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Udin&Jazz 2017

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Udine
Udin&Jazz 2017
Varie sedi
4-8.7.2017

Era dedicata alle contaminazioni con la musica etnica l'edizione 2017 di Udin&Jazz, la ventisettesima della rassegna friulana sottotitolata "EthnoShock!." Come al solito ampio spazio era riservato alle eccellenti proposte più recenti dei musicisti del nord est italiano. Proprio un paio di queste hanno fatto da prologo itinerante alla rassegna, apertasi poi martedì 4 luglio nella scenografica piazza Matteotti con due concerti ancora di musicisti "di casa": la violinista Ludovica Burtone e il flautista Massimo De Mattia.

La Burtone ha una formazione classica—omaggiata con il primo brano, in solitudine, tratto da Monteverdi—ma da anni coltiva il jazz, per studiare e sperimentare il quale da qualche tempo si è trasferita a New York, ove collabora con artisti di primo piano. Qui si è presentata alla testa di un quartetto con due dei migliori musicisti della regione alla ritmica—Alessandro Turchet al contrabbasso e Luca Colussi alla batteria—e il chitarrista brasiliano Leandro Pellegrino. In programma alcuni standard, musica della Burtone e qualche chicca, come un brano della tradizione brasiliana e uno di Dave Douglas. Cifra abbastanza tradizionale, ma tutto ben eseguito, gradevole e swingante. Un buon inizio.

La continuazione, sullo stesso palco, era molto coraggiosa e forse un po' rischiosa, perché De Mattia è uno dei più validi e intransigenti improvvisatori radicali del nostro paese e il quartetto da lui assemblato vedeva un altro improvvisatore senza compromessi come Zlatko Kaucic alla batteria, Giorgio Pacorig—altro artista che non si tira indietro di fronte alle situazioni estreme—all'organo Hammond e Luigi Vitale al vibrafono. Un concerto del genere nella centrale piazza della città all'ora dell'aperitivo poteva provocare quantomeno un rapido svuotamento della platea: invece, grazie alla particolarità della strumentazione e all'appassionata convinzione dei musicisti, complice forse proprio la situazione ambientale non ideale che ha spinto i quattro ad alzare volumi e dinamica, il concerto è risultato non solo bellissimo ma anche talmente coinvolgente che il pubblico—anche quello meno abituato al genere -se ne è restato al suo posto, attento e partecipe, fino al termine. Certo, lo spettacolo non è mancato neppure dal punto di vista scenico, con il flautista che cambiava con frequenza strumento, Kaucic che inventava continui rumori diversi con i suoi mille oggetti, Pacorig perennemente impegnato a estrarre suoni dall'organo rielaborandoli con altri effetti elettronici e Vitale che ha suonato il vibrafono con l'archetto e lo ha "preparato" dal vivo in vari modi. Il tutto con esiti ovviamente mai lineari o lirici, ma turbolenti e coinvolgenti, dal grande potere attrattivo e comunicativo. Si potrebbero fare molte considerazioni su una tale calda accoglienza per una musica ritenuta dai più "difficile e di nicchia," ma forse la cosa migliore è riportare quest'osservazione: un bambino di tre o quattro anni, in braccio al padre al margine del palcoscenico, ha seguito gran parte del concerto con grandissima attenzione e palese fascino. Impariamo dai bambini.

Tutt'altra atmosfera, ma non minore qualità, la sera dopo cena alla più intima Corte Morpurgo con il progetto di Vanessa Tagliabue Yorke su Annette Hanshaw, grande e quasi dimenticata cantante degli anni Venti alla quale ha dedicato il recente CD We Like It Hot. Attorniata anche lei da musicisti strepitosi, la Yorke ha incantato per la qualità cristallina della voce, per le capacità interpretative e per il simpatico modo di tenere la scena raccontando aneddoti sulla vita della Hanshaw e curiosi dettagli di testi spesso sorprendenti. Insostituibile il supporto di un Paolo Birro brillante ma opportunamente non invadente al pianoforte, mentre Mauro Ottolini al trombone e Francesco Bearzatti al clarinetto hanno illuminato la scena con assoli filologicamente impeccabili ma al tempo stesso personalissimi, sia individualmente, sia intrecciandosi tra loro o accompagnando le liriche della cantante. Se già il disco era parso notevole, lo spettacolo dal vivo lo ha reso in modo ancor più pregnante. Unica attenzione va forse data alla lunghezza dello spettacolo, che per la sua specificità rischia di apparire un po' ridondante.

La seconda giornata del festival si è aperta con la presentazione del libro di Gerlando Gatto Gente di Jazz, edito da Kappavu, dove il giornalista catanese ma romano d'adozione ha riportato alcune delle più interessanti interviste fatte nel corso della sua carriera a musicisti, selezionando artisti passati dal festival friulano.

A seguire, in piazza Matteotti, il concerto del chitarrista Gaetano Valli —altro affermato musicista locale, anche se palermitano di nascita —dedicato a Jim Hall così come il suo recente CD Hallway, uscito per Jazzy Records. Rispetto a quel lavoro la formazione era piuttosto ridotta, in parte per forzate defezioni dell'ultimo momento, e vedeva accanto a Valli una ritmica composta da Alessandro Turchet al contrabbasso e Aljosa Jeric alla batteria, più Flavio Davanzo alla tromba. Il programma, accanto a brani di Hall, prevedeva per lo più composizioni dello stesso Valli, ottimo interprete allo strumento ma anche più che apprezzabile compositore. Eccellenti le interazioni tra chitarra e contrabbasso, così come gli interventi della tromba, memori delle collaborazioni di Hall con protagonisti degli strumenti quali Charlie Haden e Ron Carter, Art Farmer e Chet Baker.

Il secondo concerto del giorno, immediatamente dopo, vedeva in scena il trio di Francesco Bearzatti con un progetto su John Coltrane nel cinquantenario della morte. Accanto al sassofonista erano Emmanuel Bex all'organo Hammond e Roberto Gatto alla batteria, per costruire una musica in larga parte originale nella quale il grande artista africano americano era evocato per accenti e atmosfere, riferite perlopiù al Coltrane più lirico. Ma sono state proprio le parti più inquiete ad affascinare e coinvolgere maggiormente, perché è in esse che Bearzatti ha potuto sprigionare a pieno la propria espressività e Gatto dare il meglio del suo drumming secco e robusto, dalle tinte nette, in un contesto nel quale anche l'organo di Bex contribuiva ad ampliare le atmosfere evocandone il superamento. In queste parti, così come in tutte quelle in cui il tenore del leader si impennava in dinamica o rapidità di fraseggio—come nella sua Suspended Step, ispirata a Giant Step—il concerto è stato di altissimo livello, mentre ha mostrato qualche limite nelle parti dinamicamente meno intense, che da un lato sono parse poco coerenti con il discorso complessivo, dall'altro hanno offerto a Bex gli spazi per alcune invenzioni rumoristiche troppo ludiche e farsesche, francamente fuori luogo in un progetto di questo tipo, vuoi per il tipo di musica, vuoi soprattutto per la personalità dell'artista a cui faceva riferimento.

Abbastanza sorprendente per chi scrive il concerto finale della giornata, andato in scena in Corte Morpurgo, con Shabaka & The Ancestors, gruppo anglo-sudafricano composto da musicisti giovanissimi. Il leader Shabaka Hutchings è un eccellente tenorista con un suono pulito e un fraseggio ritmico frammentato che ricordano lo Jan Garbarek degli anni Ottanta, prodotti in completo relax; tra i suoi giovani compagni spiccava l'eccellente contrabbassista Ariel Zomonsky, ma a caratterizzare gran parte della scena era la voce di Siyabonga Mthembu, che ha intonato canti di ispirazione etnica, poi trasformatisi in mantra ipnotici in inglese. Le atmosfere erano cangianti, con passaggi dinamicamente intensi, nei quali spiccava il semplice ma spesso efficace lavoro del contraltista Mthunzi Mvubu, momenti di lirismo e, appunto, parti etnico-ipnotiche. Globalmente il progetto è parso semplice e non particolarmente articolato, così come non eccezionali alcuni interpreti, ma aveva il pregio di una qualche originalità e di una certa freschezza che hanno comunque catturato il pubblico.

Terza giornata introdotta dall'intervista di Marcello Lorrai con l'attesa star della rassegna, il vibrafonista Mulatu Astatke, che ha suonato la sera successiva, e che è poi stata aperta dalla Udin&Jazz Big Band, ensemble composto di giovani ma già apprezzati musicisti perlopiù dell'area nordestina, nata lo scorso anno proprio per iniziativa del festival a partire da un'idea del trombettista Mirko Cisilino e del pianista Emanuele Filippi. Nella splendida cornice della Loggia del Lionello il gruppo ha proposto tutte composizioni di membri della formazione, dalle quali si percepiva la differenza rispetto a più tradizionali big band: la musica metteva insieme suggestioni provenienti da generi, epoche e aree geografiche diverse, toccando il jazz, la contemporanea, l'etnica e perfino l'operetta. Verso la metà del concerto l'orchestra ha ospitato il sax di Francesco Bearzatti, che ha portato ulteriore qualità a una formazione che comunque vedeva al suo interno musicisti di tutto rispetto—oltre ai citati va ricordato il trombonista Max Ravanello e il sassofonista Filippo Orefice—e che comunque aveva nella complessa vivacità delle composizioni un suo già più che sufficiente punto di forza.

Quattordici anni di attività e "quasi" dieci dischi: questo il curriculum del duo Musica Nuda, ricordato nel corso del loro concerto, in una Corte Morpurgo completamente piena, da Ferruccio Spinetti, che con Petra Magoni compone la formazione. Peccato solo -si vede costretto a dire chi li intervistò dieci anni orsono, quando ancora non avevano gran seguito in Italia -che nel frattempo la loro proposta non sia cambiata di una virgola e che il loro concerto, pescando dal recente album Leggera, abbia proposto brani o della tradizione popular, o composti appositamente per il duo, tutti però interpretati nello stesso modo, con scarso spazio per l'espressività e molto invece per uno spettacolo scenico costruito a tavolino, nel quale contano mosse sul palco, abbigliamento, ostentazione delle evoluzioni tecniche, in specie di quelle vocali. Nulla di male, ovviamente, infatti il pubblico ha gradito molto, assaltando i due al termine per richiedere autografi; non chiamiamo però jazz tutto questo, perché si tratta di fatto di un pop sofisticato, adatto a ben altri festival.

Ogni rassegna, fatalmente, ha i suoi momenti critici, e quella udinese ha avuto il suo nel concerto serale del giovedì, di scena Remo Anzovino e Roy Paci impegnati nella sonorizzazione del film di Manuela Audisio su Mohammed Ali Da Clay ad Ali, la metamorfosi. Il progetto non mancava di attrattiva, ma è di fatto risultato pretestuoso a fronte della musica espressa dalla formazione, che vedeva accanto ai due chitarra e basso elettrici, batteria e trombone. Nel corso di un concerto piuttosto lungo, durante il quale le immagini sono scorse quasi costantemente alle spalle dei musicisti, non si è infatti ascoltato nient'altro che una ritmica ripetitiva e dai suoni scontati sostenere le bordate propulsive della tromba di Paci, quasi mai interprete di un assolo dai fraseggi espressivi, mentre Anzovino—con una gestualità teatrale imbarazzante e irritante—si limitava a non meno scontate colorazioni alle tastiere elettroniche, facendo quasi nulla al pianoforte. Se non un breve episodio in solitaria a metà concerto, forse il momento più sconcertante, perché condotto su tre note quasi senza variazioni dinamiche, di una vacuità espressiva inaudita. Concerto comunque istruttivo perché esempio più pieno di un fenomeno che oggi Italia dilaga: quello del pop che si traveste—molto male—da jazz per strappare a questo anche gli ultimi spazi che gli sono rimasti.

Fortunatamente la giornata successiva, l'ultima seguita da chi scrive, ha fatto del tutto dimenticare l'esibizione di Paci e Anzovino presentando proposte assai interessanti, a cominciare dalla proiezione di alcuni filmati di Gianni Amico recentemente ristampati in DVD dalla cineteca di Bologna: accanto al suggestivo "We Insist!," del 1964, che riveste di immagini parte della famosissima suite di Max Roach, perlopiù intelligenti montaggi di spezzoni, spesso commoventi, con interviste, prove, momenti di vita di musicisti storici come Don Cherry, Steve Lacy, Johnny Griffin—tanto per ricordare cosa sia davvero il jazz.

Il primo concerto, sotto la Loggia del Lionello (provvidenzialmente, visto lo scroscio di pioggia) vedeva in scena il quartetto di Claudio Cojaniz, originariamente previsto presso la caserma Cavarzerani, oggi centro di accoglienza per migranti, poi spostato a seguito di una disposizione del prefetto; per confermarne tuttavia l'intento originario, implicito in una musica nata su input dell'associazione Time for Africa e finalizzata alla raccolta di fondi attraverso il CD che la documenta (appena uscito per Caligola), le prime file erano riservate ai migranti. In programma composizioni di Cojaniz ispirate all'Africa, ciascuna dedicata a una città: immediatezza, liricità e ballabilità le caratteristiche strutturali di una musica che era tuttavia attraversata dal forte entusiasmo che palpabilmente univa la band e che ne nutriva la stretta interazione, garantendo in tal modo spazi espressivi a tutti i quattro, eccellenti interpreti. La formazione si è più volte frammentata, dando ampio spazio ai lirici assoli del contrabbasso di Alessandro Turchet e lasciando talvolta in azione le sole percussioni, la batteria di Luca Colussi e le poliforme e coloratissime percussioni di Luca Grizzo. Quest'ultimo era anche autore di un brano dai profumi orientali, da lui eseguito alla voce e al suggestivo Hang, accompagnato dal solo Turchet, stavolta all'oud. Percussivo e comunicatico il pianista, che non ha comunque monopolizzato l'attenzione di un gruppo che nella creatività sinergica dei quattro ha il suo punto di forza.

Penalizzato dalla pioggia che ha costretto a spostarlo in una saletta troppo piccola per accogliere tutto il pubblico intervenuto, è seguito il quintetto del giovane palestinese Adnan Joubran, interprete dell'oud e autore di una musica di matrice araba ma che si nutre in modo marcato anche di altre tradizioni. Basti dire che la formazione include le tabla dell'indiano Prabhu Edouard, un violoncello di estrazione classica, nella formazione originale un flautista jazz portoghese come Jorge Pardo, qui sostituito da flauti etnici, e un percussionista con un set più propriamente batteristico. Insomma una fusione di elementi entro una struttura genuinamente araba che produce una musica piacevole e coinvolgente, sebbene forse un po' ripetitiva (specie nella prima parte, ove era assente il flauto) e certo non nuovissima. In ogni caso, formazione interessante da conoscere e ascoltare, che il pubblico ha molto apprezzato.

Come detto, attesissima star della rassegna era l'etiope Mulatu Astatke, vibrafonista settantacinquenne dall'aspetto pacato ed elegantemente dimesso, emerso nella grande ribalta internazionale una quindicina di anni orsono e da allora circondatosi di giovani musicisti affermatisi come grandi interpreti dei loro strumenti, primo tra tutti il pianista Alexander Hawkins, in questo caso purtroppo assente. Vista da vivo la sua musica è stata in parte una sorpresa per chi si attendeva una "semplice" world music, perché di puro e semplice jazz si è invece trattato. Certo le composizioni di Mulatu portano con loro chiari ed esotici profumi africani, specie nella struttura ritmica che le sostiene nella quale contano non poco le percussioni etniche di Richard Olatunde Baker e dello stesso leader; ma per il resto la musica consiste in una organizzatissima composizione di assoli e duetti degli otto musicisti, tutti eccezionali e tutti messi in condizione di esprimersi al meglio. Tra questi sono spiccati il formidabile contrabbassista John Edwards, autore di assoli creativi, e il non meno entusiasmante violoncellista Danny Keane, che ha usato il proprio strumento in modo del tutto atipico, dinamicamente propulsivo. Ma spettacolari sono stati anche i duetti tra il sax tenore di James Arben e la tromba di Byron Wallen, autore anche di numerosi ed eccellenti assoli. Certo si potrebbe osservare una certa ripetitività tematica -peraltro stemperata dal frequente mutamento della formazione, talvolta trasformatasi da ottetto persino in trio—ma sarebbe decisamente ingiusto, a fronte di cotanta valenza individuale e alla pregevolissima organizzazione dell'organico, merito del leader al pari delle composizioni. Un concerto pertanto di livello assai alto, coinvolgente per il suo appeal dinamico, ma anche per il costante interesse destato dai suoi dettagli.

Un festival dunque riuscitissimo, che è poi continuato il giorno successivo, sabato, con il concerto itinerante di Bandakadabra e quello serale di Bombino, altro momento di avvicinamento tra etnica e jazz, per poi concludersi il giovedì della settimana seguente in una grande serata brasiliana, con i concerti di Maria Gadù e Toquinho.

Foto: Luca D'Agostino (Phocus Agency).

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