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Udin&Jazz 2022

Udin&Jazz 2022

Courtesy Luca d'Agostino

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Udin&Jazz 2022
Teatro Palamostre
Udine
12-16.7.2022

Dopo tre anni di "esilio" a Grado, a seguito della (anche coraggiosa) decisione di non collaborare con l'amministrazione cittadina, per la sua trentaduesima edizione Udin&Jazz è tornato nella sua sede originaria con un programma giustamente diversificato, articolato su cinque giorni: nei primi tre una bella e varia selezione di proposte più propriamente jazzistiche, negli ultimi due prima un'escursione nella musica brasiliana con Ivan Lins, poi la conclusione festosa e "popolare" con gli Snarky Puppy. Qui parleremo della prima parte del festival e dei suoi ben sei ottimi concerti, svoltisi tutti presso il Teatro Palamostre.

La prima serata, martedì 12, s'è aperta con la valorizzazione di un giovane musicista locale, Emanuele Filippi, già abbastanza noto a livello nazionale grazie al suo disco Musica Fragile, uscito un paio di anni orsono, e che nell'occasione presentava il nuovo lavoro appena uscito, Heart Chant, in duo con Seamus Blake. Curiosamente però, a seguito di un'indisponibilità dell'ultimo momento, il tenorsassofonista anglo-canadese è stato sostituito da Ben van Gelder, giovane altosassofonista olandese di grandi qualità, la cui presenza ha tuttavia cambiato molto il clima del concerto, trattandosi di fatto di una "prima." Filippi—che si ispira al conterraneo Glauco Venier, di cui è stato allievo, ma anche a un Maestro quale Fred Hersch—ha messo a punto per questo lavoro un programma di brani lirici e dal gusto classico, perfetti per cesellare un dialogo con il compagno; van Gelder, dotato di un fraseggio articolatissimo che lo spinge nella ricerca dei dettagli armonici, è risultato da questo punto di vista un partner ideale, interagendo perfettamente con il leader, sebbene conoscendolo si sia percepito un freno alla scioltezza, frutto probabilmente della limitata conoscenza reciproca e del materiale. Ne è comunque scaturita una performance cameristica ben riuscita e ricca di bei momenti, alla quale è forse mancata qualche invenzione particolare, o qualche piccola perla, che l'avrebbe resa perfetta. Resta in chi scrive la curiosità di ascoltare il disco per confrontare le due versioni, probabilmente tra loro abbastanza diverse.

A seguire è salito sul palco uno dei più acclamati protagonisti della scena jazzistica nazionale, Fabrizio Bosso, alla testa del suo quartetto WE4, mutato in corsa per ragioni "sanitarie" (il covid ha colpito ancora una volta, sia tra i musicisti, sia tra lo staff) con l'ingresso a piano di Andrea Rea in sostituzione del previsto Julian Oliver Mazzariello. Non è tuttavia da escludere che il cambio dell'ultimo momento abbia avuto effetti persino benefici sul concerto, non tanto perché la performance di Rea è stata ottima, quanto perché ha forse acuito uno degli aspetti più interessanti del progetto messo in scena dal trombettista: il marcato e virtuoso contrasto tra lo stile solistico personale e quello della ritmica che lo accompagnava. Quest'ultima, infatti, ha quasi sempre proceduto in direzioni astratte e spesso dissonanti, guidate dal piano ma arricchite dagli interventi cantabili del contrabbasso di Jacopo Ferrazza e da quelli mutevoli e spesso spiazzanti della batteria di Nicola Angelucci, i quali comunque si avvalevano di strutture aperte, mai riconducibili a pattern tradizionali. Dal canto suo Bosso apportava l'elemento tematico narrativo, con un lirismo tutt'altro che ordinario e con prolusioni perlopiù piuttosto lunghe, che da un lato stridevano virtuosamente con il lavoro del gruppo, dall'altro fungevano quasi da mediazione rispetto a un andamento melodico presente più in filigrana che in modo esplicito. Se a ciò si aggiunge la indubbia qualità dei quattro protagonisti e, in particolare, la splendida padronanza strumentale di Bosso—che ha usato pochissimi effetti virtuosistici, ma ha invece fraseggiato con grande cura del dettaglio e dosato mirabilmente le dinamiche—si capisce come ne sia alla fine venuto fuori un concerto davvero molto bello e a suo modo anche sorprendente: una proposta abbastanza tradizionale da poter essere apprezzata da un pubblico ampio, ma anche sufficientemente personale e innovativa da non saper esattamente dove collocarla e—soprattutto—da non stancare in alcun modo chi, come chi scrive, delle proposte tradizionali sia un po' stanco. Chapeau!

La seconda giornata affiancava due concerti tra loro molto distanti: la più recente proposta della giovane contrabbassista Rosa Brunello e il trio del grande chitarrista Al Di Meola. Per ragioni non chiare e che preferiamo tralasciare, fin dalle prove non tutto ha funzionato nel modo migliore—certo non per responsabilità dell'organizzazione, che giusto la sera prima proprio Bosso aveva calorosamente ringraziato per l'efficienza e la disponibilità—e questo ha comportato un ritardo nell'inizio dei concerti, lieve nel primo caso, di ben un'ora nel secondo.

La Brunello si è presentata con la formazione del suo ultimo album appena uscito su vinile per Domanda Music, Sounds Like Freedom: un quartetto internazionale con la trombettista inglese Yazz Ahmed, il multistrumentista egiziano Maurice Louca e il batterista Marco Frattini, che ha prodotto una musica dal gusto multietnico, sostanzialemente arabeggiante, un po' alla francese, nella quale convergevano in modo nuovo molte delle idee e delle sensibilità che la Brunello ha sviluppato nei suoi molti progetti degli ultimi anni. In particolare, il concerto si è sviluppato come un magma sonoro il continua evoluzione, entro il quale era ridotto lo spazio solistico e ciascun artista si poneva costantemente al servizio del collettivo, anche intervenendo in vario modo con l'elettronica. Una certa differenza si è notata tra i brani in cui la leader era al contrabbasso e quelli in cui invece imbracciava il basso elettrico: più composti e narrativi i primi, maggiormente ritmici e ossessivi i secondi, pur nella permanenza della cifra costruttivista e multietnica. Un progetto interessante e originale, godibilissimo, forse mancante solo di qualche accentazione in più che ne scandisse maggiormente l'andamento.

Giunto sul palco come detto con un ingiustificabile ritardo e per questo contestato da parte del pubblico, Di Meola era alla testa di un trio composto dal chitarrista Peo Alfonsi e dal percussionista Sergio Martinez—una formazione peraltro diversa da quella inizialmente annunciata e che, infatti, non ha rispettato il previsto programma dedicato ai Beatles. Il chitarrista statunitense ha peraltro condotto oltre metà concerto in solitudine, suonando certo benissimo ma offrendo uno spettacolo ridondante—sostanzialmente ogni brano aveva la medesima struttura e usava gli stessi stilemi, finendo per confondersi con gli altri—e anche nei momenti d'interazione ha vistosamente trattato i partner come dei lacchè, così da destare un certo fastidio. Alla fine, perciò, sono rimaste nella memoria soprattutto alcuni duetti con Alfonsi sostenuti dalle percussioni di Martinez e—soprattutto—l'unico brano condotto in solitudine dal chitarrista sardo, una splendida versione di "Almeno tu nell'universo" reinterpretata con un sentimento che a tutto il resto del concerto è parso mancare, sostituito dalla sola tecnica.

Anche la terza serata univa un'avanguadistica proposta di giovani musicisti nostrani—C'Mon Tigre—a una di grande autorevolezza internazionale—il trio di Vijay Iyer.

La formazione italiana, attiva già da qualche anno, è l'ampliamento del duo vocal-chitarristico originario (che curiosamente conserva l'anonimato) con l'ingresso di quattro protagonisti della scena jazzistica quali Mirko Cisilino, Beppe Scardino, Pasquale Mirra e di nuovo Marco Frattini. Anche questo sestetto presentava il proprio ultimo lavoro, che include anche un libro fotografico. La musica era prevalentemente incentrata sul lavoro del duo, che operava ampiamente anche all'elettronica e che, in buona sostanza, mostrava una cifra rock sperimentale; attorno a essa operavano i quattro jazzisti, con i due fiati—significativamente disposti alle due estremità del palco, quasi a fare da cornice—che "abbracciavano" la musica del duo attraverso interventi corali e molto strutturati, mentre i due percussionisti intervenivano nel tessuto ritmico del duo, prendendosi anche delle libertà solistiche. In particolare, il vibrafono di Mirra è risultato un essenziale valore aggiunto, arricchendo e variando il core della musica, parso per il resto piuttosto povero. Un progetto in ultima istanza senza dubbio interessante e originale, probabilmente assai intrigante per un pubblico giovanile (e questa è cosa che non deve essere mai sottovalutata), ma che a chi scrive non ha convinto, vuoi per l'insoddisfazione per la proposta originaria, vuoi per la subordinazione ad essa delle grandi potenzialità dei jazzisti coinvolti.

A chiudere la tre giorni più propriamente jazzistica era chiamato il trio di Iyer, con due strepitosi musicisti quali la contrabbassista Linda May Han Oh e il batterista Tyshawn Sorey, autori di uno dei dischi più apprezzati del 2021, Uneasy, uscito per ECM. La formazione non ha deluso, proponendo una musica che ha unito in modo originalissimo tradizione e innovazione, grazie soprattutto al modo molto libero e paritetico in cui i tre artisti interagivano. Se infatti Iyer si approcciava alla testiera in modo assai classico, esplorando il dettaglio delle strutture armoniche con pochissime invenzioni e rari virtuosismi, la contrabbassista ha per tutto il tempo agito con potente e sensibilissima forza propulsiva, fornendo una costante intensità dinamica al lavoro ricchissimo, ma di per sé un po' statico del pianista. Accanto a loro Sorey si è mostrato ancora una volta uno dei batteristi più sorprendenti della scena internazionale, alternando momenti di dialogo e supporto dalla incredibile leggerezza a passaggi, spesso improvvisi, di grande potenza, che stravolgevano e portavano su scenari del tutto diversi il lavoro dei compagni. Tutto questo con un'ammirevole coerenza complessiva, ancor più stupefacente alla luce del fatto che il concerto, di un'ora e mezza circa, non ha avuto momenti di pause, anzi la scaletta—che includeva anche brani di Stevie Wonder, Thelonious Monk e Geri Allen—era in parte montata in suite senza soluzione di continuità.

Un concerto, quindi, che non ha lasciato respiro a un pubblico che ha infatti apprezzato moltissimo, e un trio particolarissimo, non riconducibile a nessuno dei modelli classici, antichi e recenti, del tipo di formazione. Il modo migliore per celebrare il ritorno a Udine del festival e per auspicare un suo rilancio in ancor più grande stile l'anno prossimo, magari riprendendo possesso di quelli spazi—la Corte Morpurgo, il Castello, Piazza Matteotti—che hanno scandito la sua storia ormai più che ventennale.

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