Home » Articoli » Interview » Dave Douglas: la consapevolezza creativa

Dave Douglas: la consapevolezza creativa

By

View read count
Intervista di Dave Wayne

Se si dovesse riassumere in una parola la carriera musicale del trombettista Dave Douglas, verrebbe subito in mente "coerenza." Certo, è stato il leader di un numero incredibile di band dedite ai più svariati stili. Ma ciò non toglie che in nessuno dei trenta e più dischi che ha realizzato sia venuto meno il suo proposito di offrire un Jazz coraggioso e originale. Abituato a rischiare, musicalmente parlando, Douglas è solito impegnarsi in più progetti contemporaneamente. Nella metà degli anni Novanta, ad esempio, con i Parallel Worlds, il Tiny Bell Trio, e il Dave Douglas Sextet—ognuno con i suoi strumenti, i suoi membri e il suo repertorio di brani originali. E a seguire, incapace di star fermo, Douglas diede vita ai Charms of the Night Sky (un quintetto senza percussioni insieme al fisarmonicista Guy Klucevsek), i Sanctuary (un doppio quartetto con due trombe, due campionatori, due contrabbassi, percussioni e ance), e un quartetto senza pianoforte. Nel 2000 firmò per una major come la RCA/Bluebird e la sua musica divenne, se possibile, ancora più ardita, con l'aggiunta di elementi di musica elettronica, di fusion, post-bop e persino di musica etnica tradizionale.

E nel 2005, alla scadenza del contratto con la casa discografica, Douglas non fece una piega e lanciò la sua etichetta, la Greenleaf Music: nata con lo scopo di documentare i lavori di Douglas, con il tempo l'etichetta ha ampliato i propri orizzonti pubblicando artisti quali la flautista e cantante Nicole Mitchell, i sassofonisti Donny McCaslin e Curtis MacDonald, il contrabbassista Michael Bates, il chitarrista Nels Cline, e la meravigliosa band avant- fusion Kneebody. E tutti i brani possono anche essere ascoltati via web grazie alla piattaforma Greenleaf Cloud Player.

Nonostante un carnet già pieno di progetti propri—tra i quali Bad Mango (con i So Percussion); Orange Afternoons Quintet (con la partecipazione di Vijay Iyer e Ravi Coltrane); Brass Ecstasy (con Vincent Chancey, Nasheet Waits, Luis Bonilla e Marcus Rojas); e KeyMotion (la band elettrica di Douglas con il sassofonista Donny McCaslin)— Douglas è anche molto richiesto come sideman, come nel caso del tributo a Nino Rota di Richard Galliano. Va citata anche Soundprints, la band da poco formata da Douglas con Joe Lovano e Joey Baron, incentrata sulla musica di Wayne Shorter.

All About Jazz: Parlaci del cofanetto di tre album, Three Views (Greenleaf, 2011), che hai pubblicato di recente, e che contiene i contributi di tre gruppi differenti pur mantenendo una sua forte unità.

Dave Douglas: Sono quasi ossessionato dal desiderio di realizzare progetti sempre nuovi con collaboratori sempre diversi. E quando ci riesco, il mio lato creativo si anima e comincio a comporre. Tutti questi progetti sono scaturiti nell'arco di pochi mesi da nuovi brani che ho composto e dagli incontri con musicisti con i quali li avrei voluti suonare. E utilizzando l'idea delle Greenleaf Portable Series [Album disponibili solo in versione digitale, N.d.T.] ho potuto realizzare sessioni di registrazioni più brevi e informali, intime, da distribuire online quasi istantaneamente.

Con l'evolvere del progetto e il completamento dei tre album, in molti hanno chiesto la pubblicazione di una loro versione su CD. Molti appassionati Jazz, pur essendo in grado di fruire della musica in streaming o scaricabile, vogliono ancora avere in mano un disco vero, con le foto, il libretto e tutto quanto. Ed è così che abbiamo pubblicato il cofanetto di Three Views, che raccoglie tutte le sessioni fatte per le Greenleaf Portable Series (GPS) nel 2011. E, come hai detto, ogni disco ha per protagonista un gruppo diverso.

Il primo (Rare Metals) è con la Brass Ecstasy Band. L'ispirazione mi è venuta dopo aver pubblicato il CD United Front: Brass Ecstasy at Newport (Greenleaf, 2011).

Il secondo (Orange Afternoons) è un quintetto con Ravi Coltrane, Vijay Iyer, Marcus Gilmore e Linda Oh— alcuni tra i musicisti che più apprezzo. Volevo fare una sessione che fosse, diciamo, di straight-ahead Jazz, non trovo un termine migliore per definirla, il classico spartito Jazz con gli accordi e il resto insomma. Ci siamo concessi molta libertà, e Vijay e Ravi hanno dato davvero un contributo speciale ai brani. Ci conosciamo tutti da molto tempo, così son riuscito sia a organizzare la sessione di registrazione sia la successiva esibizione allo Jazz Standard.

Il terzo disco—che definirei "classico" se non fosse che non mi piace come termine, perché tende a ingabbiare la musica in categorie fisse— vede come protagonista un quartetto di percussionisti creativi chiamato So Percussion. Si intitola Bad Mango

AAJ: C'è un'altra tua band, non presente nel cofanetto— i KeyMotion, con Donny McCaslin, Adam Benjamin e DJ Logic.

D.D.: Questa band è nata durante un festival nell'Estate del 2011. Mi sento dire: "Tu hai la tua band elettrica; Donny McCaslin ha la sua—e non state lavorando con il Quintetto—perché non ne fate una sola?" E così abbiamo fatto. Il gruppo di Donny si chiama Perpetual Motion, il mio Keystone, da cui KeyMotion. Suoniamo brani dal mio e dal suo repertorio, e la sezione ritmica è un incrocio tra le due originarie. Ci divertiamo un sacco.

AAJ: Fai parte dello zoccolo duro del revival del Fender Rhodes. Hai una passione speciale per il Rhodes o stai cercando un suono particolare?

D.D.: Adoro il Fender Rhodes. Ho 48 anni, forse ho subìto l'influsso di quel, ehm, fumo [ride] che c'era nell'aria quando si suonavano il Fender Rhodes e le sue imitazioni che cominciarono a circolare a un certo punto. Ma comunque preferisco l'originale, che in realtà è uno strumento acustico, se ci pensi. Ha martelletti che lavorano come quelli di un pianoforte; suona grazie all'azione percussiva, e ha un suono ricco e caldo. Quando ho cominciato a scrivere musica per il Rhodes per il Quintetto, ero certo di poterne ricavare sonorità più piene, più corpose, e che avrei potuto ottenere suoni che un piano acustico non mi avrebbe mai dato. Per non parlare degli effetti negli acuti che avrei potuto sfruttare.

Ma anche se per il Quintetto ho scritto brani per il Fender Rhodes, non si può definire il Quintetto una band elettrica. C'era un basso acustico, e il Rhodes aveva anch'esso una funzione acustica nel contesto della band. Quando lo usi in una band come i KeyMotion, allora giochi sulla possibilità di alterare il tono, arte nella quale uno come Adam è maestro.

AAJ: Adam Benjamin usa davvero molti effetti e sfrutta lo strumento come un generatore di suoni, non soltanto come una tastiera in più.

D.D.: Beh, penso —e credo che Donny sarebbe d'accordo con me— che il ruolo di Adam nella band sia quello di fungere da tramite con la sezione elettronica. Nei Keystone DJ Olive ha avuto il compito di fornire qualunque tipo di effetto elettronico e ho sempre pensato che senza una specie di tramite con gli altri strumenti si sarebbe notata una timbrica alterata, e il DJ sarebbe sembrato isolato e fuori posto.

AAJ: Diversi gruppi che annoverano un DJ nelle loro fila hanno in comune il fatto di avere un trombettista come leader: oltre a te, penso ad esempio a Nils Petter Molvaer, Tim Hagans, Erik Truffaz...

D.D.: Anche Wallace Roney. E Wallace va proprio alla grande!

AAJ: Da un po' di tempo anche Courtney Pine, ma sembra che voi trombettisti siate gli apripista.

D.D.: Aspetta: devi sapere che quando abbiamo suonato al Village Vanguard, e c'era con noi anche DJ Olive, tutti dicevano, "Oh mio Dio, un DJ che suona al Vanguard. Mai visto prima." Ma la titolare del locale, Lorraine Gordon, fece notare che Thelonious Monk era solito suonare sul palco i suoi stessi LP per il pubblico. Quindi DJ Olive non è stato il primo a suonare dei dischi al Village Vanguard. È in fondo fa parte della tradizione [ride].

AAJ: A proposito di allora, la maggior parte degli artisti Jazz si impegnavano in un progetto alla volta. Oggi invece è normale gestire più progetti in parallelo. Una necessità di business o artistica? Lo si fa perché si vuole o perché si deve farlo?

D.D.: Credo che molti siano spinti da un'esigenza artistica. Quando ho cominciato guardavo ad artisti quali Don Byron, Tim Berne, John Zorn, Fred Frith, Steve Coleman. Per i quali era la prassi avere diversi gruppi. Anche Lester Bowie, negli anni Ottanta, aveva una band d'organo e una di ottoni, e allo stesso tempo suonava con gli Art Ensemble of Chicago. Per quanto mi riguarda, ho cominciato a dar vita a diversi gruppi quando ho capito che non si riesce ad esprimersi completamente in un unico progetto. Non ho mai visto qualcuno che ci riuscisse, io per primo, e ho capito che è più interessante focalizzarsi su un aspetto o un suono specifico con una band piuttosto che ingaggiare cinque musicisti e pretendere che riescano ad esprimere l'intero spettro musicale al quale si è interessati.

Per me è stato naturale, lo avevo già capito prima di cominciare ad esibirmi. E quando finalmente firmai per una casa discografica, nei primi anni Novanta, avevo già quattro band. E in rapida successione sono riuscito a incidere tutti e quattro i progetti. Così ho continuato a cercare musicisti che mi ispirassero veramente, componendo per loro e cercando di stabilire una collaborazione duratura. Essendo aperto a diversi tipi di musica e a come questi interagissero con il mio linguaggio compositivo. E non da ultimo per via della mia esperienza come musicista Jazz — e lo dico sapendo che c'è chi pensa che io sia finito a fare cose che cose che non c'entrano con il Jazz. Al che non so cosa rispondere, se non che in quel che faccio ci metto comunque l'anima — sono naturalmente incline all'improvvisazione, ad un linguaggio blues, ad utilizzare gli elementi propri del Jazz.

AAJ: A tal proposito mi viene in mente il tuo primo CD, Parallel Worlds (Soul Note, 1993), nel quale avevi un trio d'archi, che faceva tanto Bartok, ma che era anche distintamente Jazz.

D.D.: Tutta la musica è valida e importante, non bisogna dimenticarlo. Quando i musicisti si guardano intorno alla ricerca di nuove ispirazioni, ampliano i loro orizzonti e portano elementi nuovi nella musica. E questo è un bene per la musica. Penso che ogni sera — specialmente a New York, non so perché, mi chiedo se sia sempre stato così — puoi imbatterti in giovani musicisti che suonano insieme declinando in modi sempre nuovi il concetto di improvvisazione. E ogni volta ti sorprendi, perché ascolti qualcosa che non avresti mai immaginato. E questo succede sera dopo sera. È una cosa stupenda, e son davvero contento di essere parte di questo processo.

AAJ: Quando lanciasti la Greenleaf Music la distribuzione della musica online era una cosa pionieristica e rivoluzionaria. Adesso, a qualche anno di distanza, è diventata la norma. Basta CD, la musica è online. L'ascolto è cambiato completamente, e tu sei stato uno dei pionieri. Che impatto ha avuto questa rivoluzione sul tuo modo di concepire un album? Anzi, ha ancora senso parlare di album, oggi?

D.D.: È stato un processo graduale. L'idea iniziale non fu quella di partire come una etichetta esclusivamente su internet. Ci siamo arrivati gradualmente. Certo, pubblichiamo ancora CD e il catalogo sta crescendo, sia dischi nostri sia di altri artisti, e la clientela aumenta anno dopo anno. Ma la tecnologia cambia, e la tua domanda "ha ancora senso parlare di album, oggi?" è davvero azzeccata. Il bello della tecnologia è che permette all'artista di decidere cosa sia un album. È un videoclip su YouTube? È qualcosa che troveremo su Tumblr? O si tratta di un'oretta di musica in un classico CD con tanto di libretto? Ci sono molti modi di pubblicare la propria musica.

La cosa che mi piace della Greenleaf è che offriamo ai nostri ascoltatori la possibilità di personalizzare i propri acquisti. C'è chi compra una traccia, degli spartiti e una maglietta. Chi acquista i CD, ne spediamo ancora molti alla vecchia maniera. In tutto il mondo, via posta e corriere. Ma ci sono anche utenti che possono accedere all'intero catalogo in streaming dal loro telefonino — e questo è il non-plus-ultra, la musica che vuoi nel formato che vuoi. Hai accesso a tutto il catalogo. E chi ti impedisce di curiosare in ogni album? È forte, no?

AAJ: Raccontaci qualcosa degli altri artisti che propone la Greenleaf. Partiamo da Donny McCaslin?

D.D.: Abbiamo già collaborato in passato con Donny, e stiamo già parlando del prossimo disco. Nicole Mitchell e gli Indigo Trio hanno pubblicato con noi un disco qualche anno fa con Harrison Bankhead e Hamid Drake. Il contrabbassista Michael Bates — ha pubblicato da poco un fantastico disco con la Sunnyside, Acrobat: Music for, and by, Dmitri Shostakovich [oltre a quelli pubblicati con la Greenleaf, tra qui Clockwise]. È giovane ma è davvero bravo. E Curtis MacDonald, altrettanto bravo con il suo alto sax. E i Kneebody — sono davvero contento che siano dei nostri, sono uno dei migliori gruppi in circolazione.

AAJ: Sembra che sia cambiato il rapporto degli artisti con le case discografiche. Oggi un artista non viene più associato automaticamente all'etichetta per la quale incide. Nel passato, le etichette avevano una personalità — che identificava un gruppo di artisti accomunati in qualche maniera — ed era un modo per scoprire nuovi artisti.

D.D.: Hai ragione: oggi basta andare sul sito web dell'artista per sapere cosa sta facendo e dove poter trovare la sua musica. Molti musicisti se lo gestiscono da soli. In effetti oggi è più facile di 10 anni fa. E comunque i grandi distributori conservano un enorme potere: pensa ad esempio all'iTune Store. Non fraintendermi, la vedo come una cosa positiva. L'iTune Store è un'ottima vetrina per i nuovi artisti, anche noi vendiamo molto grazie a questa piattaforma. Ma certo non è come andare in un negozio di dischi e rovistare tra i CD. Tutto si fa online, e noi musicisti abbiamo l'opportunità di farci conoscere da un pubblico sempre più vasto, rendendo la nostra musica più fruibile.

Per molti, l'idea di andare in un negozio di dischi è semplicemente superata, ed è un errore illudersi che non sia così. Mi piacerebbe che fosse ancora così, ma bisogna essere realisti ed adeguarsi.

AAJ: Beh, per provare uno strumento bisogna ancora andare in un negozio fisico.

D.D.: [Ride] Hai ragione. Pensa che io ho scoperto la musica a scuola, e la scuola mi ha dato accesso agli strumenti. Oggi nelle scuole non ci sono neanche più gli strumenti. Oggi a scuola ti devi mettere d'impegno per sperare di ritrovarti uno strumento per le mani. E questo è un grosso problema.

Già dalle elementari e anche se non pensi minimamente ad un futuro nella musica o nell'arte è così importante poter provare uno strumento o essere esposto all'arte. Perché ti aiuta a diversi livelli, che spesso non hanno nulla a che fare con la musica o l'arte: le relazioni interpersonali, la capacità di discutere, pensare e comprendere, il saper apprezzare la cultura e la storia. È qualcosa che arricchisce l'intera nazione.

AAJ: Raccontaci qualcosa sui tuoi progetti imminenti.

D.D.: Mi dedicherò ad un nuovo progetto che ho chiamato Soundprints. È un nuovo quintetto con Joe Lovano e, alla sezione ritmica, Lawrence Fields, James Genus, e Joey Baron. Suoneremo musica ispirata a Wayne Shorter — sia composizioni originali, sia alcuni dei suoi brani — e forse Wayne comporrà qualcosa per l'occasione: non è ancora sicuro, ma lo spero proprio. Poi mi dedicherò al progetto allo Jazz Standard, che mi impegnerà per il resto dell'anno.

AAJ: Come la Brass Band di Lester Bowie, la Brass Ecstasy ha un impeto e un timbro particolare, oltre ad una propria dolcezza e liricità. È questo ciò che cerchi?

D.D.: Certo, è inevitabile. Io sono così. E lo stesso ritrovo in Lester. Era un musicista incredibilmente lirico che riesce a suonare delle ballad capaci di farti commuovere. Forse è un aspetto secondario del suo carattere, con il quale mi trovo particolarmente in sintonia perché siamo molto simili.

Crescendo mi sono convinto che il Jazz è una musica davvero innovativa. Nello scrivere, nel mettere in piedi progetti e nel relazionarmi con gli altri artisti sono sempre stato spinto dal desiderio di fare qualcosa di nuovo, di diverso. E mi sorprendevo del fatto che ciò che facevo fosse etichettato come avanguardia, io ci trovavo un che di lirico, anche se a volte cercavo di evitarlo. Perciò quando sento parlare di avanguardia divento perplesso. Anzi, penso che la definizione stessa di avanguardia vada rimessa in discussione. Mi trovo a mio agio sia con la musica sperimentale sia con quella progressive — e mi fa piacere sentirti dire che la musica dei Brass Ecstasy abbia una sua qualità lirica, perché è proprio quello che cerco di fare — nelle quali cerco la melodia, l'armonia e tutti i valori tradizionali della musica. Forse li cerco in un modo differente. Cerco un modo nuovo per dire "Ti amo."

AAJ: Rudresh Mahanthappa si è stupito perché qualcuno ha definito la sua musica free Jazz. Si possono dire molte cose della sua musica, ma non che sia liberamente improvvisata — in realtà è proprio il contrario, è molto ben studiata. Ma la gente pensa che se è avanguardia, allora è libera improvvisazione, negando persino l'evidenza.

D.D.: Questa è una cosa interessante: quando partecipo a seminari e workshop, che si tratti dell'Università di Miami o del Banff Centre o ancora della Royal Academy di Londra, mi imbatto in giovani musicisti convinti che tutte queste categorie siano utili per capire le correnti e i movimenti sia del Jazz sia della musica improvvisata che si sono susseguite negli ultimi 50 anni. Ma quando cominciamo a suonare si rendono conto che le categorie non servono e che bisogna essere completamente aperti. Non importa cos'è questo o cos'è quello, che cosa sia il free Jazz o l'avanguardia, cosa sia mainstream e cosa straight-ahead. Si fa strada in loro la consapevolezza che si tratta semplicemente di musica e che tutto concorre a formare un vocabolario che possono utilizzare per esprimere al meglio la loro personalità per mezzo della musica. È bellissimo percepire questa sensazione nelle giovani leve.

AAJ: Ma parlare di vocabolario ci riporta alle categorie.

D.D.: Beh, le categorie aiutano, specialmente quando si impara. Schematizzare aiuta ad imparare. Non basta dire "musica" e pretendere di capire tutto e subito. Si impara per gradi e poco a poco, quando si impara a suonare uno strumento, a improvvisare e a comporre, diventa naturale attingere liberamente a qualunque suono si abbia a disposizione.

E questo risponde alla tua domanda iniziale sul motivo che mi spinge, da sempre, ad occuparmi di così tanti progetti in parallelo. La ragione risiede in questo stesso istinto che ti sto descrivendo adesso.

AAJ: Parlaci del progetto dedicato alle colonne sonore di Nino Rota a cui partecipi al fianco di Richard Galliano. Il tuo modo di suonare è abbastanza affine a quelle atmosfere, che sono tutt'altro che Jazz.

D.D.: Si tratta di un quintetto guidato da Richard Galliano, con John Surman al sax soprano, con il contrabbassista Russo Boris Kozlov, e con Clarence Penn alla batteria. È uscito il disco, per la Deutsche Grammophon, con tutte le sue musiche [Richard Galliano Plays the Music of Nino Rota (2011)].

AAJ: Si tratta principalmente delle colonne sonore o ci sono anche altri brani di Rota?

D.D.: Colonne sonore, quelle dei film di Fellini.

AAJ: C'è spazio per l'improvvisazione?

D.D.: Ho provato a infilare un po' di Jazz qua e là—di dare il mio piccolo contributo [ride]. C'è abbastanza spazio per l'improvvisazione, ma molto è legato al tentativo di usare le nostre voci per trovare strade interessanti e alternative che portino la musica in direzioni inesplorate. Come musicisti Jazz cerchiamo di penetrare la musica per portare un valore aggiunto grazie al nostro linguaggio.

Discografia Selezionata

Dave Douglas and So Percussion, Greenleaf Portable Series Volume 3: Bad Mango (Greenleaf, 2011)

Dave Douglas Quintet, Greenleaf Portable Series Volume 2: Orange Afternoons (Greenleaf, 2011)

Dave Douglas & Brass Ecstasy, Greenleaf Portable Series Volume 1: Rare Metals (Greenleaf, 2011)

Richard Galliano, Richard Galliano Plays Nino Rota (Deutsche Grammophon, 2011)

Dave Douglas & Brass Ecstasy, United Front: Brass Ecstasy at Newport (Greenleaf , 2011)

Dave Douglas and Keystone, Spark of Being (Greenleaf, 2010)

Masada Quintet/Joe Lovano, Stolas: Book of Angels Volume 12 (Tzadik, 2009)

Dave Douglas & Brass Ecstasy, Spirit Moves (Greenleaf, 2009)

Dave Douglas & the Radio Frankfurt Big Band, A Single Sky (Greenleaf, 2009)

Dave Douglas & Keystone, Live at Jazz Standard (Greenleaf, 2008)

Kenny Werner, Lawn Chair Society (Blue Note, 2007)

Dave Douglas & Keystone, Moonshine (Greenleaf, 2007)

Dave Douglas Quintet, Live at the Jazz Standard (Greenleaf, 2007)

Dave Douglas Quintet, Meaning and Mystery (Greenleaf Music, 2006)

Dave Douglas & Keystone, Live in Sweden (Greenleaf Music, 2006)

Dave Douglas, Keystone (Greenleaf, 2005)

Dave Douglas/Nomad, Mountain Passages (Greenleaf, 2005)

Dave Douglas Quintet, Strange Liberation (RCA, 2004)

Dave Douglas, Freak In (Bluebird, 2003)

Dave Douglas Quintet, The Infinite (Bluebird, 2002)

Dave Douglas, Witness (Bluebird, 2001)

Dave Douglas, A Thousand Evenings (RCA, 2000)

Dave Douglas, Soul on Soul (RCA, 2000)

Dave Douglas, Convergence (Soul Note, 1999)

Dave Douglas, Stargazer (Arabesque, 1998)

Foto di Claudio Casanova (la prima, la terza, la quarta e l'ottava), Kay-Chrisian Heine (la seconda e la settima), Zoran Orlic (la quinta), Cees van de Ven (la sesta).

Traduzione di Stefano Commodaro

Articolo riprodotto per gentile concessione di All About Jazz USA

Tags

Comments


PREVIOUS / NEXT




Support All About Jazz

Get the Jazz Near You newsletter All About Jazz has been a pillar of jazz since 1995, championing it as an art form and, more importantly, supporting the musicians who make it. Our enduring commitment has made "AAJ" one of the most culturally important websites of its kind, read by hundreds of thousands of fans, musicians and industry figures every month.

Go Ad Free!

To maintain our platform while developing new means to foster jazz discovery and connectivity, we need your help. You can become a sustaining member for as little as $20 and in return, we'll immediately hide those pesky ads plus provide access to future articles for a full year. This winning combination vastly improves your AAJ experience and allow us to vigorously build on the pioneering work we first started in 1995. So enjoy an ad-free AAJ experience and help us remain a positive beacon for jazz by making a donation today.

More

Popular

Get more of a good thing!

Our weekly newsletter highlights our top stories, our special offers, and upcoming jazz events near you.