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A dialogo con Andrea Massaria

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Nel 2009 intervistammo il chitarrista triestino Andrea Massaria, allora autore di alcuni dischi in trio e in quartetto, di genere abbastanza convenzionale ma di ottima fattura, che stava avvicinandosi a un universo per lui nuovo, fatto di sperimentazione e improvvisazione radicale, testimoniati dal CD con il Chladni Experiment Trio, 5053, e dalla partecipazione a una conduction di Lawrence "Butch" Morris. Siamo andati a cercarlo dopo otto anni per sapere come è proseguita la sua crescita artistica, poco dopo la sua apprezzata performance estiva a Sant'Anna Arresi e l'uscita del suo più recente disco, The Music of Carla Bley.

All About Jazz: Diversi anni fa ci raccontavi la tua carriera fino ad allora, di come avevi iniziato da chitarrista blues per approdare progressivamente a un ambito di improvvisazione più libera, sperimentale. Nel frattempo non sarai tornato a fare mainstream?

Andrea Massaria: No, certo che no! In quel periodo ho compreso che la mia indole personale era di cercare una mia "via" sonora, un linguaggio e un suono personali, lasciando da parte la necessità di rispettare quelle linee-guida senza le quali non vieni riconosciuto come "chitarrista jazz." Questo perché suonare secondo delle "regole di genere" vincola la creatività, obbliga alla ripetizione -ragioni per le quali a me il "genere" stava piuttosto stretto. È così che ho iniziato a cercare collaborazioni diverse, tra le quali quella con Arrigo Cappelletti e Mat Maneri, con i quali ho inciso due CD. Da lì ho iniziato ad avvicinarmi sempre di più all'improvvisazione radicale, priva di schemi -o quasi, perché in realtà ci sono sempre degli schemi che noi utilizziamo, ma che non sono gli schemi "classici" -e a una cura meticolosa del suono, per sviluppare la mia creatività espressiva sulla chitarra. Questo perché la chitarra ha la possibilità, grazie all'elettronica, di utilizzare effetti che -se impiegati opportunamente, come se fossero loro stessi degli strumenti -ti permettono di cambiare notevolmente la tua tavolozza sonora ed espressiva. Si tratta in realtà di una ricerca lunga, ma ormai da tempo so che questa è la mia strada e continuo a batterla con costanza e convinzione.

AAJ: Quali sono stati i passi e gli incontri che hai fatto su questa strada?

A.M.: Dopo la collaborazione con Cappelletti e Maneri ho lavorato con alcuni tra i più importanti improvvisatori italiani, come per esempio Giancarlo Schiaffini e Stefano Battaglia, con entrambi i quali ho poi realizzato dei CD. Quindi ho avuto modo di incontrare grandi improvvisatori europei e, adesso, anche statunitensi tra i quali Oliver Lake, Greg Ward, Rob Mazurek ed ora ho un trio con Sylvie Courvoisier e Tom Rainey, ma anche un ottetto che opera su un progetto dedicato a Frank Zappa nel quale figurano Danilo Gallo al basso, Cristiano Calcagnile e Bruce Ditmas alle batterie, Pasquale Mirra al vibrafono, Giovanni Mancuso al pianoforte e Walter Prati e Patrick Lechner ai live electronics.

AAJ: Si tratta della formazione con cui sei andato l'estate scorsa a Sant'Anna Arresi?

A.M.: Esattamente, il gruppo è nato lì in occasione di una produzione originale richiestami da Basilio Sulis.

AAJ: Interessante, perché nell'intervista di otto anni fa tu dicevi di essere stato a Sant'Anna Arresi e di aver preso parte a una conduction di Lawrence "Butch" Morris....

A.M.: Sì, la 188.

AAJ: ...quindi immagino sia una bella avventura tornare proprio là con un progetto tuo, e con un progetto così, che include musicisti di quella portata e un "mostro" dell'improvvisazione come Walter Prati!

A.M.: Sì, molto bella! E anche molto impegnativa, visto che si è trattato di una cosa che in parte ho scritto e in parte ho diretto in stile conduction , anche se non alla maniera di Butch. Del resto, una persona che devo ringraziare molto per la mia carriera è proprio Basilio, che ha creduto in me fino ad affidarmi un progetto originale di tal genere: pensa che eravamo l'unico gruppo a leadership italiana insieme a quelli di Daniele Sepe! Devo dire che l'esperienza mi ha rafforzato nella convinzione della qualità della strada che sto seguendo.

AAJ: Citavi tra le tue collaborazioni anche Stefano Battaglia, con il quale hai registrato Bartleby the Scrivener, un disco davvero spettacolare. Stefano mi ha detto che è frutto di un laboratorio tenutosi a Siena Jazz: puoi dirci qualcosa di più?

A.M.: Si tratta in effetti del prodotto di quasi due anni di laboratorio con Battaglia, fatto proprio mentre stavo compiutamente maturando la mia decisione di muovermi esclusivamente nel campo dell'improvvisazione più pura. Conoscevo Stefano e sapevo che si trattava di un musicista eccezionale -e ci tengo a sottolineare la differenza che passa tra uno strumentista, per quanto bravo sia, e un musicista! -per cui ero convinto che potesse insegnarmi delle cose importanti. Il gruppo del laboratorio si formò attorno a musicisti di sua scelta e, grazie a personalità umane e artistiche affini, si generarono fin dall'inizio delle alchimie positive, cosicché abbiamo lavorato sempre molto bene. Alla fine del laboratorio, durato due anni, abbiamo deciso di fare un disco: abbiamo scelto un tema, il racconto di Herman Melville Bartleby lo scrivano, poi -usando le indicazioni che Stefano ci aveva dato nel laboratorio e sviluppandole -abbiamo selezionato i quattro personaggi principali del racconto e assegnato a ognuno di loro una serie di aggettivi che li caratterizzavano. Quindi abbiamo accoppiato delle performance musicali a ciascuno degli aggettivi: per esempio, alcuni aggettivi prevedevano che facessimo solo delle parti ritmiche, altri che facessimo determinati suoni, altri ancora che sviluppassimo delle melodie -per inciso, questo è un metodo improvvisativo che adesso uso molto spesso. Così il progetto ha preso corpo, finché siamo andati a registrare da Amerio e già lì abbiamo capito che il disco -poi edito dall'etichetta olandese Evil Rabbit Records -era venuto molto bene. I lavori del gruppo, legati al laboratorio, si fermarono lì; ma ci siamo sempre riproposti di tornare a suonare assieme, anche se con il quartetto è diventato più complicato da quando il contrabbassista, Fiorenzo Bodrato, vive in Svizzera. Il quartetto era poi completato da Massimiliano Furia alla batteria.

AAJ: Tra le cose recenti che hai fatto e che hai citato c'è anche un disco con uno dei grandi, storici improvvisatori della scena italiana: Giancarlo Schiaffini. Verrebbe da dire che, visto il percorso che stai seguendo, fosse quasi inevitabile che vi incontraste. Come hai lavorato con Schiaffini?

A.M.: Hai ragione, era inevitabile che incontrassi Giancarlo, anche perché io sono appassionato di musica contemporanea e il mio modo di pensare la musica, anche quella jazz, è molto influenzato da quel tipo di pensiero musicale. Anche le pause e gli intervalli che uso, il modo di sviluppare le frasi, è molto vicino a quello della musica contemporanea. E Giancarlo, che ha suonato per dieci anni nell'orchestra di Luigi Nono, che ha vissuto Darmstadt, a cui John Cage ha dedicato un brano, è una parte importantissima di quella musica e per me è sempre stato un esempio. Così, appena ho avuto l'occasione l'ho invitato a suonare. Ci siamo trovati subito molto bene assieme e abbiamo poi deciso di registrare Corindilindoli. Che, come dicevi tu, è in effetti un lavoro molto diverso non solo da quello con Battaglia, ma anche da quello che ho registrato recentemente con Bruce Ditmas sulla musica di Carla Bley. Questo perché con Giancarlo lavoriamo su parametri improvvisativi diversi: non conta più tanto la costruzione della frase come ci è stata insegnata e che deriva dalla tradizione sette-ottocentesca, per la quale a una frase segue logicamente un'altra sul modello domanda-risposta; conta invece moltissimo una costruzione per tensioni che siano date non dal fraseggio ma dai suoni, o dallo sviluppo di suoni e di intervalli "puri," che non seguano una successione di accordi. Fare questo implica che anche il pensiero lavori in una maniera diversa da come opera nella costruzione di una frase jazz. Per questo il lavoro è molto introspettivo, come si sente nel disco: siamo noi due che lavoriamo assieme, che sviluppiamo un pensiero che corre tra me e lui. Credo sia come quando ascolti un disco di Nono o Morton Feldman: senti che sotto c'è un pensiero molto forte, ma l'ascoltatore deve avere una chiave, altrimenti non è facile entrarci. Anche per questo la collaborazione con Schiaffini per me è stata importantissima: mi ha insegnato molte cose, anche sulla contemporanea, che hanno cambiato il mio modo di intendere e suonare, anche il jazz. E non ci siamo persi di vista, anzi, abbiamo suonato assieme anche di recente, a fine gennaio.

AAJ: Il tuo progetto più recente, al quale accennavi, è quello su Zappa: puoi dirci di più?

A.M.: Quando mi ha contattato, Basilio mi ha spiegato che il festival sarebbe stato dedicato a Frank Zappa e che i progetti originali, come il mio, dovevano avere la sua musica come tema. Ora, io non ho mai suonato Zappa, né mi sarei mai azzardato a farlo, anche perché non ritenevo interessante omaggiare un musicista del genere riproponendo quel che lui aveva già suonato. Al contrario, credo che Zappa stesso avrebbe preferito essere omaggiato in maniera diversa. Ma Basilio mi ha dato carta bianca: potevo trattare il tema nel modo che preferivo. Così, ho deciso di lavorare sulle prosodie delle sue interviste, ovvero di associare delle note o delle scansioni ritmiche alle sue parole. Quelli sono poi diventati i temi dei brani, che abbiamo sviluppato attraverso un doppio lavoro: da un lato delle indicazioni che davo ai musicisti per lavorare su momenti, secondo modalità tratte dalla musica contemporanea; dall'altro un trattamento più libero, vicino al free jazz. Quindi contemporanea e jazz come riferimenti, messi assieme anche nell'organico, vista la presenza di Giovanni Mancuso -bravissimo pianista di contemporanea, che ha portato un colore particolarissimo grazie a un suono molto colto e raffinato e a una modalità improvvisativa ricca ma lontana dal jazz -e Walter Prati accanto a jazzisti come Danilo Gallo, Cristiano Calcagnile, Bruce Ditmas e Pasquale Mirra.

AAJ: Come funzionava concretamente l'interazione?

A.M.: Le indicazioni venivano eseguite su mio comando, come in una conduction; per il resto l'ottetto lavorava in maniera molto libera, anche se all'interno di schemi ben precisi, in modo da tenere sempre tutto sotto controllo e trasmettere la realtà della cosa, cioè che -pur nella libertà dei suoni -non stavamo improvvisando ciascuno a proprio arbitrio. In sintesi: schemi rigorosi e grande libertà, che danno per risultato un sound molto compatto e riconoscibile. Tant'è che abbiamo ricevuto critiche così positive che neppure me le aspettavo!

AAJ: Scusa la domanda volutamente "sciocca": ma di Zappa che rimaneva?

A.M.: No, non è sciocca, perché appunto avevo volutamente evitato di riprendere la musica suonata da Zappa: ma di lui rimanevano, come dicevo, le trascrizioni in musica delle sue parole, e poi lo spirito, l'intenzione di mescolare i generi. Nel mio caso, l'improvvisazione creativa e i concetti della classica contemporanea, dando poi una particolare enfasi alle parti ritmiche e tenuto conto che Zappa era un grande estimatore di Edgar Varese. Poi tutto questo l'abbiamo fatto a modo nostro, senza emulazione, ma conservando l'idea di Zappa di mescolare in modo non banale aspetti diversi della musica.

AAJ: In sintesi, il concetto della musica di Zappa senza il contenuto della sua musica. Ma questo gruppo, dopo l'esperienza sarda, suona e suonerà ancora?

A.M.: Sì, perché Basilio vuole produrci il disco e stiamo aspettando la registrazione, ma intanto io mi sto molto attivando per farlo suonare.

AAJ: Immagino che far suonare un gruppo di questo genere non sia facilissimo....

A.M.: No, non è facile, e infatti sto soprattutto cercando di portarlo all'estero, dove—inutile negarlo -le possibilità sono maggiori, vuoi perché ci sono più festival, vuoi perché c'è una maggiore attenzione per un genere come il nostro, lontanissimo dal mainstream e dal jazz "patinato."

AAJ: Che non sono i generi che tu frequenti mai, neppure nel caso del tuo progetto più recente sulla musica di Carla Bley, che hai rivisitato in modo assai particolare in duo con Bruce Ditmas. Perché la Bley e perché Ditmas?

A.M.: Con Bruce ho suonato assieme un paio d'anni orsono a Milano. A me piace molto suonare con i batteristi senza contrabbasso e, visto che con lui mi sono trovato subito molto bene, immediatamente dopo il concerto ci siamo detti che dovevamo fare qualcosa in duo. Oltretutto io lo ascoltavo da molti anni, in particolare ricordavo il disco in cui suonava con Paul Bley e Jaco Pastorius [Jaco, N.d.R.]. Così, ci siamo scambiati delle email per capire cosa potevamo fare ed è venuto fuori che eravamo entrambi affascinati dalle musiche della Bley, cosicché ho pensato di prendere i suoi temi -molto lirici, ma anche molto rarefatti -come punti di partenza per poter poi improvvisare liberamente assieme. D'altronde, Bruce ha un modo di suonare molto orchestrale e riesce a sopperire alla mancanza di una parte ritmica, io ho i miei suoni particolari e i miei strumenti per la sua elaborazione, così che assieme siamo in grado di reggere bene anche in duo una musica pensata per un'orchestrazione più ampia. Mentre i temi di Carla Bley, come dicevo, sono perfetti per darci un ancoraggio garantendo a entrambi la libertà improvvisativa necessaria.

AAJ: Su quei temi, però, avete lavorato in modo cangiante: alcuni, diciamo così, li avete maggiormente "rispettati," mantenendo il loro lirismo e la loro rarefazione; altri invece, li avete più radicalmente reinterpretati, operando un trattamento ritmico più intenso che -anche per lo stile batteristico di Ditmas -è più "invasivo."

A.M.: Sì, abbiamo usato in modo diverso il nostro linguaggio e la nostra sensibilità a seconda dei brani. In quelli più lirici tendo a usare forme espressive che mi vengono dalla contemporanea, lavoro con il contrappunto, variando gli intervalli, creando tensioni diverse da quelle meramente accordali, cercando tuttavia di mantenere il carattere introspettivo dei brani della Bley, nei quali è importante tutto, non solo la parte melodica e quella ritmica, ma per esempio anche le pause, che in lei diventano temi. Invece nei brani più "nervosi," in genere quelli più brevi, proprio per differenziarli da quelli più lirici uso forse più il linguaggio jazzistico, e la stessa cosa fa Bruce.

AAJ: Il vostro CD in duo è uscito per nusica.org, un'etichetta indipendente interessante sia per il tipo di musica che produce, sia per il tipo di idea anche editoriale e "sociale" che la muove, volta alla liberazione dei musicisti dalla schiavitù del disco e delle label, senza tuttavia abbandonare del tutto questo modello produttivo. Come ci sei approdato?

A.M.: Conosco Alessandro Fedrigo, che ne è l'animatore insieme a Nicola Fazzini, da tantissimo tempo, almeno dai tempi di Chladi Experiment, che era invece uscito per un'altra etichetta indipendente, la nBn. Poi, nusica è molto attenta a musica come quella che faccio io, diciamo "non allineata" o non convenzionale, cosa non facile da trovare presso altre etichette almeno italiane. Inoltre, mi è sempre piaciuto anche lo spirito che la anima, la cura che ha nel corredare i dischi di informazioni, la possibilità di scaricare il lavoro liberamente prima o invece di acquistarlo fisicamente, eccetera. Infine, ma forse soprattutto, ho visto quanta attenzione mettono nel seguire anche la postproduzione, operando con cura con l'ufficio stampa, seguendo di persona i concerti e la promozione, insomma facendo un lavoro collettivo, insieme all'artista, che è molto, molto diverso da quello che si può trovare altrove, dove una volta pubblicato il disco e comprate le tue copie il rapporto finisce. E questa differenza, in fondo, dipende dal fatto che nusica è un'etichetta fatta da artisti, che perciò sanno bene cosa vuol dire trovarsi dentro un processo creativo/produttivo e hanno conosciuto in prima persona le frustrazioni che spesso si provano se l'interlocutore non ha la sensibilità di seguirti e di svolgere tutto quel che è necessario affinché il prodotto finale non sia solo un "oggetto di consumo."

AAJ: So che hai registrato recentemente qualcosa che ancora deve vedere la luce...

A.M.: Sì, ho registrato in novembre con la violoncellista svizzera Clementine Gasser, che lavora nel campo dell'avanguardia colta, una bravissima improvvisatrice con un linguaggio non riconducibile al jazz. Si tratta di un progetto sviluppatosi nel corso di circa un anno e che ha per tema gli haiku, le brevissime poesie giapponesi: ne abbiamo scelti alcuni e li musichiamo secondo determinati criteri che ci siamo dati. Siamo di nuovo a un incrocio tra jazz e contemporanea, una strada che voglio continuare a seguire, per andare ancora più a fondo. Questo perché percepisco che ci sono attualmente nel mondo degli improvvisatori almeno tre grandi strade: una è quella del jazz tradizionale, che va dal mainstream al bebop all'hard bop e via dicendo; un'altra è quella del free, anche slegato dal movimento degli anni Sessanta, ma che lo sviluppa; la terza è quella seguita da molti improvvisatori che arrivano da scuole diverse, come me, la Gasser, tanti improvvisatori europei, ma anche la scuola di Chicago. In questa ultima strada si parla di improvvisazione istantanea, creativa, sostanzialmente slegata dalle altre due, cioè dal pensiero mainstream e da quello free. Questa strada, secondo me, è quella che oggi il jazz -se ancora si può parlare di jazz... -sta prendendo per cercare di unire gli improvvisatori delle più diverse provenienze: non solo dal jazz storico, ma anche dalla classica, dal rock, dal pop, dal folk. Diciamo che si sta cercando di sdoganare la parola "improvvisazione" dalla parola "jazz": improvvisare non significa solamente lavorare su schemi accordali, com'erano quelli storici del jazz, ma piuttosto è qualcosa di molto, molto più ampio. E questa è una cosa avvincente. Del resto -come dicevo in apertura -quando un genere viene codificato è la fine di ogni creatività, perché per stare dentro al "genere" devi sottostare a delle regole e rinunciare alla tua libertà, che è il presupposto della cratività. Questa terza via all'improvvisazione, mescolando le modalità e tenendo fluido il concetto di improvvisazione, cerca di non codificarlo e con ciò di non imporre alcuno schema a chi improvvisa. Proprio perciò, in questa strada incontriamo anche il jazz "tradizionale," che però è pensato in maniera diversa.

AAJ: Hai un trio anche con Massimiliano Furia...

A.M.: Massimilano faceva parte del quartetto di Bartleby the Scrivener, con Battaglia; adesso con lui ho un gruppo che include anche Alessio Albertini al sax, con il quale facciamo improvvisazione creativa. Ne sono molto contento.

AAJ: E infine c'è il gruppo con la Courvoisier: avete registrato qualcosa?

A.M.: Non ancora, ma sto preparando delle partiture e siamo fermamente intenzionati a fare un po' di concerti l'estate prossima. Ho inoltre in programma anche un trio con Rob Mazurek e probabilmente un quartetto con Ken Vandermark.

AAJ: Un improvvisatore radicale, che però parla di "parituture..." Ecco, concludiamo con una domanda proprio su questo apparente paradosso: che genere di partiture scrivi? Tenuto conto anche del fatto che, spesso, quelle messe a punto dagli improvvisatori sono molto curiose e, per un profano, anche piuttosto folli...

A.M.: Mah, forse è meglio se ti faccio vedere delle foto, piuttosto che descrivertele [ride]! In effetti, di solito le modalità di scrittura degli improvvisatori sono assai diverse da quelle dei compositori tradizionali. Anzi, in questo campo la scrittura è stata sdoganata intorno agli anni Cinquanta-Sessanta, con l'avvento della "musica concreta" e dello spettralismo, ove anche la figura del direttore d'orchestra ha perso centralità e, più in generale, si è realizzato che non c'era solo il linguaggio della scrittura delle sette note. Attualmente la tendenza della partitura è l'impiego di un misto di note, di notazioni evocative -per fare un esempio dal mio linguaggio, io posso chiedere ai musicisti di suonare "spigoli" e questo sarà ben diverso dal caso in cui chieda di suonare "bolle" -e di parti grafiche, spiegate poi con una serie di didascalie. Queste sono modalità impiegate anche da molti compositori che si muovono all'interno del linguaggio più strettamente jazzistico, come Anthony Braxton o Elliot Sharp. All'interno delle indicazioni evocative rimane molta libertà, pur nell'indirizzo del compositore. Per esempio, il musicista è libero di interpretare "spigoli" come vuole, ma avendo il limite della parola e del concetto "spigoli" non puoi fare tutto tutto quel che vuole. Questo gli lascia una libertà estrema, perché lo costringe sì a suonare in modo molto limitante, ma al tempo stesso lo obbliga a usare entro quel limite tutta la creatività possibile per venirne fuori, con l'ulteriore stimolo di dover interagire con gli altri. Una cosa molto, molto difficile, ma enormemente stimolante.

Foto: Luca D'Agostino.

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