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Paolo Zavallone: oltre mezzo secolo nel mondo dello spettacolo

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Fra tanti protagonisti dell'attualità, italiani o stranieri, Cristina Zavalloni è senza dubbio colei di cui negli ultimi quindici anni ho scritto maggiormente: programmi di sala, interviste, recensioni di CD, concerti, opere liriche... Probabilmente sono in pochi a sapere che la cantante bolognese è figlia d'arte ed anzi ha mosso i suoi primi passi artistici da bambina al fianco del padre Paolo, che ha da poco compiuto ottant'anni ed è ancora in una forma invidiabile.

Nato a Riccione il 29 agosto 1932, Paolo sembra racchiudere in sé l'estrosa esuberanza e la trascinante fantasia tipiche dei romagnoli. La sua carriera, partita agli inizi degli anni Cinquanta per arrivare ai giorni nostri, ha attraversato pressoché tutte le forme della musica di consumo: musica da ballo, sigle e trasmissioni televisive, colonne sonore di film, canzoni per adulti e per bambini... In circa sessant'anni di attività ha incontrato e collaborato con i personaggi più disparati: Fred Buscaglione, Chet Baker, Henghel Gualdi, Adriano Celentano, Tullio De Piscopo, Corinne Clery, Lucio Dalla, Andrea Mingardi, Renzo Montagnani, Alida Chelli, per citarne solo alcuni.

Negli anni Settanta la sigla della trasmissione televisiva "Non stop" e la canzone "Amada mia, amore mio" sono stati successi internazionali, veri emblemi culturali di quell'epoca. Nell'intervista che Paolo Zavalloni ci ha concesso vengono ripercorse le tappe principali della sua lunga carriera e, raccontati con estrema sincerità e forse eccessiva autocritica, ne emergono aneddoti e ricordi personali particolarmente gustosi.

All About Jazz: Innanzi tutto Paolo, secondo te esiste uno spirito romagnolo? Se sì, come lo definiresti?

Paolo Zavalloni: Non so se definirlo spirito o piuttosto orgoglio di appartenenza alla Romagna, ma per me era ed è tuttora identificabile nella stretta di mano, che vuole dire il massimo che una persona possa offrire al prossimo. Il lato bello di quella terra è la voglia di vivere nel senso buono del termine, anche esagerando talvolta.

AAJ: Come è nata la tua vocazione musicale?

P.Z.:Per quanto riguarda la voglia di fare musica mi è stata trasmessa senz'altro da mia madre, originaria di Senigallia, che era una cantante lirica mancata di una sensibilità musicale eccezionale, o un'attrice di prosa mancata, perché allora cantare o fare prosa era considerato qualcosa di poco buono. Quindi ha sofferto tutta la vita di questa mancanza di opportunità e si è vendicata facendo di me il suo paladino.

AAJ: Quando e perché da Zavalloni il nome d'arte è diventato Zavallone?

P.Z.: Capitò per puro caso quando alla fine degli anni Cinquanta a Roma cominciai a fare trasmissioni televisive. Avevo l'orchestra con validissimi musicisti, fra i quali il famoso Al Corvin alla tromba (Alberto Corvini che assieme al fratello Franco avevo fatto venire io dall'Argentina); per errore nell'ingaggio scrissero Zavallone e quando io cercai di precisare loro dissero: "Vabbe,' ma c'è stato Buscaglione, Carosone... e adesso c'è Zavallone". Così è nato ed è rimasto quel nome.

AAJ: Poi sei stato chiamato anche "El Pasador," presumo in riferimento al bandito romagnolo ottocentesco Stefano Pelloni detto "Il Passatore," ricordato anche in opere di Giovanni Pascoli e Diego Fabbri.

P.Z.: Quello è capitato molto più tardi, non in riferimento al bandito ma anche in questo caso solo per una casualità. Dopo il successo rilevante di "Madrugada", che era la sigla della trasmissione "Alto Gradimento" di Gianni Boncompagni, il brano da abbinargli doveva essere sempre per piano, orchestra e coro. Mi trovai a creare lì per lì "Amada mia, amore mio", titolo che sembrava più spagnolo che italiano. Ne stavo parlando con Celso Valli quando Bruno Pallesi, cantante famoso che allora era il nostro discografico di Milano, ebbe l'idea di chiamarmi "El Pasador," che poteva passare per spagnolo, ma si doveva pronunciare in romagnolo. Successe quasi per gioco e per un certo periodo sono andato avanti come "El Pasador," ma a un certo punto alla Rai volevano le musiche di Zavallone e El Pasador divenne un intruso, così per non fare confusione andai alla SIAE e feci cancellare quel nome.

AAJ: Ripercorriamo ora con ordine la tua carriera: ti sei diplomato al Conservatorio "Gioacchino Rossini" di Pesaro. Che peso hanno avuto quegli studi accademici per la professione che da subito intraprendesti?

P.Z.: Per me era facilissimo lo studio e la lettura della musica; il famoso Franco Mannino, che è stato il mio maestro, all'esame si congratulò con me perché riuscivo a leggere a prima vista composizioni diverse e questo mi diede la soddisfazione di poter studiare composizione contemporaneamente, anziché dopo aver concluso lo studio dello strumento come normalmente avviene. Però poi non ho sviluppato nulla seriamente, perché la mia preoccupazione era solo quella di venir via dalla povertà assoluta in cui vivevo. A mio padre i fascisti avevano bruciato la tipografia, per cui dovette fuggire da Senigallia, dove è nato mio fratello, per rifugiarsi a Riccione, dove cominciò a ricostruirsi una vita e dove sono nato io.

Sta di fatto che eravamo poveri in canna ed io ho cercato di riscattarmi subito da quella situazione tramite la musica, che da vocazione che poteva essere si trasformò subito in lavoro. Può sembrare immodesto da parte mia, ma penso che adesso potrebbe ridiventare una vocazione, perché so molto più ora di allora. Sapevo suonare il pianoforte, ma ero ignorante, mi accontentavo di quel poco che sapevo e tutto mi risultava facile, tutto consonante.

AAJ: Quindi sei passato direttamente dagli studi di conservatorio alla musica da ballo.

P.Z.: Sono venuto a Bologna nel 1953 e formai un complessino con Bordoni, che era originario di Pesaro; Zanarini ci scritturò nella sua taverna dandoci il nome Jean Zabò (dai cognomi Zavalloni e Bordoni): tutti i pomeriggi e tutte le sere dal martedì alla domenica ci esibimmo per un intero inverno. Questa è stata la mia gavetta. Poi collaborai con Sergio Nardi e nella sua orchestra c'era anche un altro pianista, molto più bravo di me: Annibale Modoni, che suonava anche il vibrafono: come duo pianistico facevamo spettacolo, suonando brani come "La danza del fuoco," "Rapsodia in blu"... Poi nel 1954-55 arrivò Henghel Gualdi e nel 1957-58 creai la mia orchestra.

AAJ: Cos'era l'orchestra da ballo negli anni Cinquanta-Sessanta? Dove suonavate e cosa comunicavate al pubblico? Praticamente parliamo di una pratica musicale che è scomparsa da decenni, cancellata dalle discoteche. P.Z.: Passavamo dai valzer viennesi al tango argentino, dalle canzoni americane ai cha cha cha cubani, interpretando tutte le mode del momento. Suonavamo anche nei locali dove si faceva varietà e bisognava saper fare ogni tipo di musica. Una volta un'artista per essere accompagnata ci portò una partitura di una difficoltà assoluta; cominciammo a provare, ma sarebbe stata una musica faticosa anche per un concertista classico. Ad un certo punto chiesi ad Al Corvin cosa facesse quell'artista e quando venni a sapere che faceva lo striptease non credei alle mie orecchie e dissi che "Summertime" sarebbe andato bene ugualmente: arrivammo a litigare, ma io non me la sentii di imparare quella partitura. Si tratta solo di un aneddoto, ma dice che cosa era il mondo dei locali di allora.

AAJ: E il jazz cos'era per te in quel periodo? Cosa ti ha insegnato?

P.Z.: È una domanda imbarazzante, perché ci ricolleghiamo a quanto dicevo prima riguardo a quanto mi fosse servito lo studio di conservatorio. Il jazz era una musica difficile e strana per allora: quelli che suonavano jazz usavano un settimo grado, un nono grado minore o un nono grado aumentato... quindi erano già musicisti che ne sapevano più degli altri. Io ho appreso queste cose suonando con Gualdi, che conosceva il jazz: essendo versatile mi sono adattato a queste nuove impostazioni, ma la loro applicazione è stata comunque difficile per me, perché facevo musica da ballo e mi limitavo ad improvvisare sulle armonie delle canzoni con più o meno estro di un altro, però rispettavo le armonie pure, magari facendo un'appoggiatura, giocando sullo swing, o svisando, come si diceva allora... ma il jazz era un'altra cosa, soprattutto per le sue complesse armonie.

AAJ: Mi risulta però che ti capitò di suonare con jazzisti famosi.

P.Z.: Con Chet Baker, perché mi aveva sentito e volle che suonassi con lui: lui si è divertito, io neanche un po,' perché non ho capito niente. Chet era arrivato a Roma e suonava alla Rupe Tarpea con Romano Mussolini, che aveva un certo nome ma, con tutto il bene che gli ho voluto, posso dire che di musica non ne capiva nulla; era una persona adorabile ma era un autodidatta al cento per cento. Dunque, dopo la prima sera Chet chiese a Cruciani, il proprietario del locale, di poter suonare con me. Così suonammo "My Funny Valentine" ed altri brani del genere, ma ho fatto una fatica enorme in quanto mentre io suonavo gli accordi corretti lui era già fuori, andava per sovrapposizioni, su scale armoniche e melodiche...

AAJ: In quel periodo a Roma incontrasti per caso anche Renato Sellani (tra l'altro senigalliese come tua madre)?

P.Z.: No, Renato l'ho conosciuto in seguito a Milano per via della nostra comune passione per il biliardo. Renato è un grande pianista: di lui Chet non avrebbe certo potuto lamentarsi.

AAJ: Nelle tue orchestre dopo Gualdi sono transitati tanti jazzisti: i giovani Carlo Atti, Marco Tamburini... Cosa ci puoi dire di loro?

P.Z.: Sì, io ho sempre avuto in orchestra ottimi musicisti, li chiamavo quando erano ancora giovani: il trombonista Roberto Rossi di Rimini, ancor prima di Carlo Atti Piero Odorici, altro sassofonista di Bologna che feci anche lavorare in un film... tutta gente che oggi ha più o meno cinquant'anni. Quando ho creato l'orchestra dell'Antoniano li ho chiamati: loro credevano di venire a "suonare," ma la televisione è un'altra cosa, ha le sue esigenze... era tutta musica con passaggi obbligati, marcettine e così via. A metà contratto Marco Tamburini mi chiese molto onestamente di poter andare via, ma siamo rimasti sempre in ottimi rapporti, anzi mi ringrazia ancora perché gli ho presentato la ragazza che poi è diventata sua moglie, che allora lavorava appunto all'Antoniano.

AAJ: Cosa ci puoi raccontare del rapporto con Fred Buscaglione? Fu solo un'amicizia, un rapporto di lavoro o un'esperienza mancata?

P.Z.: Era un sogno di tutt'e due quello di poter collaborare, ma purtroppo non poté realizzarsi per la sua improvvisa e prematura morte... anche quella notte eravamo assieme poco prima del tragico incidente. Io avevo appena messo assieme la mia prima orchestra a Bologna e suonavamo al famoso Esedra di San Lazzaro di Savena. Lui, che era esploso in quel periodo, venne ad ascoltarmi: si piazzò vicino al pianoforte, non si mosse di lì e diventammo amici. La prima volta che cantò "Guarda che luna" fu appunto con me all'Esedra, perché io avevo la partitura di Malgoni. In seguito la registrò e divenne un grande successo. Già allora si raggiungeva il successo a Roma, alla televisione, ma il mercato dello spettacolo era in Emilia-Romagna, dove contro un manifesto da morto ce n'erano settecento di feste.

Il nostro era un rapporto molto spontaneo, amichevole: lui era famoso io no, per il fatto che è dura diventare famosi solo suonando, bisogna cantare! Tanto è vero che se io molti anni dopo non avessi cantato "Amada mia, amore mio" forse sarei ancora lì a faticare, portandomi l'organo sulle spalle.

AAJ: E veniamo appunto al tuo successo in TV negli anni Settanta e Ottanta: come nacque il rapporto con la RAI?

P.Z.: Da anni i miei colleghi mi invitavano ad entrare nell'orchestra della RAI, ma io avevo una vita diversa, una vita sbagliata anche per merito o demerito delle donne. Da quando ho conosciuto Franca la mia vita è diventata tutta un'altra cosa: ho potuto farmi una famiglia, essere più sereno e così dare più peso ad aspetti anche professionali che prima non avevo potuto approfondire.

AAJ: Famosa è rimasta la sigla di "Non stop" coi pupazzi. Anche rivista adesso conferma che eri un performer favoloso. Come si arrivò a quella sigla?

P.Z.: Quella sigla ti dà l'idea di come ero io. Mi incaricarono di fare la sigla del programma ed io feci il mio compitino, una cosa spiritosa, poi cominciammo a registrare la prima puntata a Torino. Mi accorsi che tutto era strano, tutto matto e che la mia sigla melodica non c'entrava niente; allora sono andato in uno studio a Milano con la base musicale e poi ho improvvisato tutto in diretta con quella voce grave, senza nessuna preparazione specifica, senza parole, solo con l'inventiva e il buon gusto.

I pupazzi erano del Muppets Show, che l'allora direttore della Baby Records fece venire in Italia; dal filmato furono tratti due pupazzi (di cui uno riproduceva le mie sembianze) e da allora girammo tutta l'Europa con quello spettacolo, facendo adattamenti scenografici sempre un po' diversi. La sigla di "Non stop" con "Amada mia, amore mio" sull'altra facciata fu un successo planetario: di quel 45 giri furono venduti 25 milioni di copie in Europa, soprattutto in Germania dove tuttora è il top ten di sempre, è un "sempre verde" e i diritti d'autore mi arrivano ancora e spero che durino a lungo.

AAJ: Nel 1982 invece un'altra sigla di grande successo: "Papà ha la bua" con Cristina che aveva otto o nove anni; eravate affiatatissimi con una mimica eccezionale.

P.Z.: Cristina è stata la mia forza perché la musicalità di quella bambina nessuno poteva capirla meglio di me: si muoveva con simpatia ed anche quella sigla, di un programma per ragazzi di RAI 1, fece subito boom. La cosa nacque così: ero a Torino dove partecipavo al programma "TV Top" con Corinne Clery, Barbara D'Urso, Chiambretti... un impegno massacrante perché si lavorava dal lunedì al venerdì e il sabato si andava in diretta con l'orchestra. Il direttore di rete Luciano Scaffa mi chiese di dargli una mano per un programma per ragazzi che stavano registrando all'Antoniano di Bologna, che però non decollava perché mancava un valido supporto musicale e c'era il rischio che il marchio Santa Rosa tagliasse la sponsorizzazione. Io accettai a titolo gratuito, ottenendo la sua stima e la massima autonomia. Concepii quella sigla con Cristina e continuai a collaborare con il programma: riuscimmo a salvare lo sponsor e le puntate passarono da otto a sedici.

AAJ: Fu da lì che partì la tua esperienza con l'Antoniano?

P.Z.: Sì: terminati quei programmi TV registrati a Torino e a Bologna, Scaffa mi chiamò a Roma e mi propose di gestire organizzativamente tutta l'attività dell'Antoniano. Fino ad allora io ero sempre stato un "esterno," fornendo la mia opera su incarico; quella dell'Antoniano e dello Zecchino d'oro fu per me e per mia moglie Franca un'impresa nuova, di responsabilità e ci siamo ingranditi sempre più. Io mi sentivo come a casa e da allora ho sempre fatto in modo di restare a Bologna. L'Antoniano è diventata una nostra creatura e siamo andati avanti così fino al 2002.

Per ogni canzone che scrivevo prendevo diciotto milioni e ne facevo decine ogni anno; vendevamo milioni di dischi e raggiungevamo il 22-23% di share... è stato davvero un grande successo!

AAJ: Facendo un passo indietro, cosa ci puoi dire invece della tua partecipazione al festival di San Remo?

P.Z.: Dopo "Non stop" Bruno Voglino nel 1978 mi diede l'incarico di dirigere l'orchestra del festival della canzone italiana. D'accordo con Vittorio Salvetti misi insieme l'orchestra e facemmo le prove a Baricella, vicino a Bologna. Al festival parteciparono i Mattia Bazar, Anna Oxa, Rino Gaetano... fu un'edizione favolosa.

AAJ: Quindi cantante, pianista, compositore, direttore d'orchestra, peformer, organizzatore... In quale di tutti i vari ruoli ti riconosci maggiormente?

P.Z.: Tutti ruoli che mi appartengono. L'unica attività che non rimpiango e che non vorrei mai più svolgere è quella dell'orchestrale: un mestiere che mi stava stretto e che feci solo all'inizio della carriera. Non condividevo la mentalità degli orchestrali, il pettegolezzo, la sregolatezza... e la fatica fisica a trasportare sempre l'organo elettrico sulle spalle!

AAJ: Per venire all'attualità, si favoleggia che per contratto l'utilizzo di "Amada mia, amore mio" nel film "To Rome with Love" di Woody Allen ti abbia fruttato 40.000 dollari; è vero?

P.Z.: No, non è esatto. Per i diritti alla casa discografica, la Universal, hanno versato 60.000 dollari, che saranno da ripartire e ne verrà una parte anche a me. Poi ci saranno gli incassi da borderò per i diritti d'autore e i conti si faranno alla fine della circuitazione del film in tutto il mondo. Nella pellicola ci sono 14 minuti di "Amada mia, amore mio" e vedremo che cifra ne salterà fuori, anche se purtroppo il film non ha avuto il successo che si sperava.

AAJ: Ti rendi conto comunque che si parla di cifre che nessun jazzista italiano di ieri o di oggi, nemmeno il super quotato Bollani, ha mai visto in un solo colpo, praticamente senza fare nulla?

P.Z.: Fa parte del tipo di attività che ho sempre svolto, ma è interessante sapere come i collaboratori di Woody Allen sono arrivati a quel brano: cercavano il successo europeo più popolare degli anni Settanta e quello lo fu. L'hanno saputo dopo che si trattava di una canzone italiana, perché inizialmente pensavano che fosse spagnola.

AAJ: Hai compiuto da poco ottant'anni: ti senti appagato e tiri i remi in barca per goderti il meritato riposo o dobbiamo aspettarci altre sorprese?

P.Z.: Rimangono tanti ricordi, ma in realtà molti lavori non mi hanno appagato... a parte ovviamente "Non stop" e "Amada mia, amore mio" soprattutto per il modo con cui sono nati: la sigla di "Non stop" è nata per caso, dall'improvvisazione, mentre "Amada mia, amore mio" dopo una notte d'amore con mia moglie. Quindi l'ispirazione pura, allo stato brado, per questo sono i fatti che ricordo con maggior piacere. Per il resto sento di non aver dato tutto quello che avrei potuto: ero sempre spinto dalla voglia di stare meglio e mi sono lasciato prendere la mano.

Si ringraziano per l'indispensabile collaborazione Franca Poli, Francesca Clementoni e Gabriella Sartini

Foto di Barbara Rigon (la prima).

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