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Fonterossa Days #9


Teatro Sant'Andrea
Fonterossa Days #9
Pisa
26—27 aprile 2025

Nona edizione del minifestival Fonterossa, creatura di Silvia Bolognesi al pari dell'omonima etichetta discografica, che dallo scorso anno s'è allargato a due giorni. Così, anche stavolta il sabato ha visto i primi due concerti, non più all'Ex-Wide ma nella tradizionale sede del Teatro Sant'Andrea, di fatto una suggestiva chiesa sconsacrata.

Il primo dei due concerti del sabato vedeva in scena una delle ultime uscite di Fonterossa Records, ovvero il trio G.E.A., composto da tre giovani musicisti: il sassofonista soprano Cosimo Fiaschi, il contrabbassista Stefano Zambon e il batterista Pierluigi Foschi. La formazione ha presentato un singolare progetto basato sulla rilettura, molto personale, della musica del compositore, percussionista e bandleader etiope Mulatu Astatke, che nell'originale è coloratissima, festosa e attraversata dalla danza, qui invece era "distillata" in una raffinata esposizione dei temi, sinuosi, circolari e con influenze orientali, tipiche del cosiddetto "ethio-jazz."

La parte del leone l'ha fatta inevitabilmente Fiaschi, che conoscevamo già per le sue collaborazioni con Alessandro Giachero (leggi la recensione di Le Jardin Sonore, del quartetto Sonoria) e Stefano Battaglia (leggi la recensione di <em>Kum</em>, concerto dell'Ensemble Tabula Rasa) e che ha ulteriormente perfezionato le sue impressionanti qualità strumentali: respirazione circolare, apparentemente senza sforzo, finalizzata a non interrompere le ipnotiche linee tematiche; armonici usati per screziarne il procedere; sovracuti prodotti in brevi squittii per illuminarne i passaggi; schiocchi, soffiati, rumori parassiti, tutti utilizzati entro una cornice di senso musicale. Un vero spettacolo a sé stante, per un musicista che merita seguire con grande attenzione. La cui centralità nel progetto ha però fatalmente oscurato un po' i compagni, perché se il contrabbasso poteva almeno interagire con il soprano riprendendo le linee melodiche originali —e, facendolo, Zambon ha comunque mostrato una potente cavata e grande musicalità —la batteria si è invece ritrovata a fare un lavoro oscuro, offrendo suoni e screziature che facevano le veci dei colori della musica di partenza, cosa che ha penalizzato un po' tutta la proposta, come qualcuno ha lamentato.

Il secondo concerto vedeva in scena la formazione dei docenti del seminario d'improvvisazione Fonterossa Lab, iniziato a gennaio con la giornata guidata dalla Bolognesi e conclusosi proprio il pomeriggio, con quella condotta dal sassofonista Chris Jonas. A completare la formazione, la chitarra di Domenico Caliri e il sax contralto di Mauro Avanzini, mentre mancava l'ultimo docente, Emanuele Parrini, impossibilitato a essere presente, ma giunto puntualmente il giorno successivo per dirigere la sua parte dell'Orchestra Laboratorio. I quattro hanno dato vita a una classica improvvisazione "unica," entro la quale la Bolognesi ha dettato i tempi e fatto da polo d'attrazione grazie alla profondità del suono e alla sua solita, contagiosa gioia di fare musica. Caliri, alla chitarra ma spesso piegato sui propri apparecchi elettronici, ha creato le opportunità più interessanti, ora colorando scenari di fondo, ora producendo microsonorità, rumori e screziature, mentre i due sassofonisti disegnavano libere linee liriche, in assolo o in dialogo: Avanzini mostrando un suono maestoso su fraseggi distillati e relativamente tradizionali, Jonas alternando le improvvisazioni semplici ma di gusto acido al soprano a quelle invece più calde e rilassate al tenore. Il tutto ovviamente lontano da mainstream e tradizione, come si conviene a dei docenti di un seminario di libera improvvisazione.

Il secondo dei due days, la domenica, s'è aperto ancora una volta con una delle ultime proposte di Fonterossa Records: il Mangalica Trio, con Maurizio Sammicheli alla chitarra, Marco Benedetti al basso elettrico e Andrea Beninati alla batteria e al violoncello. Proprio il violoncello ha aperto il concerto, con interessanti elaborazioni dell'elettronica su un ritmo fisso, ostinato, ma anche solidissimo del basso elettrico, e la chitarra a svariare. I ritmi, pur mutando di brano in brano, sono rimasti centrali nel prosieguo del concerto, così che Benedetti è parso il perno attorno a cui girava una musica che fondeva in modo raffinato post-rock, jazz e sperimentazione elettronica, spesso su sfondi scuri. Una proposta non banale, che avrebbe tratto ancor più giovamento da un maggiore spazio al violoncello, parso troppo limitato.

In anteprima assoluta ha fatto poi seguito l'ESK Trio, ovvero Emanuele Parrini, Silvia Bolognesi e il cornettista statunitense Kirk Knuffke, collaboratore tra gli altri di James Brandon Lewis. I tre hanno dato vita a un concerto totalmente improvvisato, la coerenza, ricchezza di stilemi, purezza di suono e rigore dell'interazione del quale sono apparse stupefacenti, a maggior ragione tenendo presente che i musicisti suonavano assieme per la prima volta —Parrini e Knuffke si erano addirittura conosciuti solo un paio d'ore prima del concerto. Centrale l'energico e profondo suono della contrabbassista, che ora dialogava con i compagni, ora ne sosteneva le invenzioni; purissime nei timbri, quasi sempre acuti, quelle del violino di Parrini, che ha alternato fraseggi rapidi e nervose a frammenti lirici; estremamente fantasiose quelle di Knuffke, che ha usato spesso la sordina e ha tratto dalla sua cornetta i suoni più incredibili, con soffi, gorgheggi ed estese variazioni dinamiche. Un concerto splendido, che s'è concluso magicamente su un'invenzione lirica che i tre hanno sviluppato assieme, chiudendo in dissolvenza, tra lo stupore e la gioia del pubblico presente.

Una tale meraviglia non ha tuttavia offuscato l'attesissimo concerto successivo: il solo di contrabbasso di Joëlle Léandre, icona dell'improvvisazione, reduce da un seminario di quattro giorni svolto nella vicina Firenze di cui daremo conto in un futuro articolo. Introdotta con commozione dalla Bolognesi, che la considera un modello artistico e umano, la settantaquattrenne artista francese si è anch'essa esibita, come suo solito, in un'improvvisazione radicale, nel corso della quale ha usato lo strumento in ogni modo immaginabile: con l'archetto, producendo sonorità irruente e profonde, che trasmettevano enfasi ed energia, ma anche cellule melodiche che aprivano spazi più quieti; con il pizzicato, con potente intensità del suono e varietà ritmica; percuotendo lo strumento, spesso mentre con le corde otteneva altri suoni, così da autoaccompagnarsi. In più momenti l'artista ha usato anche la voce, mai cantando, quanto piuttosto declamando, borbottando, producendosi in una sorta di gramelot musicale che rendeva ancor più accesa e drammatica l'esibizione, specie nei momenti in cui la voce era accompagnata da un vivacissima mimica. Il tutto, con una tecnica strumentale impressionante e un continuo mutare degli stilemi e della comunicazione espressiva. Uno spettacolo impressionante, che ha colpito fortemente i presenti e che s'è concluso con un appello a tenere alti l'attenzione e l'impegno per l'improvvisazione, alla quale la Léandre si dedica senza posa da quasi cinquant'anni, a dispetto della difficoltà di trovare spazi e ingaggi.

È stata poi la volta del Desert Quartet di Chris Jonas, che ha presentato la sua Music from the Deserts, composizioni da lui scritte durante un lungo campeggio solitario nei deserti dell'Arizona, in questa occasione eseguite assieme a Luca Serrapiglio al sax contralto e al clarinetto contrabbasso, Luca Bernard al contrabbasso e Giacomo Pisani alla batteria, oltre che introdotte e commentate da Jonas e accompagnate dalla proiezione di video realizzati durante la medesima permanenza nel deserto. Rimanendo alla sola parte musicale, il concerto ha mostrato una proposta senz'altro singolare, con Jonas che imbracciava principalmente il soprano per disegnare linee melodiche strane, sghembe ed esotiche, con le quali offrire una narrazione agile, dai mutevoli umori, ora dialogando con il contralto di Serrapiglio, ora entrando in forte contrasto con il suo clarinetto contrabbasso, totalmente opposto non solo quanto a timbri, ma anche a estensione dei fraseggi. Una proposta solo in parte evocativa delle immagini che scorrevano sullo schermo, senz'altro molto originale, decisamente apprezzata dai presenti.

Come tutti gli anni, i due giorni della rassegna si sono conclusi con il concerto dell'Orchestra Laboratorio, diretta dai cinque docenti che avevano lavorato con gli oltre trenta elementi, uno al mese, a partire da gennaio —e che chi scrive racconta "dall'interno," avendovi preso parte. Ha iniziato la "padrona di casa," Silvia Bolognesi, che ha effettuato una conduction che seguiva in buona sostanza le indicazioni codificate da Lawrence "Butch" Morris, "chiamando" singoli suoni, ritmi, piccoli riff o mood all'orchestra, assoli e altri contributi ai singoli, fino a un finale improvviso e gioioso. Ha proseguito Avanzini, che ha invece "montato" a chiamata alcuni brevi temi tenuti come materiali di riferimento, legandoli e arricchendoli anch'egli con elementi aggiuntivi, richiesti all'impronta attraverso gesti in stile conduction, concludendo su uno di essi, ripetuto con appropriate variazioni dinamiche.

In modo simile, anche Parrini ha lavorato su una serie di spunti scritti, richiesti a sezioni diverse dell'orchestra —parte alle voci, parte agli archi, parte ai fiati —e aggiungendovi alcuni assoli e duetti, fino a congiungere tutto in un liberatorio magma collettivo, concluso sfumando.

Caliri ha invece svolto una "conduction prima della conduction," usando cioè una personale codificazione di segni usata quando in Italia del lavoro di Morris si sapeva pochissimo, leggermente diversa e con alcuni elementi creativi in più. Anche in questo caso, tutto è nato dalle istantanee decisioni del direttore e da quanto i musicisti offrivano su sua richiesta, tranne un solo, breve tema, smembrato, raddoppiato e diversificato al momento negli esecutori —usato come festosa conclusione.

L'ultimo direttore, Jonas, che pure aveva lavorato il giorno precedente su un'ampia rosa di brevi "pretesti" scritti da usare a chiamata, ha invece scelto di usarne solo un paio, assieme ad alcune indicazioni direzionali con le quali ha richiesto suoni a questa o quella parte dell'orchestra, concentrandosi infine su un solo "tema," un glissando, che ha chiamato agli orchestrali prima con gli strumenti, poi con le voci, per poi chiamarlo anche al pubblico e concludere il brano con questa coinvolgente dialettica vocale, in un clima tra la contemporanea e la ludicità.

Un modo stralunato, ma anche adeguato, per terminare una rassegna zeppa di momenti di altissimo livello, ma che per la natura della musica che promuove anche sempre richiamante la libertà, l'invenzione, la sorpresa e, soprattutto, la gioia. Quella che hanno condiviso il pubblico —il teatro, pur non grandissimo, era comunque pieno —e i musicisti tutti, che alla fine si ringraziavano l'un l'altro per l'esperienza e la bellezza messa a disposizione nei due giorni. In attesa dell'anno prossimo, quello del decennale.

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