Home » Articoli » Live Review » Torino Jazz Festival 2025
Torino Jazz Festival 2025

Courtesy Colibrì Vision
Torino, varie sedi
2330 aprile 2025
"71 concerti, 8 produzioni originali, 289 musicisti, 58 sedi," così sul retro del programma cartaceo viene sintetizzata e pubblicizzata la tredicesima edizione del Torino Jazz Festival, diretta da Stefano Zenni. Non solo concerti, ma anche conferenze e film sono stati distribuiti in tutta la città, costringendo a volte a rinunce per il sovrapporsi degli orari e spesso a spostamenti faticosi, soprattutto per gli ospiti affluiti da lontano. Come in altre edizioni il festival ha incluso la Festa della Liberazione, assumendo un particolare significato quest'anno per aver celebrato gli ottant'anni della ricorrenza. Dell'ampia gamma delle proposte musicali, italiane e internazionali, si è avuta la prova nei tre giorni, dal 25 al 27 aprile, in cui ho potuto partecipare al festival. Una particolare attenzione è stata posta alle solo performance pianistiche; d'altra parte, se si scorrono i programmi di altri festival primaverili si scopre che si tratta una scelta piuttosto ricorrente. A Torino, due esibizioni di piano solo si sono svolte all'Auditorium del Conservatorio Giuseppe Verdi in concerti pomeridiani.
Vijay Iyer ha aperto la sua esecuzione nel segno di un approccio prudente e pensoso, che presto ha portato a linee ampie e reiterate, quasi epiche, all'interno delle quali sono emersi temi esotizzanti, accenni di grovigli free, brevi e percussive citazioni occulte di classici del jazz. Il tutto concatenato e conseguente in un'esposizione quasi didascalica, fino ad approdare a una versione distorta e repentinamente conclusa di "Friday the Thirteenth" di Monk. L'improvvisazione che è seguita si è presentata forse più unitaria, basata su contrasti dinamici, sull'alternanza di accelerazioni e pause, talvolta impreziosite da virtuosismi sperimentali. La terza sezione invece ha preso subito le mosse da una tonica e stravolta interpretazione di "I've Got You Under My Skin," che si è prolungata fino ad immergersi in progressioni ridondanti. Proseguendo ancora, la solo performance di Iyer si è dipanata fra standard e propri original, fra improvvisazioni, ora meditabonde ora turbolente, e canti della resistenza sudamericana, fino a concludersi rivisitando "Imagine" di John Lennon. Il suo pianismo onnivoro e citazionista, proteso verso inflessioni enfatiche, pur non essendo di per sé sinonimo di particolare originalità, è tuttavia espressione di una persistente visione postmoderna che sa attingere ad un patrimonio molto esteso per riproporlo con consapevolezza, partecipazione e buon gusto.
Nel concerto di Amaro Freitas la mano destra ha privilegiato veloci scale tramate come trine minute, con sotterranei riferimenti a storiche hit della musica brasiliana, mentre gli accordi tracciati dalla mano sinistra fornivano un deciso andamento ritmico a mo' di walking bass, mirando a creare un'eccitazione costante e fremente. In un brano, caratterizzato da un suo canto lento ed evocativo, protratto con il loop, ha sovrapposto un pianismo sempre percussivo ma disteso su linee più pacate e minimaliste; passato poi attraverso una serie di suoni anomalirichiami per uccelli, fischi, semplici frasi su un flautino cromatico, è poi tornato al canto e al pianoforte su una melodia più scura e malinconica; il tutto corroborato sempre da un accorto ed efficace uso del loop. Altrove è ricorso ad altri espedienti: episodi di piano preparato, un ritmo che richiamava il ragtime... In definitiva, rispetto alle sue prime apparizioni italiane, il mondo musicale di Freitas sembra essersi evoluto e irrobustito, ribadendo una convinta attualizzazione di certa cultura brasiliana secondo una visione personale e misticheggiante. Non ci sarebbe stato alcun bisogno di concludere il concerto chiamando la partecipazione del pubblico secondo un risaputo rito di captatio benevolentiae.
Se le apparizioni di Iyer e Freitas hanno rappresentato la conferma del loro mondo pianistico, di grande personalità anche se passibile di una più concreta sintesi, la sorpresa più esaltante è venuta dalla giovane franco-filippina Margaux Oswald, pianista di formazione classica nata a Ginevra ma residente a Copenaghen, titolare di alcune incisioni pubblicate negli ultimi anni soprattutto della Clean Feed. Il suo concerto mattutino al Teatro Juvarra ha evidenziato le caratteristiche peculiari delle sue improvvisazioni: una concentrazione assoluta nella costruzione della performance, dai toni contrastati e teatrali, e la volontà di sviscerare tutte le possibilità espressive del pianoforte con un approccio inedito e vergine, come se su questo strumento principe non si contassero secoli di esperienze. Per fare questo la Oswald è sorretta da una tecnica di prim'ordine: la fluidità della sua diteggiatura e al tempo stesso l'asciuttezza del tocco permettono di distinguere ogni nota anche nei passaggi più veloci e convulsi. Ciò non toglie che in alcuni episodi l'uso del pedale e delle mani parallele su un determinato registro riesca a creare risonanze armoniche d'insistita complessità e potenza. Inaspettati e incatenanti quindi gli esiti di un linguaggio che sarebbe sbagliato ricondurre solo alle esperienze estreme del free. Una verifica si potrà avere nel concerto, immancabile, previsto il prossimo primo novembre al Forlì Open Music, organizzato da Area Sismica.
Di estremo interesse anche la proposta di Korale, un quartetto italo-coreano nato nel 2024 grazie a una residenza al festival di Follonica, dove i giovani componenti, che risiedano in angoli lontani del mondo, si sono trovati a collaborare. Dall'introduzione puntillistica alle successive atmosfere più collettive e rigogliose, quello che è emerso in questo progetto transculturale sono stati soprattutto gli impianti compositivi, a firma dell'uno o dell'altro ma sempre presenti e caratterizzanti, e la sensibilità, un po' straniante per le nostre orecchie, d'impronta orientale, conferita dall'ottimo pianista Youngwoo Lee e soprattutto dal gayageum, imponente strumento a corde della tradizione coreana suonato da DoYeon Kim, in evidenza anche come cantante. Assai incisivi e singolari gli impasti sonori creati dai loro duetti.
Fondamentale nel contempo la componente italiana, responsabile della struttura e della concretezza di questa musica immaginifica: il pizzicato spaziato, selettivo e ben scandito del contrabbasso di Michelangelo Scandroglio, oltre al sapiente uso dell'archetto, hanno fornito un'ossatura portante, mentre il drumming di Francesca Remigi, bergamasca ma ormai cittadina del mondo, ha proceduto secondo metriche precise senza rinunciare a colori e sussulti perentori. Questo concerto ha emanato idee inedite, freschezza giovanile e sorprese a non finire, fra cui le canzoni cantate dalla Kim, dai toni ora drammatici ora nostalgici, fino a giungere all'inaspettato omaggio a Puccini con l'arrangiamento dell'aria "Quando men vo" dalla Boheme, riproposta dal gayageum e dal pianoforte con esiti impensati, dall'inflessione esotica e anche un po' dissonante.
Nei tre giorni di cui riferisco è stata nutrita e qualificata la partecipazione di gruppi italiani. Il trio Anokhi, pilotato da una decina d'anni da Cristiano Calcagnile, già documentato da un disco We Insist! e completato da Giorgio Pacorig al piano e Gabriele Evangelista al contrabbasso, è stato recentemente integrato da Francesco Bigoni al sax tenore e clarinetto. Fra le varie anime che in passato hanno caratterizzato la musica del trio (il jazz, ma anche l'improvvisazione radicale e calligrafie d'impronta contemporanea), nel concerto ascoltato alla Fondazione Educatorio della Provvidenza è prevalsa una decisa temperie jazzistica, avviata dai temi ben stagliati, tutti scritti dal leader, ed esposti da piano e sax. Se il variegato drumming del leader è sempre stato particolarmente propulsivo, dettando di volta in volta le direzioni da intraprendere, gli sviluppi improvvisativi nei vari brani hanno visto intrecciarsi i contributi di tutti i partner: sempre ben costruito il fraseggio e pastosa la sonorità del tenore e del clarinetto di Bigoni, martellante, a volte più orientato verso una pronuncia free, il pianismo di Pacorig, possente il pizzicato di Evangelista, che ha preso anche un pregevolissimo assolo con l'archetto. Un concerto di compatta concretezza, dalla comune visione condivisa e retto da un infallibile interplay quello offerto da questo nuovo quartetto, dimostrando fra l'altro come l'ingresso delle ance abbia ulteriormente potenziato le possibilità espressive dell'originario trio.
Con il settetto Nexus, diretto da Daniele Cavallanti e Tiziano Tononi, ci si è trovati di fronte ad una pronuncia ancor più aderente ad un robusto linguaggio jazzistico, sia perché da decenni questa è sempre stata la convinta scelta espressiva dello storico gruppo milanese, con riferimento a precise esperienze statunitensi, sia perché questo progetto specifico, già su disco pubblicato nel 2024 dalla Red Records, affronta una rilettura del repertorio di un maestro come Eric Dolphy. Alla Casa Teatro Ragazzi e Giovani, arrangiamenti stringati e collaudati, a firma per lo più di Tononi e su tempi prevalentemente sostenuti, hanno dato una versione movimentata, focosa e convincente dei meravigliosi temi per finire con "Out to Lunch" dall'omonimo LP di Dolphy. Sul palinsesto stimolante di questa suite ogni membro dell'ensemble ha avuto modo di dare il suo sostanzioso contributo; sono così affiorati la conduzione del drumming sagace di Tononi, la voce sanguigna e bluesy del tenore di Cavallanti, la sintesi spigolosa ma raffinata e centratissima del soprano di Roberto Ottaviano, le nervose sortite di Emanuele Parrini al violino, gli arabescati e cristallini interventi di Luca Gusella al vibrafono, il solido sostegno del contrabbasso di Andrea Grossi, i colori morbidi e più appartati di Alessandro Castelli al trombone.
Rispetto alla prova del Nexus, "Blues and Bach," omaggio tributato alla musica di John Lewis, è risultato non dissimile nell'impostazione, in quanto anche in questo caso si è trattato dalla reinterpretazione di un repertorio storico, ma divergente nelle intenzioni musicali e negli esiti sonori. In questa produzione il trio di Enrico Pieranunzi è stato affiancato dall'Orchestra Filarmonica Italiana diretta da Michele Corcella, ideatore del progetto e autore di tutti gli arrangiamenti. Questa riproposizione del connubio fra jazz e musica classica, per certi versi ha rappresentato una versione attualizzata della categoria "Jazz with Strings," anche se in questo caso un quintetto d'archi era affiancato da cinque fiati. Di questo lavoro, anch'esso già su disco, si è potuto apprezzare innanzi tutto la proverbiale eleganza swingante del pianismo di Pieranunzi, riscontrabile per altro anche nella professionalità dei partner del suo trio: Luca Bulgarelli al contrabbasso e Mauro Beggio alla batteria. Gli arrangiamenti di Corcella hanno spiccato per la mobile, fluida e coesa leggerezza, ben interpretata dai pertinenti orchestrali.
Per finire, riferisco della produzione originale del festival "Blowin' in the Wind," che nel periferico Cinema Monterosa, a Nord del centro storico, ha visto l'ottetto di Furio Di Castri alle prese con "bozzetti sonoriscrive il leader sul catalogodei paesi che hanno vissuto conflitti drammatici, a cui abbiamo assistito impotenti negli ultimi settant'anni." Ne è risultato un grande inno alla pace, intonato da una compagine di motivati strumentisti: oltre a Di Castri, Mauro Negri, Giovanni Falzone, il giovane Federico Pierantoni, ormai presenza insostituibile di molte formazioni, l'ospite Nguyen Le, Andrea Dulbecco, Fabio Giachino e Mattia Barbieri. Le composizioni per lo più del leader, ma anche di Dulbecco, Le, Zlatko Kaućić ed altri, hanno passato in rassegna, quasi per esorcizzarle, le piaghe che hanno via via martoriato il Vietnam, l'Irlanda, il Cile e l'Argentina, la Bosnia, la Palestina...
Gli impianti melodici dei temi si sono rivelati non eccessivamente descrittivi o mimetici nei confronti delle culture prese a riferimento; quanto agli arrangiamenti hanno dato corpo a una musica collettiva, basata sul fermento delle idee, ma anche sulla misura della consapevolezza, su graduali crescendo e sugli incastri fra gli interventi dei singoli. Ognuno, nessuno escluso, ha contribuito con assoli raramente stentorei, quanto piuttosto somministrando colori, atmosfere, allusioni e citazioni, che hanno caratterizzato i vari brani. Tutti i musicisti sarebbero quindi meritevoli di specifiche menzioni, ma, oltre alla sicura funzione registica del leader, mi limito a segnalare soltanto i pervadenti e aerei flussi del vibrafono di Dulbecco, i risonanti spunti della chitarra di Le, la pronuncia mutevole e ben tornita del clarinetto di Negri.
Tante e di ottimo livello le iniziative collaterali ai concerti; fra le conferenze posso ricordare solo la foga passionale con cui Luca Bragalini ha disteso un complesso affresco nel raccontare "La favolosa storia di Pannonica, la mecenate del jazz." Al Cinema Massimo invece sono stati proiettati film di grande interesse. Personalmente ho potuto assistere soltanto a "Just Play and Never Stop. Un viaggio spericolato nel jazz," in cui il regista Jonny Costantino ha selezionato e montato con un taglio del tutto personale immagini tratte dalle ultime due edizioni del Torino Jazz Festival: primi piani dei volti, stralci di interviste, sequenze musicali e poche scritte significative hanno riepilogato alcuni temi fondamentali del fare jazz.
Tags
Live Review
Vijay Iyer
Libero Farnè
Italy
Torino
Amaro Freitas
Margaux OSWALD
Youngwoo Lee
DoYeon Kim
Michelangelo Scandroglio
Francesca Remigi
Cristiano Calcagnile
Giorgio Pacorig
Gabriele Evangelista
Francesco Bigoni
Daniele Cavallanti
Tiziano Tononi
Eric Dolphy
Roberto Ottaviano
Emanuele Parrini
Luca Gusella
Andrea Grossi
Alessandro Castelli
John Lewis
Enrico Pieranunzi
Michele Corcella
Luca Bulgarelli
Mauro Beggio
Furio di Castri
Mauro Negri
Giovanni Falzone
Federico Pierantoni
nguyen le
Andrea Dulbecco
Fabio Giachino
Mattia Barbieri
zlatko kaucic
Comments
PREVIOUS / NEXT
Support All About Jazz
