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Luigi Bozzolan: Nella direzione di Luca Flores

Luigi Bozzolan: Nella direzione di Luca Flores
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La straordinaria capacità che Luca ha avuto di trovare una sintesi fra studio e creatività è qualcosa di cui parlare sicuramente alle nuove generazioni di musicisti.
Il libro Luca Flores—Uomo, Musicista, Artista (Casa Editoriale Terre Sommerse) di Luigi Bozzolan ritrae in maniera appassionata una delle figure più significative, ma dall'altra parte meno approfondite dal punto di vista musicale, del jazz italiano. Il racconto arricchito da argute analisi di brani, testimonianze di amici, colleghi e familiari, materiale fotografico, appunti inediti, disegni e poesie fa emergere, dallo sfondo del tormentato percorso di vita di Luca Flores, il suo complesso lascito artistico. Musicista e compositore con alle spalle svariati progetti, Luigi Bozzolan da diversi anni vive nella Lapponia Svedese dove affianca all'attività concertista quella di insegnante di pianoforte. Il libro è il risultato di un lungo lavoro di ricerca portato avanti da Bozzolan con competenza e sensibilità scaturito dalla voglia di far conoscere o anche solo riscoprire al lettore il Luca Flores artista, il cui impulso innovativo ancora oggi sorprende ed incanta.

All About Jazz: Come nasce l'idea di dedicare un libro a Luca Flores?

Luigi Bozzolan: Inizialmente ero mosso dalla curiosità personale, il desiderio di conoscere meglio l'opera di Luca. Sono andato dunque a Siena, presso la scuola Siena Jazz, perchè sapevo che lì c'erano alcuni scatoloni portati da Michelle Bobko, la compagna di Luca, dopo la scomparsa del pianista. Mentre sistemavo negli scaffali i libri, gli appunti ed alcuni nastri avevo la sensazione di una scoperta quasi esplorativa. Allo stesso tempo realizzavo che nelle precedenti produzioni dedicate a Luca, un film e due libri, mancava quasi totalmente la parte piú bella e vitale di questo artista, ovvero l'arte. Sentivo che si sarebbe potuto correre il rischio di ricordare Luca Flores in modo troppo approssimativo, quanto meno parziale. Erano stati messi principalmente in risalto alcuni aspetti legati alla sua vita privata senza approfondire quello che aveva prodotto. Inoltre c'era il fatto che nell'immaginario collettivo il ricordo di Luca si stava progressivamente affievolendo. Per tali motivi ho pensato che, in quanto pianista, avrei potuto far luce su un patrimonio artistico quasi sconosciuto. Scrivere un libro non solo era necessario, ma anche culturalmente doveroso.

AAJ: In quale modo lo sviluppo e la stesura finale del libro Luca Flores—uomo, musicista, artista hanno coinciso con la tua attività di pianista e insegnante?

LB: Ho pensato di iniziare a scrivere il libro quando mi sono trasferito per lavoro nella Lapponia Svedese come insegnante di pianoforte nella Kulturskola (le nostre ex scuole civiche) a Gällivare. Qui ho trovato spazio e tempo, che ritengo due ingredienti indispensabili, per insegnare il mio strumento e produrre. In effetti da quando abito qui, circa sei anni, ho pubblicato tre dischi, un libro, e sto lavorando al prossimo disco. La stesura del testo è stata a dir poco "on the road." Ho scritto ovunque ed in qualsiasi momento, giorno o notte, a scuola, a casa, in aereo. Ho fatto interviste dal vivo, al telefono, per email, ho preso aerei, treni e guidato per chilometri per raggiungere i luoghi di Luca. Durante questo lavoro Paolo Flores (il fratello maggiore di Luca) mi ha sempre affiancato e supportato. Mai avrei potuto scrivere il libro senza di lui.

AAJ: La sensazione che si ha leggendo il racconto della vita di Luca Flores è quella di trovarsi di fronte a un talento del jazz italiano rimasto nell'ombra quando era in vita e riscoperto in seguito attraverso la lente deformata delle tragiche vicende personali della malattia e del suicidio.

LB: C'era una visione parziale della situazione, non c'è dubbio. Lo stereotipo era dietro l'angolo pronto a sminuire il bello della complessità delle cose, facendo sedimentare solo le complicazioni. Ma fra complessità e complicazione c'è una profonda differenza. Io ho voluto raccontare proprio quella complessità senza girare le spalle a tutto il resto, cercando l'equilibrio. Naturalmente i vissuti privati di Luca hanno influenzato la musica, ma nelle sue vicende personali mi sono sentito di guardare con discrezione, entrando in punta di piedi.

AAJ: Nonostante sia stato una figura trasversale del jazz italiano Luca Flores non è riuscito a trovare una vera e propria sintesi degli aspetti compositivi ed espressivi rintracciabili nei suoi numerosi lavori.

LB: Si potrebbe dire che Luca è stato discontinuo. Nella sua discografia non si trovano due dischi simili ed, all'interno degli stessi, è possibile ascoltare brani concepiti in maniera radicalmente diversa fra loro. Era un pianista estremamente versatile e talentuoso che avrebbe potuto permettersi qualsiasi genere di carriera musicale. Credo che la sua più importante intuizione sia stata quella di non diventare schiavo del proprio talento riuscendo ad analizzare i propri pregi e limiti, all'interno dei quali ha costruito il proprio codice sonoro. Tutte le direzioni prese da Luca sono una ramificazione della sua complessa personalità, quello che nel libro io chiamo i "Brilliant Corners," citando un brano di Thelonious Monk. Ho cercato di tracciare le linee di collegamento proprio di questa molteplicità espressiva. Come scrivo nel libro: Luca era Uno.

AAJ: Sono presenti nel libro accurate trascrizioni e analisi di alcuni suoi brani che ne mettono in luce le straordinarie, quanto audaci, idee compositive: quali tra queste hanno maggiormente attratto la tua attenzione?

LB: L'equilibrio nella sua più alta accezione del termine è la dote che mi ha affascinato maggiormente nella musica di Luca. La musica permea l'aspetto più funzionale. È quello che mi affascina in tutti gli artisti a prescindere dalle epoche e dai generi. Ci sono aspetti funzionali e narrativi che tengono in tensione ed in movimento specifici parametri come la melodia, il rimo, il timbro, i colori e le forme. Questo in Luca è chiarissimo, e trova una summa nel disco in piano solo For Those I Never Knew. Per godere a pieno di un'opera, è molto utile osservarla da un punto di vista tecnico e non solo sentimentale. Questo consente di capirne aspetti essenziali, ed è come mettersi nei panni dell 'artista. È una cosa questa che cerco di insegnare anche ai più giovani dei miei allievi. Prima di leggere le note e suonare, consiglio sempre di guardare lo score come un disegno, trovare le sezioni, i cambi di fraseggio, i movimenti.

AAJ: Un modo per mettere in evidenza la stretta relazione esistente tra la definizione dell'identità del musicista e il suo essere compositore oltre che esecutore.

LB: Identità e narrazione sono due elementi per me indispensabili che riconosco al di là dei generi e degli stili. Sono due fattori con i quali ci si nasce e sui quali ci si può lavorare. Sono qualità che tutti potenzialmente abbiamo, ma di cui spesso ci si dimentica perché spesso si è deviati e distratti da quello che dobbiamo dimostrare di saper fare. Luca era quel suono perché ha viaggiato, ha vissuto in Africa, in Italia, in America, in Portogallo e parlava due lingue. Nella testa aveva la musica studiata in Conservatorio tanto quanto quella ascoltata in Mozambico ed assorbita a New York. Il tutto poi si canalizzava nella sua musica, nel pianoforte, nelle poesie e nei disegni

AAJ: Descrivi nel libro le dinamiche sociali e culturali del periodo di sfondo della parabola artistica di Luca Flores durante la quale una nouvelle vague di giovani jazzisti muovevano i loro primi passi.

LB: Il contesto è il fluido dentro il quale ogni artista si trova a vivere. Non esiste artista che non si sia confrontato con il suo tempo. Anzi, credo che le due cose siano imprescindibili, ma questo vale per la vita in generale. Nel libro racconto il contesto musicale italiano a cavallo fra gli anni '70 ed '80 caratterizzato dall'aspetto analogico delle cose, di tutte le cose. Con il digitale è cambiato il modo di pensare, fare, ascoltare e divulgare la musica. I musicisti professionisti di jazz erano una manciata, i luoghi, le città, gli studi di registrazione, i festival avevano una mappatura completamente diversa rispetto ad oggi. Luca era sicuramente una punta di diamante, data anche la sua giovane età ed il talento. È bastato ascoltare i tanti colleghi musicisti intervistati per capire che ha sempre goduto di rispetto e stima.

AAJ: Luca Flores è stato tra i primi pianisti nell'ambito del jazz italiano ad incidere dischi interamente formati da proprie composizioni: si può rintracciare in questa scelta un modo per svincolarsi da una certa soggezione nei confronti del panorama jazzistico americano?

LB: Certamente si. Luca giovanissimo sentiva già l'esigenza di emanciparsi dal jazz made in USA. Aveva studiato con cura certosina quel linguaggio ma evidentemente sentiva che sul palco doveva esprimere qualcosa di personale, di non imitare o peggio scopiazzare i suoi maestri. In questo devo dire che ha avuto una capacità che nel jazz italiano, ma non solo, in pochi hanno. Come leader del Matt Jazz Quintet e del Luca Flores Trio, fino ad arrivare al disco Love for Sale, Luca si è sempre preoccupato di scommettere sul proprio sound. È stato pioniere in un contesto in cui la stragrande maggioranza dei dischi di jazz italiano proponevano brani americani o comunque non originali.

AAJ: Sono presenti, tra le diverse testimonianze, quelle di Franco D'Andrea ed Enrico Pieranunzi: trovi nella tua analisi punti in comune tra i tre pianisti e compositori?

LB: C'è certamente un filo rosso fra i tre pianisti, non foss'altro perché sia D'Andrea che Pieranunzi sono stati insegnanti di Luca. Ma non basta solo questo. Tutti e tre hanno il loro pianismo unico, il marchio di fabbrica riconoscibile da una nota. Sicuramente è un discorso percettivo, non si può misurare ma quando accade arriva forte e chiaro. Questa fine autenticità lega D'Andrea, Pieranunzi e Flores.

AAJ: In che modo le vite di altri due protagonisti del jazz italiano dell'epoca, Massimo Urbani e Chet Baker, si sono incrociate col percorso di Luca Flores?

LB: Luca Flores, Massimo Urbani e Chet Baker avevano probabilmente in comune qualcosa che andava oltre il talento musicale. Non erano solo bravi a suonare. Si sono incontrati ed hanno inciso musica perché è così che accade quando specifiche energie si riconoscono. Qui entriamo in una sfera extra musicale della quale ho avuto il piacere di parlare con Enrico Pieranunzi. C'è un capitolo intitolato "Musica, vitalità e corpo" all'interno del quale Pieranunzi descrive con estrema chiarezza e completezza il concetto che suonare richiede presenza, fisicità ed energia. È un argomento delicato di cui raramente si parla con cognizione. Infatti non è un caso che anche le figure di Urbani e Baker siano state consumate da molti luoghi comuni.

AAJ: Nello stesso capitolo Enrico Pieranunzi parla di un aspetto fondamentale della percezione interiore della musica quando parla del suo essere "incardinata profondamente alla vitalità."

LB: Enrico Pieranunzi ha una capacità di analisi e sintesi fuori dal comune. Si è posto domande alle quali ha trovato risposte non facili. Nella sua intervista rivela in maniera chiara quel meccanismo di scambio energetico continuo che si verifica nella musica così come nella vita: "è uno stare tutto lì e stare tutto con gli altri." Quando si verifica questo fenomeno l'ascoltatore attento lo percepisce. Io me ne sono accorto in Luca tanto quanto in molti altri musicisti, anzi in molti altri "momenti" musicali. Parlo di momenti musicali perché sono attimi, gesti, respiri in empatia. In parte rimane un fenomeno misterioso, ma a me piace che rimanga così.

AAJ: Quali motivazioni spinsero Luca Flores ha registrare unicamente per l'etichetta Splasc(H) del produttore Peppo Spagnoli?

LB: Purtroppo non ho avuto modo di intervistare Peppo Spagnoli, ma ho letto la corrispondenza fra Luca e Peppo, specialmente le lettere dell'ultimo periodo. Peppo ha avuto sempre ammirazione per Luca, quasi come se avesse sposato la sua causa. Era il suo produttore con cui realizzava i progetti, discuteva di idee e opinioni e inoltre partecipava all'ideazione grafica delle copertine dei dischi. Questo oggi è pura fantascienza. Sicuramente Spagnoli è stato l'uomo dietro le quinte di molti dischi di Flores, il sostegno esecutivo ed artistico alle tante idee del pianista.

AAJ: Nella parte finale del libro mostri al lettore il Luca Flores disegnatore, innamorato di Kandinsky, e scrittore di poesie pubblicate nei libretti dei suoi dischi: aspetti che fanno luce su un uomo mai del tutto soddisfatto della propria arte e molto esigente con se stesso.

LB: Sì esatto, Luca era molto esigente e critico con se stesso. È difficile trovare un bilanciamento fra musa e giudizio, il genio ed il revisore. Le due figure sono entrambe giuste fintanto che una delle due non prende il sopravvento. Questo argomento ha sicuramente tormentato Flores il quale avrebbe voluto rivedere e migliorare la sua musica quasi all'infinito. Finita l'opera in realtà il punto di osservazione dell'artista non è piú lo stesso ma è già cambiato un poco. Ed allora l'artista vorrebbe aggiustare, calibrare e aggiornare. Ma va bene così, l'opera è sempre un po' indietro rispetto all'artista. Questo crea scontento, a volte preoccupazione. L'ideale sarebbe riuscire a percepire quando chiudere, perché altrimenti si potrebbe non finire mai.

AAJ: Qual è l'eredità umana e artistica lasciata da Luca Flores alle nuove generazioni di musicisti?

LB: La straordinaria capacità che Luca ha avuto di trovare una sintesi fra studio e creatività è qualcosa di cui parlare sicuramente alle nuove generazioni di musicisti. Ho guardato a Luca Flores come qualcuno che ha voluto raccontare la propria storia fino in fondo, mosso da un grande desiderio di emanciparsi dagli studi e dai Maestri. È difficilissimo intendiamoci, perché crea non pochi conflitti, è come attraversare l 'oceano in equilibrio su un filo.

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