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Ai Confini Tra Sardegna e Jazz - XXXI Edizione

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Sant'Anna Arresi (CI)
01-10.09.2016

Per questa trentunesima edizione, il festival Ai Confini Tra Sardegna e Jazz ha messo al centro del proprio programma la figura di Frank Zappa. Trattandosi di una manifestazione prevalentemente dedicata all'improvvisazione radicale, la rivisitazione del repertorio zappiano non poteva (non doveva!) limitarsi all'agiografia, al tributo, alla riproposizione di cover. La musica del chitarrista di Baltimora doveva piuttosto offrire lo spunto per una riflessione sull'eredità di un artista che è stato tra i primi ad aprire tutte le possibili porte che la musica (ma non solo la musica) offre.

Con il senno di poi, possiamo dire che alcuni dei musicisti invitati hanno preso molto seriamente la cosa ed hanno presentato concerti fortemente aderenti al tema del festival. Altri si sono invece (zappianamente?) disinteressati a tutto ciò ed hanno preferito suonare un repertorio privo di qualunque richiamo all'arte di Zappa.

Gli zappiani

Come accennato poc'anzi, solo alcuni tra i musicisti coinvolti hanno presentato musiche in qualche modo attinenti al tema del festival. Tra questi, possiamo senza dubbio annoverare Sean Noonan, protagonista di due differenti concerti: uno con il Memorable Sticks Trio, che in realtà era un quintetto, l'altro con l'orchestra Zappanation, ispirato a Ionisation di Edgar Varèse, lavoro di importanza capitale nella musica di Zappa. Noonan ha presentato un jazz intriso di punk e rock, con echi dei Rockets e dei Sex Pistols, caratterizzato da una fitta scrittura, da una sovrabbondanza di idee e da un altrettanto sovrabbondante carico di ironia (spesso sfociato, occorre rilevarlo, nella grana grossa).

Molto convincenti i berlinesi dell'Andromeda Mega Express Orchestra, che hanno concentrato il loro lavoro soprattutto sulla ripresa delle sonorità zappiane, condendole con echi Kraut-Rock. Meno interessante il lavoro del Nu Ensemble di Mats Gustafsson, musicista che ha confessato di non amare particolarmente Zappa. Pur avendo preso molto seriamente l'incarico del festival (ha lavorato oltre un mese su Zappa e su alcune sue dichiarazioni politiche con la tecnica del cut off), e pur cercando di colorare la propria musica con venature scherzose, è risultato interessante solo a tratti.

Indubbiamente zappiano, ma altrettanto indubbiamente distante dalla linea estetica del festival, il Direction Zappa di Daniele Sepe, che ha dato vita ad un concerto ricco di citazioni (da Fables of Faubus di Charles Mingus a cover dello stesso Zappa, passando per Nino Rota e vari riferimenti cinefili), improntato su sonorità fusion anni '90 troppo ammiccanti, malgrado l'iniziale dichiarazione d'intenti ("seppellire Frank Zappa" ) per colpire al cuore.

Il chitarrista Andrea Massaria è invece partito da una serie di interviste rilasciate da Zappa, e ne ha realizzato una prosodia. Lavoro imponente dal punto di vista della tecnica e della scrittura, più cerebrale che comunicativo.

I divisivi

Peter Brötzmann è senza dubbio tra questi, e qui a Sant'Anna lo ha confermato ampiamente. Lo abbiamo ascoltato con il suo Full Blast, ospite Heather Leigh, ed in trio con la formidabile coppia ritmica William Parker-Hamid Drake. In entrambi i casi, c'è chi lo ha adorato e chi, come chi vi scrive, si è profondamente annoiato (soprattutto con Full Blast). Al netto della forza prorompente del suono del suo sax, rimasta quasi intatta nonostante il passare degli anni, ci sembra che la musica del sassofonista tedesco, arrabbiato in servizio permanente effettivo, abbia da tempo esaurito la propria forza propulsiva. Assistere ad un suo concerto è un po' come guardare ad una vecchia foto di una ragazza di cui eravamo innamorati negli anni della nostra giovinezza e che ormai è diventata per noi un'estranea. Non ci dice più nulla, ma ci commuove perché ci ricorda di tempi migliori.

Sean Noonan. È stato se possibile ancor più divisivo di Brötzmann. Pur consapevoli dei difetti che a tratti affiorano (ne abbiamo parlato poc'anzi: una certa ripetitività del gioco degli spiazzamenti, una notevole tendenza a buttarla in caciara), la sua è una musica che sprizza creatività da tutti i pori e che viene eseguita in modo impeccabile. Non si può ascoltare quotidianamente, ma ci ha molto divertito.

Cooper Moore. Quando siede al pianoforte ed in un singolo brano di pochi minuti ripercorre tutta la storia del jazz, dallo stride ai cluster free, è semplicemente meraviglioso. Quando si mette a cantare canzoncine divertenti ma prive di qualunque spessore, lo è molto meno. Qui a Sant'Anna ha distribuito equamente le dosi (tre brani al piano e tre canzonette), lasciando molti con l'amaro in bocca.

Il quartetto Battle Pieces di Nate Wooley, con Ingrid Laubrock al sax tenore, Matt Moran al vibrafono, Sylvie Courvoisier al pianoforte. Unico gruppo senza batteria, ha dato vita ad un concerto molto distante da tutto quanto ascoltato nel corso di questo festival, muovendosi tra musica contemporanea e jazz. Alcuni hanno trovato la loro musica vecchia di un secolo, a noi è piaciuto molto.

I travolgenti

William Parker "In Order to Survive," (Hamid Drake, Cooper Moore, Mixashawn Lee Rozie, Rob Brown, Steve Swell). Un concerto ricco di citazioni coltraniane, una sorta di A Love Supreme dei giorni nostri. Uno di quei concerti che, da soli, valgono il viaggio.

Il quartetto Ken Vandermark, Luc Ex, Mats Gustafsson, Hamid Drake. Nulla di nuovo o di particolarmente creativo (tolto il drumming di Hamid Drake, sostanzialmente un tuffo negli anni '60), ma una grandissima forza propulsiva. La bellezza di una musica incentrata sui pedali.

Nel concerto dei Rubatong si è ascoltato ben poco jazz, ma la performance è stata di quelle che fanno venire la pelle d'oca. Tra rock e blues, Tom Waits e sane incazzature, Han Buhrs ci ha ricordato che la musica è un'arte per nulla consolatoria.

I Tenores de' Bitti. Il canto tradizionale sardo, tra serenate popolari e frammenti di musiche di ispirazione religiosa. Echi di tempi remoti, un concerto commovente.

Luci ed ombre

Alexander von Schlippenbach con DJ Illvibe. Un concerto monkiano, con qualche sprazzo interessante (soprattutto quando DJ Illvibe si propone come motore ritmico) e squarci di rumorismo che hanno sfiorato il vero e proprio cazzeggio.

Serenus Zeitblom Oktett. Una performance altalenante tra bellissimi momenti d'insieme e frammenti di ricerca cui è mancato un pizzico di pathos.

Il quartetto di Tomeka Reid. Una musica molto delicata e ben educata, forse penalizzata dalla collocazione immediatamente dopo Sean Noonan. Malgrado un organico di notevole caratura(Mary Halvorson, Jason Roebke e Tomas Fujiwara) il concerto è passato leggero, senza lasciare traccia.

Matthew Shipp. Una lunga improvvisazione dedicata a (e in memoria di) David S. Ware, giocata sui contrasti e con qualche lungaggine di troppo. Per una volta, malgrado il portato emotivo del concerto, Shipp non è riuscito a coinvolgerci più di tanto.

Il quartetto Solar Sound di Greg Burk. Tra echi di Wadada Leo Smith e dei Weather Report, la poesia e la meravigliosa voce strumentale della tromba di Rob Mazurek sono state affossate da una certa prolissità e da un uso eccessivo, a tratti molesto, del mini-Moog. Si raccomanda maggiore sobrietà.

I giovani norvegesi Megalodon Collective hanno proposto una musica basata su strutture aperte che lentamente convergono verso movimentati spunti tematici. Musica complessa che pecca forse di scolasticità ma che, proprio per questo, riesce ad incontrare anche un pubblico meno avvertito. Piacevoli.

Le orchestre

Causa i vincoli economici con cui i festival jazz si devono sempre più confrontare, le ampie formazioni, diciamo oltre il quintetto, difficilmente trovano spazio. Qui a Sant'Anna Arresi ne abbiamo invece ascoltate diverse, spesso interessanti, tutte molto distanti dal cliché musicale e timbrico cui vengono solitamente associate le big band. Un elemento che differenzia ulteriormente (se mai ce ne fosse bisogno) questo festival dalle altre manifestazioni che animano il panorama jazzistico nazionale. Rendiamone il giusto merito agli organizzatori.

I migranti

Vogliamo infine chiudere la nostra cronaca con un paragrafo extra-musicale ma, ci pare, indicativo dello spirito che anima il popolo del jazz. L'estate italiana, in particolare delle nostre isole, è stata caratterizzata dall'arrivo di migliaia di migranti. Il festival ne ha accolti alcuni, aprendo loro le porte della manifestazione ed ospitandoli ai concerti. Un segno concreto di accoglienza e di coinvolgimento nelle attività del territorio. Un gesto che ci stimola a ricordare che, dietro ai numeri degli sbarchi che leggiamo sui giornali e che la politica usa per fare propaganda, ci sono degli esseri umani. Persone con i loro volti, le loro gioie, le loro sofferenze, le loro storie individuali.

Foto
Luciano Rossetti.

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