungere: anni fa ne parlavo con Alfonso Santimone, che aveva appena fatto un lavoro a partire dai Sei Piccoli Pezzi per Piano di Arnold Schoenberg, il quale mi diceva che in quel caso l'intreccio tra jazz e scrittura si basava sul fatto che Schoenberg i pezzi li aveva scritti cercando di farli sembrare improvvisati, mentre lui improvvisava cercando di far sembrare che fosse musica scritta. Dunque gli estremi che si toccano!

GL: Infatti, come dicevo prima, l'importante è la conservazione del mistero! Del resto, la musica deve preservare un nucleo di mistero, altrimenti si ascolterebbe una volta sola, in quanto il gioco sarebbe da subito spiegato.

AAJ: Trasferiamoci dalla teoria alla pratica: di fatto quando lavori in contesti di improvvisazione radicale, per esempio con Gianni Mimmo, come ti muovi, cosa ti guida?

GL: Al novantanove per cento mi guidano libere associazioni mentali. Di solito quel tipo di improvvisazione le realizzo in duo o comunque in gruppi di stampo cameristico, il che è diverso da suonare da solo. Per cui mi pongo in posizione di ascolto e qualsiasi suggestione mi arrivi dal compagno—di tipo timbrico, poetico, estetico, gestuale, ecc.—fa scattare un corto circuito nella mia memoria che io prelevo, rielaboro e ripropongo. Queste associazioni possono essere di tipo "banalmente" musicale—un passaggio che ho suonato in passato, per esempio di Salvatore Sciarrino—che riprendo e sviluppo, oppure, più spesso, di tipo visuale e/o gestuale.

Da giovanissimo sono stato a lungo incerto se dedicarmi all'arte musicale o a quella visuale e tutt'ora quest'ultima è al centro dei miei interessi. Spesso ricorro a metafore visuali e/o gestuali per spiegare ed apprendere fenomeni sonori. L'improvvisazione è quindi un gioco molto complesso e per questo molto affascinante. Il punto d'arrivo—come hai detto tu prima—è quello in cui si raggiunge la con-fusione tra ciò che appare scritto e ciò che appare improvvisato, tra quel che è preso dalla memoria e quel che è invece assolutamente accidentale—il dito che ti sfugge dal tasto, l'ambulanza che sta passando per strada e il cui suono inglobi nella performance... Ma quel che è veramente interessante non è la meta bensì il viaggio.

La bellezza di praticare o di ascoltare sta nel processo che si deve mettere in atto. È come fare un viaggio, ma senza mappa: non ti vengono a prendere per portarti all'aeroporto e poi, una volta a destinazione, all'albergo, per poi accompagnarti a visitare quelle che vengono considerare le bellezze del luogo; qui vai da solo in un posto senza saperne niente e cominci a esplorare, scopri da solo quel che c'è da vedere e, magari, ti perdi. Sono due modi differenti di viaggiare, uno organizzato e uno no. Non ce n'è uno "oggettivamente" migliore dell'altro, ciascuno ha pregi e difetti propri e ognuno può preferire quello che crede migliore per lui. Certo, il primo conferisce maggiore importanza al risultato—vai in un posto e vedi tutte le cose che "non si possono non vedere" se sei stato là—il secondo invece conferisce maggiore importanza al processo—vai in un luogo e fai delle scoperte via via che ti muovi, selezioni le cose da vedere con decisioni estemporanee e prese da te, non dall'agenzia di viaggi.

AAJ: Chiarissimo. Questo spiega anche perché le improvvisazioni libere siano spesso più apprezzabili e comprensibili se seguite dal vivo che non se ascoltate su disco, anche se non mancano dischi bellissimi e il tuo Wet Cats con Francesco Cusa è tra quelli: perché dal vivo è meglio percepibile il processo creativo, del quale si individuano i passaggi grazie anche all'aspetto visivo. Perché un processo è comunque una cosa che mette in gioco tutte le componenti dell'essere umano che lo dispiega, non solo quella musicale. E questa credo sia anche la ragione per cui, almeno oggi, questa musica non è facilmente presentabile a un largo pubblico: perché richiede un'attenzione elevata e concentrata non solo sugli aspetti strettamente musicali.

GL: E così siamo tornati al punto di partenza. Tutto ciò richiede impegno, un'attitudine che oggi è un po' fuori moda.

AAJ: Richiede impegno, ma anche una distinzione tra musica registrata e musica dal vivo che non c'è più, perché oggi la musica dal vivo è per i più un evento celebrativo del musicista che si ascolta sui dischi, tanto che se nel concerto l'artista interpreta i brani in modo diverso da come fa nei dischi, il pubblico mostra delusione, perché non riconosce il prodotto.

GL: Infatti questa è l'attitudine della musica pop applicata pericolosamente al jazz. Un'estetica del "prodotto" per cui la musica "vera" è quella del disco e discostarsene vuol dire "suonare male"; pertanto, ogni variazione è un allontanamento da ciò che l'ascoltatore già conosce e lo obbliga ad uno sforzo per seguire, capire e magari anche apprezzare quel che di nuovo gli stanno proponendo. E, come dicevo prima, oggi non si è molto disposti a fare un viaggio nuovo senza navigatore, neppure a braccetto con l'artista. Ad ogni modo, se registro un CD sto facendo un film. Se suono dal vivo sto facendo teatro. E a volte si può anche sconfinare nel circo....

AAJ: Il tuo viaggio artistico adesso dove ti porta?

GL: Ovunque possa arricchirmi e ritrovare me stesso. E devo dire che questo periodo della mia vita da questo punto di vista è piuttosto fecondo e non vedo l'ora di fare il prossimo concerto, nel quale tutti i frammenti raccolti possano ricomporsi naturalmente in nuove e cangianti costellazioni. Cosa che avviene meglio nel piano solo, ma per la semplice ragione che più siamo e più il dialogo va frammentato e poi riorganizzato.

AAJ: Hai toccato magicamente da solo un tema che avevo dimenticato, cioè l'esperienza in piano solo...

GL: Questo è jazz! Dare risposta a domande che non sono state fatte. A me interessa scoprire, simbolicamente, quello iato scaturito dal mancato incontro tra Charlie Parker e Edgar Varese, a seguito della morte prematura di Parker. Le storie non scritte, gli eventi non accaduti, rendono affascinante questo viaggio nell'immaginazione. Un po' come gli amori non vissuti, che spesso sono i più duraturi. Tutto il resto serve per formarsi, per attrezzarsi ad affrontare questa avventura chiamata jazz.

AAJ: Concordo e sottolineo che questa paradossalità non significa affatto, come molti sostengono per sfuggirla, che si sia fuori dal mondo del comprensibile o dell'argomentabile, sia perché neppure nella logica più stringente mancano le biforcazioni e i paradossi—e questo non rende la comprensione dei fenomeni meno importante e necessaria—sia perché, comunque, non esiste una sola "Verità" sulle cose e gettare dei fasci di luce negli angoli più bui aiuta a sentirsi a proprio agio quando si spenge la luce.

GL: La comprensione non avviene solo ed esclusivamente a livello razionale. Il mio modo di rapportarmi all'improvvisazione è quasi sempre di tipo fisico e gestuale, senza far intervenire troppo la mente e il pensiero. Da questo punto di vista bisogna stare molto attenti a usare il paragone fra musica e linguaggio semantico, perché l'archetipo della musica per me risiede nella danza. È qualcosa di molto più ancestrale e ha a che fare con il corpo.

AAJ: Questo mi ricorda l'esperimento fatto una decina di anni fa, quando fu fatta una risonanza magnetica a cinque pianisti mentre eseguivano prima una frase scritta, poi un'improvvisazione, per vedere cosa cambiava nel loro cervello. I risultati, detto in modo molto riassuntivo, furono che nella frase scritta si attivava in prevalenza la corteccia, ritenuta sede della razionalità, che invece si disattivava nell'improvvisazione lasciando attivare i lobi prefrontali, ritenuti invece sede dell'emotività.

GL: Non può essere che così, perché nell'improvvisazione manca il tempo per far intervenire la razionalità, che deve analizzare, smontare e rimontare: è necessario delegare alla sfera emotiva e inconscia, che invece risponde in modo spontaneo e immediato. Bisogna dare spazio al corpo, lasciando da parte la mente. E avere -come dicevo prima -una fiducia nelle parti di se stessi che non si "controllano," che sono fragili, ma vere, e solitamente tenute dietro a delle barriere, che invece qui devono essere abbassate, senza inibizioni.

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