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The Mancini Project

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MusicAgorà

Auditorium Fabrizio De André - Castelverde - 12.04.2010

The Mancini Project non è il solito tributo-omaggio più o meno riuscito, più o meno geniale, più o meno rispettoso al solito artista dimenticato o sottovalutato. The Mancini Project di Ted Nash è molto di più: è una dichiarazione di affetto verso un musicista che ha scritto pagine indimenticabili non solo nel campo delle colonne sonore per film ma della musica tout court. Il padre e lo zio di Ted sono stati elementi insostituibili dell'orchestra di Mancini ed il piccolo sassofonista in erba è cresciuto circondato da quella musica, cullato da quelle melodie che ti catturavano all'istante ma che non scomparivano nel giro di qualche istante come un temporale estivo.

Perché la musica di Mancini ha una immediata riconoscibilità, una cantabilità contagiosa che va ben oltre il motivetto da fischiettare sotto la doccia, grazie alla ricchezza armonica che la contraddistingue, allo sviluppo narrativo aperto a innumerevoli interpretazioni, ad un gioco di scatole cinesi che la rende sorprendente. Tutto questo è uscito prepotentemente nel concerto che ha chiuso degnamente l'edizione 2010 di MusicAgorà rassegna dagli elevati contenuti, dall'innegabile qualità artistica, dalla grande risposta di pubblico.

La scelta di privilegiare alcune perle misconosciute dello sterminato repertorio di Mancini ha accentuato il carattere di ricerca intima, personale, profonda da parte del quartetto. Le molteplici sfumature presenti nelle colonne sonore sono state interpretate con grande sensibilità, i numerosi indizi presenti nella scrittura sono stati raccolti e rilanciati spesso con soluzioni sorprendenti, conservando grande rispetto dei canoni stilistici originali ma prendendo decisamente

le distanze da una rilettura prettamente filologica. Nessuna sorpresa quindi se l'iniziale "Theme from the Night Visitors" possiede un afflato quasi mistico e si rivela una lunga esplorazione sognante, intensa e delicata nella quale i tempi sembrano dilatarsi e gli spazi riempirsi di significati. Mentre "The Party" è uno scoppiettante gioco di invenzioni, frenetico, bizzarro, con la scansione ritmica che si diverte a imbrogliare le carte, e sembra quasi di vederlo il grande Peter Sellers impegnato in una delle sue esilaranti gag.

I musicisti sono stati praticamente impeccabili. Ali Jackson non esegue una figurazione ritmica uguale all'altra e lavora magnificamente in punta di... bacchette sui piatti. Jay Anderson è una roccia tanto granitica quanto in grado di produrre continui smottamenti al corso della musica. Frank Kimbrough è creativo sia in fase di accompagnamento che nelle sortite solistiche dove esibisce un pianismo che riesce a coniugare esuberanza percussiva, incursioni prossime all'atonalità, delicatezza ed eleganza alla Bill Evans. E infine il leader, figura quasi d'altri tempi, con un eloquio al tenore molto più vicino a quello di coolster come Lee Konitz, Wayne Marsh o Rob Brown piuttosto che ai profeti del nuovo jazz, autore di interventi assai interessanti al flauto e arrangiatore sopraffino.

Concerto di gran classe.

Foto di Angelo Maggio

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