Home » Articoli » Live Review » Südtirol Jazzfestival Altoadige 2024
Südtirol Jazzfestival Altoadige 2024

Courtesy Günther Pichler
Varie sedi
Bolzano e provincia
28.6-7.7.2024
Sempre più il festival altoatesino si qualifica come una palestra di sperimentazione, tesa a favorire aggregazioni inedite fra improvvisatori prevalentemente giovani ed europei, ma non solo, proponendo alcuni dei musicisti in diversi contesti. Nei 54 concerti che si sono susseguiti in più parti della provincia (Merano, Bressanone, Brunico... ma anche nei rifugi d'alta quota, oltre che nel capoluogo) molti gruppi si sono esibiti in varie sedi. Si sono così alternate produzioni originali e formazioni già consolidate, presentando proposte musicali molto diversificate fra loro per impostazione e spessore artistico. Fra sperimentazione elettronica e attuali esperienze del free, fra improvvisazione e nuovi esercizi di scrittura, quello che a Bolzano e dintorni sembra non essere di casa è il mainstream più canonico. Ovviamente a fianco di performance di trascinante intensità estetica si sono avvicendate proposte più accademiche o ancora irrisolte, ma comunque sostenute da una grande motivazione giovanile. In particolare, quest'anno un aspetto non trascurabile è stata la prevalenza della presenza femminile su quella maschile, sottolineando un fenomeno ineludibile dell'attuale scena jazzistica internazionale. Ancora una volta si è avuta l'occasione di partecipare a un festival vivace e propositivo, la cui direzione artistica, della triade Stefan Festini Cucco, Max von Pretz e Roberto Tubaro, ha permesso di ascoltare progetti e formazioni che non è facile ascoltare altrove in Italia.
Il mio soggettivo resoconto del festival ha inizio, non a caso, dal primo concerto a cui ho assistito, vale a dire dalla solo performance del percussionista berlinese Tilo Weber, che si è esibito a Casa Goethe, in pieno centro storico di Bolzano. Il suo set batteristico era integrato da un vibrafono, da una serie di piccole campanelle sospese, da un tubo metallico ricurvo a gomito, dotato di una tipica nota risonante... Una concezione sonora di estrema delicatezza non ha escluso sprazzi quasi aspri, ottenuti da bacchette metalliche e soprattutto da un megafono che deformava il sound dell'azione percussiva. L'atteggiamento tranquillo e consapevole, ma versatile, dell'improvvisatore ha amministrato con intelligenza e sensibilità una performance di grande varietà ritmica e timbrica, più allusiva e confidenziale che animata da una propulsiva determinazione. Non si può che concordare con quanto si legge sul catalogo: "l'allievo di Paul Motian... si concentra più su ciò che tralascia che su ciò che dice in modo diretto."
Quest'anno Tilo Weber è stato uno degli artisti residenti del festival e lo si è potuto apprezzare anche in altri concerti con diverse formazioni, fra cui va segnalata la prima assoluta del duo con Théo Ceccaldi, una delle produzioni originali del festival. Nel concerto mattutino alla Cantina di Casa della Pesa, la capacità di ascolto e d'interazione istantanea ha portato il percussionista tedesco e il violinista francese a creare una performance organica e distesa, in cui il controllo degli sviluppi ha prevalso su un'istintiva foga di esposizione. Le idee melodiche avvolgenti, il piglio interpretativo, nonché l'uso saltuario ma opportuno della voce e del fischio da parte di Ceccaldi si sono perfettamente integrati con le diversificate strutture ritmiche tramate con estrema naturalezza da Weber, padrone dei suoi mezzi tecnici ed espressivi.
Purtroppo non ho potuto ascoltare un altro gruppo costituito per l'occasione che accostava Weber alla sassofonista estone Maria Faust e a Matteo Paggi, trombonista emergente di casa nostra (anche se residente in Olanda); chi ha assistito al concerto mi ha riferito di averne tratto un'impressione molto positiva. Al contrario non posso definire esaltante la collaborazione, avviata da un paio di anni, fra il disponibile percussionista berlinese e il quartetto femminile di flauti Nancelot, fondato nel 2020 dalla svizzera Nancy Meier. Gli intrecci fra le quattro flautiste, i fitti impasti armonici e i delicati risvolti melodici sono risultati come raggelati da una struttura compositiva onnipresente, austera e puntigliosa. Paradossalmente, in questo contesto colto-accademico, più che nelle partecipazioni sopra ricordate, i brevi interventi del batterista hanno preso andamenti più canonicamente jazzistici.
Come già nel 2023 un appuntamento mattutino è stato ospitato nel Bunker H, contorto e gelido labirinto scavato sotto il monte Guncina, residuo delle Seconda Guerra Mondiale che da undici anni è stato recuperato alle visite pubbliche e ad eventi culturali. Quest'anno è toccato al collaudato duo Sofia JernbergMette Rasmussen, già titolare di un disco, che riporta un concerto risalente al dicembre 2017. Per quanto riguarda il timing, l'intonazione, gli spunti melodici, la loro improvvisazione totale è stata giocata sulla ricerca di analogie e di immediati rimandi interni più che sull'asserzione del contrasto e delle sorprese. L'affiatamento ha spinto il loro dialogo verso un'unitaria continuità, pur esasperando le marcate connotazioni espressive di entrambe: il sound e il fraseggio della contraltista danese sono emersi con grande potenza inventiva su tutti i registri, mentre i discreti vocalizzi della Jernberg, etiope d'origine ma cresciuta in Vietnam ed oggi residente in Svezia, hanno incantato per le anomale intonazioni e per la molteplicità degli effetti canori. Inaspettatamente, come bis la cantante ha intonato con un fil di voce l'aria di Monteverdi "Sì dolce è 'l tormento," subito dirottata verso un'obliqua improvvisazione del duo. Di qualità assoluta la loro condensata performance, che forse ha beneficiato anche della buia e raccolta location.
Del tutto diversi, anzi opposti, i propositi e l'impostazione del giovane trio tedesco del contrabbassista Nils Kugelmann, che ha alle spalle un CD pubblicato dalla Act nel 2023. Se è vero che l'etichetta di Monaco di Baviera si qualifica per un proprio carattere sonoro, si può dire che questo classico trio piano-basso-batteria lo rappresenta in pieno. L'insinuante andamento melodico dei temi esposti dal piano di Luca Zambito, la conduzione possente del pizzicato del leader, il frizzante drumming di Sebastian Wolfgruber, il cui assolo è stato avviato e sostenuto da un pedale incalzante intrapreso da piano e basso, le progressioni danzanti e condite con un pizzico di minimalismo alla Nyman che contraddistinguono lo sviluppo dei brani, l'interplay rilassato e sinergico che lega i tre jazzisti... Tutto, nel concerto ascoltato nel lussureggiante parco dell'Hotel Laurin, ha replicato un certo jazz acustico di oggi, indubbiamente gradevole e accattivante, ma mai problematico.
Dopo due anni è stato riproposto il progetto Skilla della bassista e vocalist italo-ucraina Ruth Goller, anche lei ascoltata anche in altri contesti, che ha governato le sue melodie distese ed evanescenti, del tutto preordinate da una composizione attenta, affidandole alle voci complementari di Lauren Kinsella e Alice Grant e al procedere selettivo e meditato del batterista Max Andrzejewski, inserito per l'occasione nella formazione già precostituita. In una sala della Fiera di Bolzano, l'andamento del concerto, tenuto sempre sotto controllo, ha dato esiti incantatori di un certo fascino nei suoi impasti melodici e armonici. Di particolare efficacia un cupo duo tramato dalle note lunghe e alonate del basso elettrico della leader e il drumming del partner, frammentato da intervalli di silenzio.
Per terminare questa prima parte dedicata ai concerti svoltisi a Bolzano e dintorni in location singolari, suggestive anche se a volte poco capienti, ricordo un appuntamento del tutto particolare svoltosi al Filmclub. La proiezione del film muto "Mr. Radio," girato in Germania nel 1924 dal regista italiano Nunzio Malasomma, ha visto il commento sonoro del tutto improvvisato dell'inedito trio composto dal sassofonista tedesco Daniel Erdmann, dalla tastierista rumena Olga Reznichenko e dalla batterista bergamasca, ma ormai cittadina del mondo, Francesca Remigi. La vicenda del film, interpretato dalla star dell'epoca Luciano Albertini, propone ripetutamente azioni talmente incalzanti, movimentate e acrobatiche che i tre jazzisti non hanno potuto fare altro che adeguarsi con improvvisazioni altrettanto mosse e frenetiche, mettendo in evidenza approcci personali in parte diversi: agli interventi di Erdmann sempre costruiti con attenta concatenazione si sono affiancati il drumming sussultorio, istintivo, di grande qualità jazzistica della Remigi e la ricerca, ora insinuante ora più determinata, della Reznichenko.
Come nelle passate edizioni, molti dei concerti più importanti si sono svolti al Parco dei Cappuccini, trasformato in un Base Camp, luogo di incontro in cui, oltre ai concerti sotto il capiente tendone, si concentravano ristorazione e punto informazioni. Il quartetto Økse, produzione realizzata nel 2022 dal Saalfelden Jazz Festival, ha rappresentato uno degli apici della manifestazione altoatesina. Difficile individuare un centro di questa musica collettiva alla quale ognuno dei quattro componenti porta il preciso peso specifico della propria personalità. La statunitense Val Jeanty, l'alchimista del suono dietro la sua nutrita postazione, ha creato un panorama di situazioni immaginifiche in continuo movimento, che a tratti potevano sembrare azioni di disturbo e che invece quasi sempre hanno indicato le direzioni da imboccare, anche sotto il profilo tematico-melodico. Mette Rasmussen (ancora una sua pregevole apparizione) ha raccolto questi stimoli per svilupparli con una pronuncia ben strutturata e perentoria, del tutto diversa dalle provocatorie esasperazioni free dei suoi esordi. Savannah Harris, che potrebbe passare per una classica batterista jazz-rock, in realtà ha continuamente animato il suo drumming con poderosi sussulti di energia. Non da meno è stata la prestazione dello svedese Petter Eldh, che al contrabbasso ha costituito una spina dorsale insostituibile, oltre a coadiuvare la Jeanty con pulsazioni ostinate all'elettronica. Questo quartetto cosmopolita ha dimostrato di saper proporre un jazz contemporaneo, aperto e libero, senza argini vincolanti, in grado di emanare circostanze propositive, vitali e avvincenti.
Il quartetto cosmopolita Bonbon Flamme ha esordito con un incipit rumoristico, reticente e informale, che ha presto lasciato il posto a una sorta di melopea "indiana," cantata e suonata all'unisono dal collettivo su una base ritmica greve, costante e ripetitiva, raggiungendo un crescendo parossistico. Su questo tenore è proseguita l'esibizione: a momenti di riduzione dell'aggressività e del volume si sono alternati temi espliciti, spesso d'impronta rock, declamati in modo stentoreo, ma anche episodi di raccordo, ora di un rumorismo squassante ora più astratti. A questo progetto musicale esagitato, invadente e imprevedibile, diretto da un paio di anni dal violoncellista francese Valentin Ceccaldi, hanno dato il loro contributo motivato e concreto il tastierista belga Fulco Ottervanger, il chitarrista portoghese Luís Lopes e soprattutto il perentorio batterista francese Étienne Ziemniak. Molteplici sono state le sorprese offerte da questo spregiudicato compendio di esperienze musicali, anche se non tutte allo stesso livello qualitativo.
Per certi aspetti, non molto dissimile è risultata la proposta di Jet Whistle, un quintetto tutto francese e giovane, pilotato dalla flautista Fanny Martin. In questo caso il riferimento al fischio emesso dai jet, che già aveva ispirato Heitor Villa-Lobos, non è che un pretesto per esplorare sonorità, tessiture compositive e sortite solistiche anomale. Rispetto alla musica del gruppo Bonbon Flamme, l'impianto generale si è rivelato più accademico e di minor impatto l'interpretazione del canovaccio compositivo; il che è da attribuire anche al minor spessore strumentale dei singoli, se si escludono la leader e il trombonista Jules Regard. In ogni caso, oltre all'originalità della concezione progettuale, va apprezzato il palpabile entusiasmo giovanile che anima questa formazione, che nel finale del concerto ha dato il meglio di sé.
Ben più elettrizzante è stato il set dell'altrettanto giovane settetto Day by Day, che vede il ventinovenne contraltista tedesco Fabian Dudek contornato da due trii paritari. La performance, cominciata un po' in sordina, ha ben presto preso quota, mettendo in evidenza l'impasto formicolante elaborato dal doppio trio, con i due batteristi, Leif Berger e Alex Parzhuber, fronteggiantesi in un dialogo prevalentemente nodoso e indeterminato, poi divenuto più fisico. Le tastiere di varia natura, azionate da Felix Hauptmann e dalla già citata Olga Reznichenko (un'altra protagonista presente in molti gruppi del festival), erano impegnate a produrre andamenti e sonorità più liquide, mentre i due bassi elettrici di David Helm e Roger Kintopf hanno prodotto un alone scuro e riverberante, mai inopportuno. Su questo fitto contesto, in cui un briciolo di elettronica non ha stonato, ha svettato il contralto di Dudek, alternando costruzioni geometriche e ponderate alla Threadgill e slanci di un avvincente lirismo free. La sua musica, in parte scritta ma interpretata dai partner con una buona dose d'improvvisazione, concentrata e finalizzata, ha prospettato una sintesi matura e personale di alcune modalità fondamentali del jazz attuale.
Del tutto intenzionale e premeditata è risultata l'esperienza di Velvet Revolution, avviata da molti anni dal tedesco Daniel Erdmann e realizzata da formazioni sempre diverse; ai Cappuccini il trio era completato dal violinista Theo Ceccaldi e dal vibrafonista ucraino Jim Hart. Riff incalzanti, controcanti e fughe, frasi veloci che terminano in stop improvvisi, accelerazioni e rallentamenti, distese linee melodiche, una paritaria alternanza nel far emergere gli spazi solistici ed altro ancora hanno caratterizzato la musica elegante e aulica di questo trio su brani scritti da ognuno dei tre componenti. Come prevedibile, le sortite del violinista francese si sono impennate più irruente rispetto al compassato eloquio del tenore del leader e alle linee limpide del vibrafonista. A parte qualche brano in cui l'improvvisazione si è mossa più accesa e audace, la proposta non ha nascosto negli intenti e negli esiti una retorica un po' artificiosa e sofisticata.
Frutto di pochi giorni di confronto e ideazione, il trio formato dal già rodato duo Simone GrazianoCamilla Battaglia, integrato dal notevole batterista svizzero Julian Sartorius, è stato artefice di un set intrigante e tonico, dalla precisa parabola costruttiva. Il pianismo di Graziano si è ritagliato lunghi interventi di densa consistenza free, oltre a stendere avvolgenti campi lunghi all'elettronica, mentre Sartorius ha sviluppato un mobile periodare ritmico, avvalendosi di un set batteristico dalle varie ed efficaci possibilità timbriche; in alcuni frangenti il loro raffronto ha dato vita a una vera e propria tenzone. In questo contesto la voce della cantante, inizialmente un po' sovrastata dal ridondante tessuto strumentale, nella seconda parte del concerto si è presa il dovuto spazio, soffermandosi prevalentemente su lenti vocalizzi evocativi e ricorrendo anche ad un sapiente uso dell'elettronica. Nel complesso questo recente sodalizio ha pienamente convinto, creando un flusso sonoro ininterrotto, che ha alternato crescendo imperiosi e opportune decantazioni della tensione, momenti di narrazione descrittiva e slanci elegiaci.
Per concludere questo resoconto, per forza di cose selettivo e parziale considerato il numero abnorme e multiforme delle proposte offerte dal festival altoatesino, riferisco di un paio di concerti notturni fra i tanti programmati al jazz club Sudwerk Ca' de Bezzi. Ineludibile è la replica di Kabarila, performance multimediale che per il quinto anno consecutivo ha celebrato una sorta di "rito wagneriano," dipanatosi per cinque ore, dalle 21 alle 2 di notte. Per quanto mi riguarda, mi sono limitato a seguire una porzione centrale di quasi due ore, che mi ha dato comunque la possibilità di comprendere le dinamiche che guidavano l'improvvisazione dei quattro strumentisti, affiancati fra fumi e luci colorate da un trio di danzatori. Uno degli obiettivi è stato il raggiungimento di un'ipnosi collettiva ubriacante, ottenuta dalle costanti e ossessive metriche ritmiche, in lentissima evoluzione, tracciate da basso e batteria, rispettivamente l'austriaco Lukas Kranzelbinder e il sopra ricordato Julian Sartorius. Non è stato da meno l'indefesso lavoro condotto dalla francese Delphine Joussain, il cui flauto veniva quasi sempre deformato in un sound rauco, anti-lezioso dall'elettronica, e dal tedesco Johannes Schleiermacher, ottimo sassofonista e flautista free, oltre che responsabile anch'egli di un concreto frastuono elettronico.
Inaspettatamente, in questo greve ordito sonoro senza interruzioni, a un certo punto si è stagliato un lungo intermezzo del tutto acustico, aperto dalla Joussain, che ha vagato solitaria nello spazio precedentemente occupato dai danzatori, emettendo brevi frasi drammatiche, isolate da silenzi. Ha fatto seguito un assolo di Kranzelbinder al contrabbasso, corposo e organico, d'impianto decisamente jazzistico, che ha introdotto il lento rientro in scena del batterista e del tenorista. La ripresa di atmosfere elettroniche, più aggressive e concitate, non ha escluso di ritagliare episodi mirati, come un consistente duo fa il drumming di Sartorius e il flauto di Schleiermacher.
L'elettronica l'ha fatta da padrona anche nell'improvvisazione del duo formato dall'anomalo chitarrista statunitense Killick Hinds, cinquantaduenne della Georgia, e dalla nostra batterista Francesca Remigi; collaborazione che li ha già portati a condividere il CD Empowered Kind, inciso nel febbraio 2022. L'americano ha azionato il suo strumento auto-costruito, in cui alle estremità di una complessa cordiera compaiono i corpi di due piccole chitarre simmetricamente contrapposte. Possiamo paragonare approssimativamente il risultato sonoro a quello del daxofono di {{Hans Reichel (se qualcuno ancora lo ricorda) o a quello della chitarra sarda preparata di {{Paolo Angeli, oltre che alle sinuose armonie del theremin. Alle invenzioni continue dell'americano la Remigi ha risposto con un incedere batteristico inventivo e nervoso, variato ritmicamente e timbricamente, a tratti di grana canonicamente jazzistica, a tratti integrato e alterato dagli innesti elettronici. Ne è risultato un set molto sperimentale, che è transitato da fasi dinamiche a statiche depressioni, da fughe in lontani mondi astrali e regressioni in una magmatica e degradata realtà terrena.
Tags
Live Review
Mette Rasmussen
Libero Farnè
Italy
Bolzano
Tilo Weber
Paul Motian
Théo Ceccaldi
Maria Faust
Matteo Paggi
Sofia Jernberg
Nils Kugelmann
Ruth Goller
lauren kinsella
Daniel Erdmann
Olga Reznichenko
Francesca Remigi
Val Jeanty
Savannah Harris
Petter Eldh
Valentin Ceccaldi
Fulco Ottervanger
Luis Lopes
Étienne Ziemniak
Fanny Martin
Fabian Dudek
Simone Graziano
Camilla Battaglia
Julian Sartorius
Lukas Kranzelbinder
Delphine Joussain
Johannes Schleiermacher
Killick Hinds
Comments
PREVIOUS / NEXT
Support All About Jazz
