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Enrico Rava Quintet feat. Joe Lovano al Padova Jazz Festival

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Enrico Rava Quintet feat. Joe Lovano
Teatro MPX
Padova Jazz Festival
Padova
26.10.2018

Dopo alcuni incontri estemporanei del passato, Enrico Rava e Joe Lovano si ritrovano per imbastire un tour sostanzioso, supportati da una band di stelle, con Giovanni Guidi, Dezron Douglas e Gerald Cleaver.

Il sodalizio, a ben vedere, è del tutto naturale. Laterali sia al mainstream che alle avanguardie, Rava e Lovano condividono un'attitudine al "canto" libero, a suo agio sia nelle strutture tradizionali che nell'abbandono informale.

Il quintetto ha suonato venerdi scorso al teatro MPX di Padova, primo acuto del fitto programma del Padova Jazz Festival, giunto con orgoglio alla ventesima edizione. Un teatro strapieno e un pubblico che ha goduto di un'esibizione genero,,sa, di gran classe, reclamando diverse repliche finali.

Pur organizzato su responsabilità paritetiche, non vi è dubbio che il gruppo sia spinto dal carisma di Enrico, suggeritore della maggior parte delle trame e dei temi. Impegnato solo al flicorno, Rava continua a stupire per la fedeltà a uno stile che è solamente suo e che lo colloca ai vertici del jazz, ormai da decenni.

Da sempre fervente e dichiarato seguace di Miles Davis e Chet Baker, non ha mai suonato come loro: bastava ascoltare l'ennesima esposizione del canovaccio di "My Funny Valentine" per rimarcare insieme l'amore e la distanza da quei due maestri. Per Rava ogni assolo è importante, non c'è quasi mai routine nelle sue graffianti improvvisazioni, piuttosto ogni volta una sintesi definita della sua personalità, che ama le imperfezioni così come il lirismo privo di sentimentalismi. Un esempio ancora limpido, contraltare di tanti giovani ipertecnici odierni, lontani dalla sua poesia.

Lovano è un indiscutibile campione del sax tenore che, dopo essersi evoluto nel corso degli anni, vive forse oggi un momento di stasi, ma garantisce un tasso di energia e sapienza rari. Si insinua nelle armonie con irruenza, talvolta all'inizio fuori tonalità, come faceva un tempo Dewey Redman, per poi planare in souplesse al centro del tema; oppure ammalia con un suono scolpito nella versione assai bella di "Chelsea Bridge" di Billy Strayhorn.

Il quintetto presenta un repertorio variegato, policromo. Fatica un po' all'inizio per trovare gli equilibri, poi si scioglie in una struttura di blues veloce, dove lascia la sua impronta Giovanni Guidi. Ormai affermato e brillante come leader, Guidi non finisce di imparare e qui si impone come rifinitore di lusso, giocando dialetticamente tra forma e improvvisazione free, un po' sulle orme del Don Pullen storico.

Segue una sequenza molto aperta, in cui il gruppo si scompone in duetti e trii, prima di approdare alla contagiosa "Tribe," noto tema di Enrico. La musica è spesso decomposta, frammentata, porosa, felicemente lontana dall'asettico perfezionismo.

Un gran merito va ai ritmi, i meravigliosi Douglas e Cleaver, perfetti nell'assecondare e nel suggerire.

Dopo un'elegiaca parafrasi di "Somewhere Over the Rainbow" e la già citata "My Funny Valentine," il gruppo si getta in una variazione rovente di "East Broadway Run Down" di Sonny Rollins, che prelude ai trascinanti bis finali.

Il festival continua con, tra gli altri, John Scofield, The Licaones, Irreversible Entanglements, Steve Wilson, ma il programma è ricco anche nella seconda metà di novembre.

Foto: Michele Giotto

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