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Jazz em Agosto 2022

Jazz em Agosto 2022

Courtesy Vera Marmelo - Gulbenkian Música

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Jazz em Agosto
Fondazione Gulbenkian -Varie sedi
Lisbona, Portogallo
30.7-7.8.2022

L'ultima edizione di Jazz em Agosto conferma il fiuto infallibile della direzione artistica per ciò che profuma di nuovo nelle musiche contemporanee afferenti al jazz.

Vi sono larghi mezzi qui, che permettono di invitare appositamente artisti non necessariamente in tour e di sfruttare quindi scelte oculate, orientate verso la ricerca, piuttosto lontane dal mainstream.

Il focus principale di quest'anno è a favore della International Anthem, etichetta di Chicago che fa confluire nel suo catalogo musicisti già affermati e giovani sperimentatori attenti a coniugare musiche interdisciplinari, testimonianza della vita di comunità e di un attivismo sociale assai vivace.

Irreversible Entanglements sono ormai un nome di punta, collettivo paritario la cui irrequietezza è sinonimo di trasformazione costante. Di recente interessati ad una elettronica piuttosto "vintage," a Lisbona sono riusciti ad equilibrare bene gli istinti, affermando già una musica di sintesi che contiene la ritualità di Art Ensemble Of Chicago e la spinta cinetica suggerita dall'insegnamento di Sun Ra. Moor Mother insiste sulla centralità della responsabilità individuale e della consapevolezza culturale, con uno spoken word ammaliante, mentre la musica azzera la componente armonica e si svolge in orizzontale, con il perno ritmico di basso e batteria in una sorte di trance esecutiva e i fiati in dialettica: la tromba di Aquiles Navarro distesa e solare, i sassofoni di Keir Neuringer più aggressivi, tetragoni. Un grande set, arricchito anche dal multistrumentismo (elettronica, percussioni ecc.), ancora una volta lontano dai solchi dei dischi e indice di maturità performativa.

Discepolo, a suo modo, di Sun Ra, anche Rob Mazurek, non in senso stilistico ma concettuale. La sua Exploding Star Orchestra (rarissimo ascoltarla, dunque prezioso l'invito lisbonese) è organico modulare, ma non può prescindere da alcune voci strumentali (Nicole Mitchell, Tomeka Reid, Chad Taylor, Ingebrigt Håker Flaten) raggiunti in questo caso anche dall'unico italiano presente al festival, Pasquale Mirra, da Angelica Sanchez, da un tantino fuori posto Julien Desprez, tra gli altri.

Mazurek scrive a puntino molte parti obbligate—temi cantabili anche folklorici, echi tropicalisti, squarci innodici—ma lascia presto molta libertà al gruppo, evitando la cacofonia con interventi decisi di cesura in alcune parti alla deriva e duettando soavemente con Jaimie Branch in conversazioni tromba-cornetta di gran fascino.

Molti materiali erano riferiti all'ultimo album Dimensional Stardust, in cui si nota anche il lavoro di "speaker" straniante di Damon Locks.

Il quale, la sera seguente, ha stupito il pubblico con il suo Black Monument Ensemble, gruppo di forte impronta vocale (tre cantante soliste molto vivaci), più due percussioni e i clarinetti di Angel Bat Dawid, che si intreccia con le armonie vocali con risultati timbrici inconsueti.

Damon Locks è creatore di testi, sia originali che importati da disparate fonti, montati a volte con tecniche da cut up, riflettenti il tempo scuro della pandemia e della violenza metropolitana, ma risolti spesso con colori gioiosi e pop, in un itinerario sonoro che sembra voler sintetizzare i diversi momenti della canzone black. Grande successo in platea.

Altri set di rilievo, il duo Moor Mother—Nicole Mitchell, quello Jaimie Branch—Jason Nazary ("Anteloper"), il solo chitarra di Tashi Dorji, il quartetto Turquoise Dream

Come si diceva, aa forza del programma di questo festival è quella di poter scegliere gli artisti senza dipendenze da tournèe, dunque per performance anche uniche, speciali.

E' stato il caso del quartetto Ahmed, nato dall'idea del pianista Pat Thomas di rendere omaggio all'opera del bassista Ahmed Abdul-Malik, attivo fino alla fine degli anni 60 e alfiere di una sintesi interessante tra jazz e musica araba.

Radicale, granitico, Thomas utilizza soltanto spunti da quell'opera e architetta invece una musica inaudita, nello stesso tempo razionale e indeterminata. C'è una figura pianistica afro-latina dalla quale tracimano infinite variazioni sostenute da slittamenti ritmici talvolta impercettibili oppure clamorosi. L'esecuzione—più di un'ora senza interruzioni—invita gli interpreti a una concentrazione assoluta, con poche divagazioni, e prende il pubblico alla gola attraverso una saturazione dello spazio sonoro che lascia storditi. Il sassofono di Seymour Wright si preclude qualsiasi fraseggio ma insiste su lacerti ritmici di straniante bellezza, mentre basso e batteria inventano senza sosta fondali e figurazioni (formidabile la creatività del batterista Antonin Gerbal). Il risultato è sia paradossale che sublime ed è tra le cose davvero originali di questo periodo, pur avendo il free storico come codice inevitabile.

Di segno opposto il progetto Communion, ottetto portoghese diretto dal batterista Joao Lencastre, che offre composizioni stratificate, a lambire prog-rock, libera improvvisazione e squarci di jazz lirico dovuti alla classe del sassofonista Ricardo Toscano.

La chitarra elettrica gioca un ruolo assai dinamico nel panorama delle musiche contemporanee, una riprova è venuta da Ava Mendoza, da un lato, e da Bill Orcutt, dall'altro.

Mendoza ha messo a punto da qualche tempo un recital solo di pregnante consistenza. Parte da un blues basico, di derivazione quasi hendrixiana, e si apre a costruzioni di accordi plastici e risonanti, trovando un suono di forte personalità, fino al finale con canzone e voce di squisita sensibilità. Una musicista ormai completa, in grado di vitalizzare qualsiasi situazione in cui sia chiamata a cooperare.

Anche Bill Orcutt si affida al blues, dapprima, ma subito è costretto ad ampliare le risorse linguistiche, avendo a fianco le percussioni di Chris Corsano, fiume in piena di invenzioni e di virtuosismi tecnici. Il duo è effettivamente elettrizzante, non lascia spazi vuoti, raggiunge climax espressivi e provoca una standing ovation sorprendente.

La formula del duo ha offerto anche quello tutto portoghese tra Pedro Carneiro—marimba —-e Rodrigo Pinheiro—piano, e quello brooklyniano, inedito, tra Sara Shoenbeck—fagotto —e Matt Mitchell—piano.

I primi hanno sfoggiato tecnica sopraffina al servizio di brani profumati di "contemporanea europea," mentre gli americani, anch'essi assai raffinati, hanno un repertorio che illumina le possibilità del fagotto di Schoenbeck, ora cupo ora leggiadro in certe sortite ritmiche, valorizzate dal pianismo eruditissimo di Mitchell.

Il Grande Auditorium del centro Gulbenkian è stato utilizzato soltanto per un altro raro "evento," protagonista il trrombettista e compositore Nate Wooley, alla testa di un gruppo di 12 strumentisti più coro. Il progetto è quello di "Seven Storey Mountain," ciclo musicale arrivato al sesto episodio, con il quale Wooley traduce in musica le confessioni autobiografiche di Thomas Merton e la sua conversione monacale.

Musica assai ambiziosa, dal respiro lento e progressivo, si sviluppa da poche note sparse e da un obbligato ripetitivo, per poi disvelarsi chiamando ciascun solista a una sorta di liberazione dionisiaca dove il suono dei diversi strumenti si confonde con l'altro in un deliberato caos timbrico, raggelato in seguito da lunghe frasi corali, con le cantanti in galleria del teatro, con suggestivo effetto sorpresa. Un momento particolare del festival, e un'altra esibizione in esclusiva lisbonese.

Il linguaggio più specificamente jazz è emerso nelle ultime due serate, di nuovo all'Anfiteatro ao Ar Livre, con il Borderlands Trio e con il New Masada Quartet di John Zorn.

La formazione con piano, basso e batteria trova percorsi assai luminosi con Kris Davis, Stephan Crump e Eric McPherson. Il loro recente Wandersphere (Intakt), è un inatteso capolavoro, forse non replicato dall'esibizione dal vivo, comunque pur sempre di alto livello.

Il trio sceglie di non inframezzare le parti, suonando un unico pezzo di ottanta minuti. Non è un'idea vincente, dato che dopo mezzora la brillantezza cede a qualche ripetizione di troppo.

Ciò che interessa comunque è il metodo di lavoro, che privilegia l'improvvisazione istantanea dei tre strumenti, telepatia melodico—armonica, scavo in profondità sui materiali, incessanti variazioni percussive con un McPherson in grande spolvero. C'è qualcosa del trio Jarrett-Peacock-DeJohnette ma non quello degli standards, sì invece quello più anarchico di Inside Out, per dire. Ma Kris Davis è ormai pianista di grande autorevolezza (recente vincitrice del referendum di Down Beat..), che sa dosare le energie e le raffinatezze senza mai essere prevedibile e Crump è un asso del contrabbasso.

John Zorn ha concluso il festival ed ha ottenuto ovviamente un successo felice. Nel 2018 aveva avuto a Lisbona carta bianca per i suoi svariati organici, quest'anno è tornato con la recente versione di Masada che, se non aggiunge granchè alla proposta originale, ne rivisita il repertorio con leggerezza, senso ludico, sostituendo la tromba con la chitarra elettrica di un gigantesco Julian Lage, accanto a Trevor Dunn—che ha sostituito all'ultimo Jorge Roeder—al contrabbasso e Kenny Wollesen alla batteria. Fin dalle prime battute si è avuta la sensazione di un gruppo che suona a memoria, con grande divertimento e nonchalance. Zorn chiama pause e rilanci anche mentre è in assolo, sorride rilassato e lascia grande spazio ai suoi solisti, che lo ripagano con una intensità costante.

Un finale ecumenico per un festival invece complesso, fiero della sua indipendenza dalle sirene del mercato estivo del jazz, punto di riferimento obbligato per chi voglia aggiornarsi sulla salute della musica di ricerca odierna.

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