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Bergamo Jazz Festival 2019

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Bergamo Jazz Festival
Varie sedi
21-24.3.2019

Il Bergamo Jazz Festival non cessa di rinnovarsi nella continuità. È stato questo il quarto e ultimo anno della direzione artistica di Dave Douglas. Nel 2020 il testimone passerà nelle mani di Maria Pia De Vito. Scelta opportuna non solo perché la cantante napoletana introdurrà la prima quota rosa nella direzione della pluridecennale manifestazione, ma anche per le innovazioni che sarà in grado di apportare.
Erano in particolare due gli aspetti che hanno caratterizzato la quarantunesima edizione. Da un lato il coinvolgimento sempre più ampio di spazi storico-monumentali della Città Alta, perseguendo un vitale confronto fra espressioni, culture ed epoche diverse. Dall'altro la diversificazione delle proposte musicali dell'attualità jazzistica e non solo, fino ad includere due protagonisti assoluti della musica di matrice africana: Dobet Gnahoré e Manu Dibango. Al set della trentaseienne cantante della Costa d'Avorio, ipercinetico, governato da un metronomo ferreo nella musica come nelle movenze, ha fatto riscontro quello del giovanile ottantacinquenne sassofonista camerunense, mosso da una reiterazione dapprima pacata, un po' demodé, quasi sognante, poi via via più vivace.

Le serate del festival si sono aperte al Teatro Sociale con un opportuno omaggio al bergamasco Gianluigi Trovesi, evidentemente emozionato, in occasione del suo settantacinquesimo compleanno, compiuto in gennaio. Suddiviso in due parti, con piccole formazioni o con l'orchestra, il concerto ha rivisitato composizioni passate e recenti del sassofonista di Nembro.
Nella carrellata di brani del primo set sono risultati invariati lo spirito, l'ironia delle contaminazioni culturali che caratterizzano i suoi brani. Il tutto sottoposto però a una decantazione emotiva e a una brevità esecutiva, che hanno sottoposto i temi a una parabola narrativa essenziale, rendendoli perfettamente leggibili nella lapidaria sintesi. A questa sono stati chiamati anche gli interventi solistici del leader e dei titolati partner: la pianista israeliana Anat Fort, il trombettista tedesco Manfred Schoof, uno dei maestri storici del free europeo e la clarinettista tedesca Annette Maye, allieva fra l'altro dello stesso Trovesi. Le formazioni erano di volta in volta completate dai pertinenti Paolo Manzolini alla chitarra e Marco Esposito al basso elettrico, oltre che dall'estroso Fulvio Maras alle percussioni.

Nel secondo set della serata è entrata in scena l'esperta norvegese Bergen Big Band sotto la direzione di Corrado Guarino, responsabile anche degli arrangiamenti; le parti soliste erano affidate soprattutto, oltre che al leader, agli stessi ospiti stranieri Maye e Schoof. Nella riproposizione della suite Dedalo, edita dalla Enja nel 2002, qualche aculeo della verve originaria è stato smussato e la grana degli impasti orchestrali è parsa a tratti più mainstream. D'altra parte nel confrontare versioni così lontane nel tempo non solo la nostra memoria costituisce necessariamente un filtro poco attendibile, ma soprattutto è chiaro che un'operazione di rivisitazione non possa che aderire al mutato spirito dei tempi. Nel complesso l'approccio di Trovesi in questa occasione celebrativa, attorniato dalla variegata compagnia sopra citata e con questo repertorio, è risultato non tanto nostalgico, quanto piuttosto improntato a una puntuale, distaccata e consapevole rimeditazione.

Altro tema di fondo è stato il confronto a distanza al Creberg Teatro fra due giganti americani del sassofono tenore: Archie Shepp e David Murray.
Il primo, che a maggio compirà ottantadue anni, dopo decenni di apparizioni per lo più demotivate e spente, in tempi recenti sembra tornato un entusiasta mattatore. A Bergamo, dove era sostenuto da un adeguato quartetto, il sound del suo tenore ha presentato le tipiche note strozzate e sdrucciole, memori di quando negli anni Sessanta e Settanta era un maestro del free. Il fraseggio invece è parso più possibilista e ripetitivo, ritorto su se stesso. Il soprano, petulante e abrasivo, è stato imboccato soltanto in "Revolution," suo brano dedicato alla nonna. La forma e lo spirito del blues, pervadente e terreno, sono emersi soprattutto quando Shepp ha cantato con eloquio e spaziature da predicatore, con quella sua voce tipica, gutturale e catramosa. Qua e là è spuntato un misticismo di estrazione coltraniana, come immancabile è stata la riproposizione di temi ellingtoniani. In definitiva oggi Shepp si presenta come il custode, il portatore di un compendio personale della storia del jazz.

La sera dopo, il concerto di David Murray, anch'egli in quartetto e su un repertorio di brani recenti o della sua giovinezza, non ha convinto in pieno. La sua pronuncia sassofonistica ha riproposto l'originale impostazione, pur perdendo un po' di smalto: un sound lirico e graffiante è stato modulato in estatiche estensioni di registro, in scorribande frenetiche, anche se a volte un po' di maniera. Ma soprattutto, questa pronuncia non è stata messa al servizio di un progetto sufficientemente audace e ben orientato. Ovviamente per volontà del leader, essa è stata invece sostenuta da un contesto ritmico atto a concretizzare un'idea canonica del jazz, con i pur bravi Dezron Douglas al contrabbasso ed Eric McPherson alla batteria impegnati a tramare ritmi regolari e uniformi. L'unico ad assecondare il sassofonista con un pianismo obliquo e coraggioso, di matrice post-tyneriana, è stato David Bryant. Peccato, perché anche recentemente avevamo ascoltato il sassofonista californiano in collaborazioni ben più aperte e sperimentali.

Un'altra presenza americana di spicco è stata quella del quintetto Terence Blanchard and The E-Collective, che ha proposto un jazz certo attuale, su ritmi sostenuti e dal ricco sound individuale e collettivo. Alta era inoltre la componente elettrica, a cominciare dall'eloquente tromba elettrificata del leader, sempre in evidenza assieme alla chitarra di Charles Altura. Eppure, con il trascorrere dei brani questa musica si è rivelata ridondante e ripetitiva, senza tendere a un'opportuna sintesi.

Oltre agli appuntamenti serali del main stage, il palinsesto concertistico del festival si presentava fitto e articolato in luoghi e orari diversi. Tanto che ragioni logistiche hanno purtroppo impedito di seguire adeguatamente la sezione "Scintille di jazz" curata da Tino Tracanna. Ma è stata la sezione "Jazz in città," distribuita nelle sedi più anomale e prestigiose, accogliendo per lo più le proposte straniere e italiane maggiormente informate a una ricerca aggiornata e stimolante, a rivelarsi come la più interessante.

Nella appartata ma molto accogliente Sala Piatti, costruita nel 1903 e riaperta nel 2003 dopo un prezioso restauro, sotto le mani di Jacky Terrasson "Caravan" o "Besame mucho," Satie o Monk sono stati solo un pretesto, una palestra per esternare il suo pianismo estremo, contrastato e sensazionalistico. Le idee interpretative si sono susseguite e sovrapposte a velocità incalzante. Non c'è stata sosta nel procedere imprevedibile delle sue improvvisazioni, con repentini passaggi dal fortissimo al pianissimo, da deformazioni armoniche a citazioni eccentriche. Soprattutto, le continue variazioni dinamiche hanno incluso lentezze estenuate e delicatissime, scale frenetiche, dissacranti e poderose masse percussive, silenzi improvvisi... Il suo esibizionismo di fondo, sorretto da un'inventiva inesausta, era però intriso anche dal consapevole distacco dell'autoironia.

L'estroversa solo performance del pianista francese si è rifatta tutto sommato a una certa tradizione di matrice americana. Al contrario la proposta del duo Sara Serpa—André Matos, compagni anche nella vita, entrambi portoghesi ma stabilitisi a New York, dove collaborano con vari esponenti della sperimentazione internazionale, ha portato la novità di una ricerca problematica e intrigante, anche se in attesa di una piena maturazione.
La cantante non possiede doti vocali vistose: la sua emissione algida e ferma, senza vibrato e senza una matrice culturale evidente se non quella di una generica, sospesa contemporaneità, presenta un timing statico e un'intonazione non perfetta. Le sue interpretazioni, iniziate in modo stentato, hanno poi via via acquisito un senso preciso, in particolare nell'affrontare i propri original, prendendo sicurezza e un'intonazione esatta. Il chitarrista, al suo fianco come già nei due cd pubblicati, ha mostrato un linguaggio lineare e meditativo ma azzardato al tempo stesso, coerente con il canto della partner. In definitiva sono state appunto le loro composizioni sofisticate, dall'andamento melodico-armonico insolito e impegnativo, a risultare del tutto apprezzabili.

Come già su disco, nell'Horn Trio Federica Michisanti era attorniata dai fiati di Francesco Lento, tromba, e Francesco Bigoni, tenore e clarinetto. Nell'Ex Oratorio di San Lupo, piccolo spazio settecentesco a pianta quadrata, dove si è esibito anche il duo portoghese, le composizioni dell'emergente contrabbassista romana, prevalentemente meditative, su ritmi lenti e dalle strutture aperte, sono state raccordate fra di loro da lunghi spazi improvvisativi. Le pronunce dei singoli, continua e scura quella della leader, frastagliata e a tratti lirica quella del trombettista, circonvoluta e pastosa quella di Bigoni, si sono perfettamente integrate fra loro, allontanandosi da quella pulizia cameristica che prevaleva nel trio in cui la Michisanti era affiancata da pianoforte e sassofoni. La dimensione pienamente jazzistica, ritmicamente e melodicamente scandita, è comunque risultata evidente in "Further," uno dei due brani proposti come bis.

Nel concerto mattutino all'Accademia Carrara si è replicato il sodalizio fra Pasquale Mirra e Hamid Drake, attivo da quasi dieci anni. La loro improvvisazione ha emanato un'altissima carica melodica e ritmica, ma anche timbrica se si considerano gli strumenti e gli accessori acustici utilizzati. Il materiale tematico a cui sono approdati ha spaziato da loro original a brani di Don Cherry e di altri. Ma quello che è risultato particolarmente avvincente è stato il modo sempre variato di avvicinarsi a quei temi, intessendo accenni, sospensioni, riprese, frasi sussurrate, grovigli più materici, tanto da creare una sorta di suspense. È stata sorprendente la varietà di accenti e di dinamiche messe in campo, toccando momenti d'infuocata tensione e passaggi di delicatissima, sognante decantazione.
Se Drake è il maestro conclamato dalla lunga esperienza, che col tempo e in questo contesto in particolare sembra aver prosciugato e tenuto sotto controllo la sua irruenza africaneggiante (strepitoso il suo spazio solistico al canto e tamburo a cornice), il vibrafonista campano ha confermato di aver raggiunto l'autorevolezza e lo spessore del grande co-leader e improvvisatore.

Se a mio parere il duo Mirra—Drake ha costituito l'esperienza più emozionante del festival, la proposta più giovane, fresca, innovativa è venuta dal quartetto inglese Dinosaur, ascoltato all'Auditorium di Piazza Libertà. La sicurezza pulita e quasi distaccata della tromba della leader Laura Jurd, talora dal sound scandinavo talaltra dal piglio più deciso, ha spiccato sul contesto ritmico movimentato, ora esplicito ora cangiante, dalla moderata componente elettronica, fornito da pianoforte e sintetizzatori, basso elettrico e batteria: rispettivamente gli efficaci Elliot Galvin, Conor Chaplin e Corrie Dick. Il loro interplay e il loro atteggiamento improvvisativo, piacevole, intrigante e culturalmente eclettico, si è basato su head arrangements, che hanno collegato i vari temi in suite senza intervalli, rendendo molto fluido e naturale il transitare da un'idea tematica a un'altra, dai collettivi agli assoli, dai passaggi obbligati all'apertura dei momenti aleatori.

Foto di Luciano Rossetti (Phocus Agency)

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