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Paolo Angeli: Su "Lema" E Molto Altro

Courtesy Emanuela Porceddu
Mi sento onorato e responsabilizzato in questa ricerca, che affonda le radici nel percorso che hanno tracciato visionari sperimentali e musicisti convenzionali prima di me. Alla fine il musicista è un ladro e fonda la sua ricerca sviluppando le intuizioni di chi è arrivato prima di lui.
Paolo Angeli
Da allora Angeli ha affrontato tante situazioni e collaborazioni musicali diverse, vedendo crescere la sua fama internazionale, grazie anche alla sua frequentazione delle capitali riconosciute della sperimentazione europea e al suo trasferimento di residenza in Spagna. Sempre più frequenti, fino a diventare prevalenti nella sua attività concertistica, sono le solo-performance con la sua chitarra sarda preparata, che nel tempo ha subito varie innovazioni tecniche ed espressive.
In occasione della recente uscita di Lema, prende le mosse questa lunga intervista, che oltre ad analizzare l'ennesimo disco in solo, coglie l'opportunità di trattare tanti altri aspetti fondamentali riguardanti le scelte musicali, socioculturali e di vita del nostro interlocutore.
Nelle parole di Angeli si respira tutto il solare entusiasmo che lo caratterizza, emergono la consapevolezza e la determinazione con cui da decenni porta avanti le sue esperienze artistiche ed esistenziali.
All About Jazz: Iniziamo da Lema. Ci puoi spiegare innanzi tutto qual è il significato del titolo e quali temi hai voluto affrontare nei vari brani?
Paolo Angeli: Lema in spagnolo indica un motto, o uno slogan. Ogni musicista ha i suoi slogan, i suoi concetti che esprime e a cui si affeziona nel tempo. Inevitabilmente questo album ha a che fare con la mia relazione trentennale con la chitarra sarda preparata, con il consolidarsi del mio approccio compositivo. Se applichiamo questo concetto alla mia musica, Lema è la punta di un iceberg che affiora svelando gli aspetti topici del mio linguaggio: i pattern, le cadenze armoniche che amo di più, i timbri a cui ricorro con maggiore frequenza, le frasi che determinano il mio approccio chitarristico stratificato nel tempo, masoprattuttoLema è una sorta di autobiografia musicale che sintetizza un anno in cui ho dovuto confrontarmi con la partenza di mia madre, a cui è dedicato il disco. Il tema della partenza e della rinascita è alla base della suite dei tre brani della facciata A del vinile, in cui emerge la volontà di elaborare la separazione da lei e da persone a me molto care, in diversi casi (come Ale Sordi e Raffaele Musio) figure professionali importanti e determinanti nella mia sfera creativa. L'album analizza quel rapporto salvifico tra il mondo dei vivi e quello dei defunti, quell'area di confine che ogni persona vive e attraversa in modo estremamente individuale e che, in passato, le grandi civiltà del mediterraneo hanno collegato al mare e alla sua forza rigeneratrice, capace di tessere un cambiamento costruttivo. Lema è rinascita.
AAJ: In particolare, con che criterio hai scelto i testi delle "canzoni" per immaginare questo viaggio affettivo e interculturale?
PA: Inizialmente pensavo di scrivere i testi in prima persona. Ma sfogliando la letteratura gallurese e logudorese del '700 e '800 ho trovato tutto quello che cercavo. È incredibile come spesso, nella fase creativa, ti ritrovi sotto gli occhi quello che vorresti trasmettere, già impresso nero su bianco su una pagina. Il lavoro è stato quello di estrapolare frammenti di poesia e far convergere la scrittura verso un macro tema, quasi si trattasse di un affresco poetico collettivo. Ecco che Don Baignu Pes, Petr'Alluttu (poeti del '700 e '800), Antòni Cubeddu (poeta estemporaneo del '900) e il contemporaneo Alberto Masala, tracciano la linea poetica di questo lavoro.
Un discorso a parte va fatto per la traduzione in gallurese (a cura di Elena Morando) di "If I Must Die," del poeta palestinese Refaat Alareer, ucciso dai bombardamenti Israeliani nel 2023. Il testo è alla base di "Nakba," un brano in cui cerco di esorcizzare il senso d'impotenza che sto vivendo in questo momento storico, in cui assistiamo al genocidio del popolo palestinese in diretta sui social. Ho scelto questa poesia perché trasmette speranza, affidando al volo di un aquilone la fuga da quelle immagini devastanti. Pensavo di coinvolgere una cantante araba; in realtà, a mente fredda, ho trovato che il senso di fragilità della mia voce, che sembra spezzarsi da un momento all'altro, sia la giusta interpretazione del messaggio di Alereer. La scelta è stata fortemente sostenuta dal tecnico di questo disco, Dave Bianchi, che ha colto con grandissima intuizione ogni nota di questo lavoro, nel suo insieme, molto complesso.
AAJ: Il ricorso al canto con inflessioni etniche, che all'inizio della tua carriera poteva sembrare contrapposto all'approccio chitarristico sperimentale, oggi risulta del tutto unitario e coerente con la componente strumentale.
PA: Ho dovuto aspettare quasi trent'anni per riuscire a sentire la voce come parte integrante della mia musicalità. Ricordo con grande affetto una recensione di Giampiero Cane, pubblicata su Il Manifesto nel 1998 a seguito di un concerto al festival di Sant'Anna Arresi Jazz, organizzato dal mitico Basilio Sulis. Il titolo dell'articolo era "Paolo Angeli e Ornette Coleman rischiarano il cielo della Sardegna": un'iniezione di autostima incredibile per me che, in quel periodo, ero visto come una sorta di sfascia-carrozze. Ma Giampiero chiudeva la recensione con questa frase: "Angeli seduce il pubblico con una melodia vernacolare di nessun interesse ma demagogicamente forte." Si riferiva al Canto in Re, una delle tipologie canore più complesse del repertorio tradizionale sardo, che interpretavo a fine concerto. Cane evidenziava un contrasto stridente tra due mondi: da un lato la visione di una chitarra rivoltata come un calzino, dall'altro la voce umana che veniva usata in funzione tradizionale e senza una reale personalizzazione. Era estremamente critico in questo e, pur non condividendo fino in fondo la sua teoria (Cane detesta la musica sarda), è stato per me un elemento di riflessione importante.
Qualche tempo dopo, a Clusone Jazz, gli destinai lo stesso canto, dicendo: "dedico questa melodia vernacolare di nessun interesse a Giampiero Cane." Lui mi disse che dovevo pagargli i diritti SIAE per aver citato live il suo articolo! Aneddotica a parte, credo che il rapporto tra avanguardia e tradizione sia salvifico ed estremamente importante. Oggi nella mia musica le due anime si sono finalmente incontrate in un confronto dialettico; penso che in Lema la digestione della tradizione passi per un utilizzo della voce come un colore timbrico ed espressivo a vantaggio dell'orchestrazione della chitarra.
AAJ: Infatti, al pari di altri precedenti dischi, mi sembra che questo lavoro rappresenti la piena maturità del tuo linguaggio, nel senso che non si apprezza più soltanto la ricerca sperimentale quanto piuttosto la forma musicale completa, ricca e intensa, che ottieni dalla tua chitarra sarda preparata.
PA: Ti ringrazio e mi lusinga poter realizzare un'intervista con chi da anni segue il mio percorso e che, quindi, coglie in profondità le lente ma continue mutazioni del mio linguaggio. Negli anni ho lavorato per sottrazione, cercando di concepire le innovazioni timbriche e meccaniche dello strumento, come potenzialità offerte all'orchestrazione. Per questa ragione credo che Lema rappresenti uno Zenit; penso infatti di essere riuscito a costruire una partitura complessa, con ampi margini di libertà, e con uno sviluppo organico dell'utilizzo delle diverse parti di cui si compone la chitarra sarda preparata. Ha significato un lunghissimo lavoro di preparazione, che dal vivo trova la sua massima esplorazione e intensità.
AAJ: Fra l'altro ora utilizzi un nuovo strumento, realizzato appositamente da liutai fidati. Ci puoi rivelare in sintesi le innovazioni e i pregi della chitarra che usi attualmente?
PA: L'incontro con Carlos Micheluttis, liutaio argentino di base a Cremona, risale a diversi anni fa. Ha partecipato a diversi miei concerti e in queste occasioni, osservando lo strumento, mi diceva "qui farei questo, qui adotterei questa modifica..." È nata una grande amicizia e complicità che hanno portato a una nuova chitarra, realizzata da me insieme a Carlos e suo figlio Francesco, che mi permette di sentirmi perfettamente a mio agio sia nelle sezioni acustiche che in quelle elettriche.
Lo strumento concettualmente è molto simile al modello precedente, realizzato da Stanzani in duplice copia, con la gemella adottata da Pat Metheny. Ma la nuova chitarra ha 25 corde, una vera e propria arpa a 12 corde, ponti per realizzare modifiche timbriche e altre sezioni innovative. Poi è avvenuto il miracolo: pur avendo uno strumento nuovo, continuavo ad utilizzare i martelletti della precedente chitarra.
L'incontro con Andrea Orrù, Oran Guitar di base a Lunamatrona (Sardegna), è stato travolgente ed emozionante: per la prima volta le modifiche dei prototipi, la messa a punto dello strumento, le propaggini meccaniche, sono nate in Sardegna. Con Andrea stiamo lavorando alla realizzazione di tanti prototipi nuovi, fra cui c'è un omaggio a Sun Ra: un sistema a raggiera di aste in ottone che si rifanno ad una delle foto più comuni che immortalano questo grande visionario della storia del jazz. Come vedi, Lema si basa anche su uno strumento che ha determinato una direzione nuova, verso territori inesplorati. Ci tengo a ringraziare anche Officinevida (Daniele e Manuela) per la digitalizzazione dei progetti archiviati nel tempo.
AAJ: La solo-performance sembra essere diventata la tua espressione musicale più convinta e convincente, oltre che frequente. È così? Quali sono le ragioni che motivano questa scelta?
PA: La vita ti porta verso degli obiettivi spesso in modo del tutto casuale. Non avrei mai pensato che sarei diventato un concertista solista, arrivando dalle esperienze di grandi ensemble di musica improvvisata e di composizione collettiva. Poi nel 1996 sono approdato ai primi live in solo e per anni ho mantenuto due binari, quello dei tour da solista e le collaborazioni. Obiettivamente in questo momento le soloperformance rappresentano l'80% delle mie esibizioni in pubblico. Devo dire che quando suono con altri musicisti per me è come andare in vacanza! Stare su un palco come solista, specialmente nei contesti teatrali, più asettici rispetto ai club, implica una preparazione mentale ed esecutiva molto diversa dalla complicità che instauri con altri musicisti. Hai una maggiore responsabilità, non puoi cedere in nessun momento; io mi sento un chitarrista e credo di aver dato il mio contributo, portando la chitarra nel nuovo tempo e rinnovando il concetto stesso di concertista. Mi sento onorato e responsabilizzato in questa ricerca, che affonda le radici nel percorso che hanno tracciato visionari sperimentali e musicisti convenzionali prima di me. Alla fine il musicista è un ladro e fonda la sua ricerca sviluppando le intuizioni di chi è arrivato prima di lui.
AAJ: Sulle tue attuali collaborazioni invece cosa ci puoi dire?
PA: In questo momento sto ascoltando la registrazione realizzata con il Tenore Murales di Orgosolo: è un progetto per me molto importante, in cui si cerca il dialogo tra nord e centro Sardegna, analizzando le differenze musicali, i punti di contatto, la relazione tra improvvisazione e le pratiche di libertà della musica tradizionale. È stato straordinario il percorso che ci ha portato a quest'incontro che lascerà un segno importante nella nostra storia e che, spero, venga colto per la profonda volontà di comunicazione che si è innescata.
La registrazione, realizzata da Marti Jane Robertson, è bellissima e pulsacon una forza ora radicale, ora dialettica e discorsivacome un disco politico, in cui emerge la storia della Sardegna quale luogo in cui, spesso, le dinamiche sono quelle esistenti tra stato e colonia. Credo che colpirà molto chi ama la nostra terra e che troverà in questo album pagine di grande bellezza e conoscenza culturale. A settembre realizzerò una residenza con Redi Hasa, straordinario violoncellista albanese; lo stimo tantissimo e quando suoniamo non riconosci le voci dei singoli strumenti in quanto c'è una totale compenetrazione. Poi ci sono le cose che arrivano da lunghi percorsi di condivisione, come il duo con Antonello Salis e quello con Fred Frith (sto ascoltando ora un live di qualche anno fa in duo). Nel cassetto inoltre ho il sogno di realizzare un progetto da leader con altri musicisti. Credo che in tutti questi esempi citati il mio rapporto cambi radicalmente e che questa necessità di uscire dalla confort zone sia fondamentale per esprimere una musicalità sempre diversa. Ho una forte tensione a cercare il futuro nelle voci dei nuovi musicisti. La scena è ricchissima.
AAJ: Ti sei trasferito in Spagna ormai da molti anni. Quando e perché hai preso questa decisione? Quali sono i reali motiviambientali, personali, culturali, economici...che giustificano questa scelta?
PA: L'idea partì nel 2005 con il miraggio della Spagna di Zapatero. Era veramente una boccata di ossigeno per noi che arrivavamo dalla batosta berlusconiana. Culturalmente era tutto possibile e, dopo sedici anni di militanza culturale a Bologna, a Barcellona avevi la sensazione di una profonda differenza nella pulsione mediterranea di intendere gli incontri. È diverso fare sperimentazione a Berlino o sulle rive del Mediterraneo; sono mondi che trasmettono una modalità di approccio all'arte e alla vita molto diverse. Qui ho potuto indagare la specificità dell'avanguardia mediterranea, da diversi anni il mio mantra, trovandomi di fronte a sfide entusiasmanti, alle quali una certa staticità formale delle avanguardie storiche guarda con sospetto.
Culturalmente la Spagna esprime una maggiore libertà dell'Italia; c'è maggiore consapevolezza delle specificità e una voglia di non delegare ai musei i messaggi musicali. Pensa a quanti percorsi radicali ha saputo generare il flamenco: dalle deviazioni di Paco de Lucia, a Camarón, al picassiano Enrique Morente, che ha fatto dialogare il punk noise con la tradizione più pura. Qui in Spagna ho trovato la risposta alle domande che non avrei mai potuto sviluppare a Bologna.
AAJ: Cosa ha invece determinato il trasferimento da Barcellona a Valencia? Quali aspetti differenziano le due città?
PA: L'aspetto economico è stato uno degli elementi determinanti, accompagnato dal nazionalismo catalano che, qualche anno fa, ha affossato la multiculturalità di questa città. La maggiore influenza negativa è arrivata dal turismo di massa che ha sostituito la Barcellona fantasiosa e bohémienne con una cartolina a misura di consumo. Come si può pensare che per vivere in una città si debba affrontare una spesa di 1400 euro per un miniappartamento di 40-50 metri quadri? Quanti concerti dovrebbe fare un musicista all'anno per poter vivere con dignità in queste condizioni?
Valencia è la mia nuova casa, qui ho trovato una nuova linfa vitale, anche se mi preoccupa che ci siano in embrione i sintomi che segnalano che si sta andando nella stessa direzione di Barcellona. Sarebbe una grande perdita per un luogo che ha le pagine bianche da scrivere. Sono stato a suonare a Lisbona il mese scorso e sono rimasto scioccato del cambiamento negativo: una città completamente devastata da questa nuova violentissima forma di colonizzazione delle città, che passa attraverso i Voli Low Cost, il turismo usa e getta, lo smantellamento del tessuto sociale con gli Air B&B, che sostituiscono le dinamiche di vicinato. Qui a Valencia si respira un tipo di dinamica creativa molto stimolante: la sensazione è che qui debba succedere ancora tutto. Trovi un Humus di musicisti provenienti da tutto il mondo, che creano un tessuto sotterraneo che pulsa in modo non organico. Ho la sensazione che con gli inneschi giusti si possa rivivere una stagione simile a quella bolognese degli anni Novanta.
AAJ: Che legami, culturali e affettivi, conservi con la Sardegna, "isola" nei vari sensi della parola.
PA: La Sardegna è la mia terra e sarà sempre il luogo da cui partirò e ritornerò per fare nascere e metabolizzare le mie esperienze. È un legame estremamente profondo che non può trovare una sostituzione. L'aspetto dell'isola è uno svantaggio per una scena musicale che è freschissima e che trova nel maree soprattutto nell'incapacità dei politici nell'offrire soluzioni di reale continuità territoriale l'impossibilità di fare circuitare le proposte. Io sono un privilegiato. Torno a casa ogni qualvolta lo desideri e, allo stesso tempo, posso vivere una dinamica di relazioni internazionali tra la Spagna e i tour intercontinentali sempre più frequenti. Vivo con serenità e come una fonte di grande ispirazione la dinamica creativa sospesa tra quello che assorbo nell'area culturale spagnola e le forme tradizionali della mia terra. E dopo vent'anni penso di essere profondamente influenzato culturalmente da quanto assimilo nella penisola iberica.
AAJ: Il "tuo" festival Isole che parlano, a Palau e dintorni, giungerà il prossimo anno alla trentesima edizione, ma mi sembra che sia rimasto sempre uguale a se stesso e unico nella sua impostazione autentica, interdisciplinare e "familiare."
PA: Fin dalle prime edizioni il festival ha lavorato cercando di intercettare il magma creativo che si respira nelle capitali europee e di costruire dei ponti con la scena tradizionale e sperimentale sarda e italiana. Con mio fratello Nanni, con cui curo la direzione artistica, e uno staff fantastico di volontari, proponiamo a cadenza annuale un incontro in cui cultura, paesaggio, musica e riflessioni politico sociali respirano all'unisono, o meglio, all'eterofonia. Perché alla fine ogni linea programmatica e artistica si sviluppa con la sua libertà, contribuendo alla definizione di un mosaico distorto e imperfetto, come il mondo in cui viviamo. L'assenza di grandi nomi ci permette di lavorare con molta libertà sul contenuto delle proposte, che prescinde dal grado di fama di un'artista. Questo viene premiato da un pubblico che ci segue perché sa che nel festival troverà qualcosa che ancora non conosce. Anche per noi è uno stimolo per immaginare rotte inesplorate e per presentare una musica radicata nella realtà contemporanea e non museificata.
AAJ: Ci puoi fare qualche anticipazione sul programma dell'edizione di quest'anno, che si svolgerà dal 6 al 14 settembre?
PA: Crediamo con forza nei movimenti d'innovazione che trovano spazio nell'Europa di oggi. Se da un lato abbiamo dei governi conservatori, che combattono la migrazione e non favoriscono l'integrazione, dall'altro l'arte dà risposte di direzione opposta. L'Italia di oggi non ha niente a che vedere con quella di trent'anni fa, quando è nato Il festival, così come è diversa l'Europa e sono diversi i movimenti di consapevolezza culturale che cercano l'incontro tra la tradizione e l'innovazione. Per l'edizione del 2025, verrà dato spazio al post rock di A Bad Day, in grado di trasformare un duo di chitarre in una vera e propria orchestra, alle melodie curde trasfigurate di Elana Sasson, al detonante free jazz anatolico di Korhan Futaci, alle canzoni post folk dei polacchi Maniucha & Ksawery (quest'ultimo impegnato anche in un duo di contrabbassi con Esat Ekoncioglu), all'incontro tra la tradizione andalusa e il punk di El Perrate + ZA. Avremo anche la sperimentazione vocale e strumentale della bassista e cantante messicana Fuensanta, senza dimenticare il trio di Giacomo Ancillotto, il quintetto Heavy Sound di Sabrina Coda e naturalmente uno sguardo attento alla scena sarda, estremamente presente nel programma con l'avvincente minimalismo di King Of Sheppard, l'elaborazione della tradizione di Arrepicos, il Tenore di Illorai, la politonalità a 'tasgia' del Coro Gabriel.
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