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Tiziano Tononi

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Quella di Tiziano Tononi - batterista, compositore, "organizzatore" di alcune tra le piu' interessanti avventure musicali dell'italico jazz, artista che prendendo a prestito le parole da Jorge Luis Borges potremmo definire "una mente ospitale" - e' in fondo la storia di una ricerca identitaria in cammino, di un'esplorazione condotta attraverso i "fiori selvaggi" della musica nera, delle sue emozioni, dei suoi eroi, delle sue contraddizioni, che vengono inevitabilmente a galla quando l'incanto di "fa' l'americano" ti rapisce, ma invece di avvolgere i sensi come una deliziosa veste, riesce ad aprire nuove vie per percepire e "sentire" la musica degli altri e quella di se stessi.

Quella di Tiziano Tononi e' una vicenda artistica coerente e fantasiosa, probabilmente un po' scomoda per alcuni meccanismi pret-a'-porter del mercato del jazz in Italia [basti ricordare come ai notevoli successi di critica e pubblico dei dischi dedicati a Don Cherry o a Roland Kirk non sia ad esempio conseguito un aumento dei concerti dal vivo], una storia ricca di maestri capaci di illuminare la strada e di una vocazione alla narrazione personale che si fa collettiva - questa e' in fondo la grande forza del gruppo Nexus.

In questa intervista - rincorsa, rimandata, metabolizzata, preparata per tanto tempo e in diversi incontri, quasi un segno di una necessaria "iniziazione" - il musicista milanese [le cui qualita' conversatorie assumono a tratti le cadenze di un griot] si racconta e ci racconta la sua musica.

All About Jazz: Partiamo dagli inizi, dagli anni in cui cominciavi a muovere i tuoi primi passi nella musica...

Tiziano Tononi: Erano gli anni Settanta! Rispetto a oggi era una grande fortuna iniziare in quegli anni un percorso anche solo di curiosita' musicale. Il jazz ovviamente all'inizio non mi piaceva! Qualche compagno di liceo aveva provato a farmi ascoltare delle cose per cui sono stato poi giustamente punito, tipo il trio di John Surman con Barre Phillips e Stu Martin che mi sembrava una musica assolutamente detestabile! Anni dopo ho dovuto pagare il mio tributo, acquistando una copia di seconda mano del loro doppio bianco [The Trio, N.d.R.] a centomila lire, un regalo di Natale che ho poi ricomprato anche in CD a una decina di euro!

La musica allora era certamente molto piu' accessibile: io venivo dalle esperienze del rock e del blues e l'informalita' del modo in cui la musica veniva vissuta e "consumata", non nell'accezione moderna del termine, permetteva di entrare in contatto con una serie di fenomeni, generi e musicisti straordinari senza che avessi minimamente il senso di quello che stavo facendo, dei personaggi con cui entravo in contatto. Questo per me e' stato un inizio molto fisiologico, ma che gia' anticipava una modalita' che sempre mi ha accompagnato: le cose ho dovuto sempre trovarmele da solo.

AAJ: L'incontro con Andrew Cyrille e' un momento fondamentale della tua crescita come musicista.

TT: Ho avuto l'immensa fortuna di incontrare un personaggio come Andrew Cyrille. L'ho conosciuto in un modo abbastanza casuale: gli ho scritto una lettera dopo avere trovato un fantomatico indirizzo dietro la copertina del disco Dialogue of the Drums, pubblicato dall'etichetta sua e di Milford Graves [la IPS - Institute of Percussive Studies, N.d.R.]... e' una vergogna che nessuno si degni di ristamparlo in CD!

Del tutto insospettabilmente, dopo un po' di tempo, Andrew mi ha risposto con una lunga lettera - che ovviamente conservo - scritta a macchina: tra le tante risposte alle mie domande, alcune delle quali piuttosto ingenue, mi disse che sarebbe stato in Italia per registrare poco dopo, ed e' stata quella l'occasione in cui ci siamo incontrati.

Lo studio non era quello solito di Giancarlo Barigozzi, ma un altro, il GRS in cui Leroy Jenkins registrava un disco bellissimo come The Legend of Ai Glatson con Anthony Davis e Cyrille. Da quel momento sono stato catapultato in un mondo musicale che mi ha molto affascinato, ero un ragazzo che leggeva molto e cercava di sapere tutto quello che si poteva, tenendo conto che quasi trent'anni fa non esisteva internet, solo le lettere e la ricerca di dischi che non sapevi se avresti trovato!

E' stata una grande fortuna entrare in contatto con un personaggio cosi' disponibile, umano e cosi' capace di motivare nei confronti della musica indipendentemente dal background: ero un ragazzo che non aveva idea di cosa fare, come farlo, cosa significasse essere un musicista, ma cogliendo l'aspetto dell'entusiasmo, Andrew mi ha dato una disciplina, elemento fondamentale che mi ha aiutato a diradare la nebbia che circondava la mia idea del jazz e dei suoi esponenti.

AAJ: Davvero difficile orientarsi nella nebbia di quegli anni?

TT: Non avevo tante persone con cui condividere questo mio interesse e quei pochi erano titubanti, orientati verso un approccio jazzistico piu' canonico. Io ero quello che ascoltava le "cose strane" e via dicendo, cosi' mi rifugiavo nei libri, in particolare due testi sono stati la molla per approfondire, cercare: Il popolo del blues di Leroy Jones e Free Jazz, Black Power di Carles e Comolli, libri che considero ancora oggi molto significativi, da rileggere e da riprendere.

Andrew mi ha fatto vedere come niente venga da niente e di conseguenza mi ha fatto capire l'importanza della conoscenza della tradizione, della cultura del jazz, dell'hard-bop, insieme alla curiosita' di sperimentare, provare, trovare nuove soluzioni, il che non significa certo venire dal nulla: si viene da qualcosa per andare a qualcos'altro, una lezione che ho avuto subito presente, la sacralita' dell'aspetto tradizionale che e' poi divenuta quasi un leitmotiv del mio modo di fare musica.

Ho avuto sempre una tensione costante verso la ricerca di un rapporto con le radici della musica nera, cercando di trovarci la mia collocazione.

Per anni ho fatto da aiutante a Cyrille quando veniva in Europa! Quando sono entrato in studio c'era Anthony Davis: io non lo avevo nemmeno mai sentito nominare, stava suonando un blues di Thelonious Monk e credevo ci fosse un disco da quanto intensamente monkiana era la sua resa. Poi, con naturalezza, sempre per provare lo strumento, si e' messo a suonare la Suite dall'Uccello di Fuoco di Igor Stravinskij e questo "doppio binario" mi ha molto colpito e fatto riflettere.

AAJ: Ma come veniva recepita allora in Italia questa musica?

TT: Eravamo la "provincia dell'impero": il jazz era largamente occupato da luoghi comuni, consuetudine, in parte lo e' anche oggi. Stiamo parlando del 1978, la coda del movimento free in Italia, con tutti gli equivoci che ben sappiamo, la superficialita' con cui questa musica e' stata recepita, mal digerita e, a giudicare dagli esiti, dimenticata.

Alla fine le cose mi sono sempre venute a cercare: il blues, il rock, in anni piu' recenti e' successo con le forme devozionali della musica nera come santeria, voodoo... mi e' capitato spesso che quando ero in cerca di qualcosa, come un segno, trovavo nei posti piu' impensati un disco interessante che mi apriva un nuovo orizzonte.

Sono stato davvero fortunato a essere testimone diretto di momenti straordinari come il gruppo Maono di Andrew Cyrille con Ted Daniel alla tromba, Nick DiGeronimo al basso e un giovane David S. Ware al sax tenore [leggi qui una recensione del loro disco Metamusicians' Stomp] e ho partecipato come assistente alla produzione a un disco epocale come Nuba [per leggerne la recensione clicca qui] in cui Cyrille era in trio con Jimmy Lyons e Jeanne Lee e ho incominciato proprio in quest'ultima circostanza a capire cosa significava avere un rapporto con il produttore, gli scontri, le dinamiche del mondo discografico.

AAJ: Hai poi passato un periodo a New York...

TT: Devo dire che a New York, con grande faccia tosta, ho conosciuto decine di musicisti, vivendo l'ultima stagione dei loft. Ho visto Sun Ra allo Small's suonare dalle dieci e mezza della sera fino alle quattro del mattino! Art Blakey vedeva sempre la mia faccia e alla fine mi invitava a avvicinarmi al palco, ma ho conosciuto anche Charlie Persip, uno dei piu' grandi batteristi che abbia mai sentito suonare, uno che ha suonato con Dizzy Gillespie, Mal Waldron, Eric Dolphy! Andavo alle prove dei gruppi, frequentavo lo studio Rivbea di Sam Rivers, ci sono stato per qualche mese, studiando la batteria con Cyrille.

AAJ: Com'e' stata questa esperienza di apprendimento?

TT: Ero un principiante e studiavo con un musicista cosi' importante che mi avrebbe probabilmente dato molto di piu' se io fossi stato allora un musicista piu' preparato. Ma penso anche che la fortuna sia stata quella di studiare con lui proprio le cose essenziali, l'alfabeto, i fondamentali! Quando l'altra sera a S.Anna Arresi, ho suonato sullo stesso palco in cui poi ha suonato Cyrille, cosi' come quando ho suonato con Cecil Taylor di cui Andrew e' stato per undici anni accompagnatore, ho ripensato molto a quei momenti.

AAJ: Cos'altro facevi a New York?

TT: Sai, a New York ero allora come un bambino in un enorme negozio di giocattoli: ero andato su con degli amici e stavamo - tramite giri di amicizie e conoscenze - nel loft di un fotografo italiano, Gianfranco Gorgoni, che lavorava allora per la Philip Morris. Ricordo serate indimenticabili al CBGB's, dove si esibivano Patti Smith, i Ramones, io me ne giravo tutto da solo nella notte, anche in posti pericolosi, con una certa incoscienza e fortuna. Poi, grazie a un pass che mi diede un manager nero che aveva l'ufficio in Park Avenue, ho potuto assistere ai quindici giorni del primo Harlem Jazz Festival, sulla 135a, allo Small's, gustandomi le prove e i concerti di personaggi come Curtis Fuller, Warren Smith, Milford Graves, Omar Clay, un vero frullato di esperienze che poi con il tempo, piu' lentamente si sono tradotte in piccole esperienze di musica attiva.

AAJ: Quali erano i tuoi punti di riferimento dal punto di vista strumentale, oltre a Cyrille e prima di lui?

TT: Mi piaceva moltissimo Max Roach, ma prima ancora mi piacevano batteristi rock come Mike Shrive con Santana a Woodstock, Mitch Mitchell, Ginger Baker o Micheal Giles dei King Crimson, che adoravo anche se non capivo quello che faceva.

I miei tre dischi di riferimento sono stati In the Court of the Crimson King dei King Crimson, Are You Experienced? di Jimi Hendrix e This Was dei Jetrho Tull e ho assistito a tantissimi concerti di rock, Genesis, Gentle Giant, Nucleus, Soft Machine...

Tornando ai batteristi di jazz, ci sono due o tre cose che mi hanno colpito: di Roy Haynes come sia riuscito ad attraversare le stagioni con un'incredibile personalita', riuscendo sempre a fare musica che si forma in tempo reale. Poi un altro che la prima volta non capivo cosa facesse e' Eric Gravatt, ingiustamente poco conosciuto perche' e' bravissimo, come riesce a creare densita', forme, un approccio che associo all'arte contemporanea, quella che tutti guardano e pochi vedono.

Poi c'e' Barry Altschul, che e' uno dei primi responsabili del mio interesse alla percussione come logica associata poi al set tradizionale. Questa l'ho poi ancora di piu' sviluppata con Cyrille, che mi ha trasmesso le possibilita' dell'africanita' dell'approccio: rispetto agli altri batteristi della generazione di ponte che ha creato il nuovo linguaggio, Andrew ha la capacita' di razionalizzare gli elementi, un mix di progettualita' e istinto. E poi ci sono Art Blakey, Art Taylor, Philly Joe Jones, che sono punti di riferimento imprescindibili per chiunque...

AAJ: In tempi piu' vicini a noi, chi ti ha impressionato?

TT: Durante gli anni Ottanta o ascoltato moltissimo Jack DeJohnette, che ritengo uno dei batteristi piu' influenti degli ultimi trent'anni: cose come Tales of Another in trio con Gary Peacock e Keith Jarrett o il suo apporto a Elm di Richard Beirach.

Ma voglio ricordare anche Stu Martin: suonava gia' nel 1960 con Carmen McRae ed era batterista nell'orchestra di Quincy Jones - unico bianco insieme a Phil Woods - e ha poi suonato con Sonny Rollins, nel trio di John Surman, con uno stile davvero unico!

AAJ: Una grande possibilita' di maturare dal punto di vista percussionistico e' stata quando hai incominciato a studiare con David Searcy...

TT: Era il 1979, alla Scuola Civica di Musica a Milano, una scuola che era in quel momento in grande espansione e crescita e la classe di David Searcy era davvero atipica, si potevano studiare tanti tipi di musica! Quella con David e' stata certamente un'esperienza fondamentale, di lavoro intenso, che ha fatto maturare l'idea di un gruppo di sole percussioni - poi consolidatasi nei tre dischi con il gruppo Moon on the Water.

Era straordinario muoversi tra l'idea colta e quella del Mboom Re:Percussion e mi ha molto influenzato la possibilita' di spiegare i suoni con le immagini, cosa che Searcy faceva.

In realta' la differenza tra un brutto suono e uno bello e' davvero labile, piu' sottile di quanto si pensi e questo nel caso delle percussioni e' davvero evidente, basti pensare ai timpani in cui la particolare nuance timbrica fa la differenza... Searcy, fenomenale timpanista, ci insegnava a andare per altri sentieri, ha avuto la capacita' di trasmettere la passione per il suono, con un lavoro su un repertorio che andava da Edgar Varese a John Cage, ma ho imparato una grande quantita' di musica del Novecento, da Igor Stravinskij a Bela Bartok.

AAJ: Ad un certo punto entra nella tua vita un batterista che alla fine e' stato abbastanza dimenticato, Bob Moses...

TT: Quella fu un'altra delle mie folgorazioni, era il 1981 e l'ho ascoltato accompagnare Sheila Jordan in una formazione dove c'erano anche Steve Khun e Harvie Swartz. Mi ha subito interessato quello che faceva dal vivo, la grande padronanza dinamica, la capacita' di essere uno storyteller.

E' un personaggio molto particolare, uno di quei musicisti che sembrano davvero troppo unici per il mondo in cui suonano... credo faccia ancora qualcosa con vecchi compagni di viaggio come David Liebman, che immagino non possa certo dimenticare come sia stato proprio Moses a portarlo a sentire John Coltrane per decine di sere di fila!

Andai a New York per studiare con lui e la prima volta che entrai a casa sua lo vidi appoggiato alla finestra che guardava fuori la pioggia che cadeva. Quando si volto' vidi che aveva in mano una cuica e mi disse solo "This is difficult! That is easy!" indicando la batteria!

E' stato un complemento ideale alla mia visione musicale, perche' Bob e' una persona che parla sempre e solo di musica, che ti insegna a ragionare in termini musicali e per molti versi e' una specie di anti/batterista!

AAJ: Com'e' avvenuto l'incontro con Daniele Cavallanti?

TT: E' successo proprio durante le registrazioni del disco di Jenkins di cui dicevamo! Daniele stava ancora a Amsterdam a quel tempo, era il 1978, ma abbiamo poi suonato assieme l'anno dopo, in trio con un bassista di Milano: facevamo dei pezzi di Daniele, alcuni di Albert Ayler, insieme a cose come "Misty" o "Bessie's Blues"!

AAJ: Con Daniele avete condiviso in quel momento anche un'altra esperienza importante...

Daniele suonava nella Democratic Orchestra Milano diretta da Dino Mariani, di cui sono poi entrato a fare parte e che e' per alcune logiche un'esperienza progenitrice dell'Instabile Orchestra. Suonavamo pezzi originali e abbiamo collaborato con ospiti come Leroy Jenkins o Oliver Lake, come si puo' bene immaginare si e' trattato di un'esperienza unica e irripetibile... eravamo giovani e scapestrati e mal sopportavamo la disciplina. Con quella formazione ho inciso anche il mio primo disco, nel 1983, per la Bull Records, un lavoro molto naif, ma che sarebbe bello potere ristampare, magari in accoppiata con la registrazione che abbiamo fatto dal vivo a Grenoble, davvero notevole.

Ma e' una di quelle cose che non sono cosi' facili come sembrano! Mi piacerebbe venisse ristampato in CD anche Going for the Magic, che ho inciso con Daniele, Trovesi, Cyrille e Maggie Nicols.

AAJ: A proposito di mancate ristampe... e' proprio il caso dei primi due dischi dei Nexus!

TT: I primissimi dischi dei Nexus, Open Mouth Blues e Night Riding, sono stati pubblicati in vinile dalla Red Records ed e' ormai da qualche anno che attendo che vengano ristampati, tanto che si erano offerte anche altre etichette di farlo al posto della Red, tanto piu' se si considera che abbiamo anche un pezzo inedito di quelle registrazioni che potrebbe rendere anche piu' interessante l'operazione. Tra l'altro sempre per la Red ci sarebbe da ristampare un bellissimo disco a nome di Daniele, con un doppio trio in cui oltre a me e lui, comparivano Paolino Dalla Porta, Roberto Ottaviano, Jean-Jacques Avenel e Oliver Johnson...

Ogni tanto mi capita di andare a riascoltare quei primi lavori con i Nexus: sono dischi che conservano ancora la freschezza e l'entusiasmo dell'inizio e che gia' contengono in se' degli elementi - certamente trattati piu' ingenuamente - che sono ancora parte del nostro linguaggio. Teniamo conto che eravamo un gruppo che provava moltissimo e quindi quello che facevamo aveva una sua logica. Tra l'altro siamo stati probabilmente tra i primi artisti della nostra generazione a produrci la registrazione: ci eravamo rivolti a Giovanni Bondandrini a cui Open Mouth Blues piaceva molto, ma che non pote' pubblicarci dal momento che eravamo degli sconosciuti. Allora prese il telefono e chiamo' Sergio Veschi che ci pubblico'!

AAJ: Ma come erano nati i Nexus?

TT: Daniele aveva preso contatti con il contrabbassista Paolino Dalla Porta e con il trombonista Luca Bonvini e creammo cosi' il primo nucleo dei Nexus, un quartetto ispirato alla musica che ci piaceva: a Daniele piaceva moltissimo l'esperienza del New York Art Quartet, la musica di Ornette Coleman, cosi' come ovviamente quella di Coltrane e di Ayler, mentre io ero piu' intrigato da Charles Mingus, dall'Art Ensemble of Chicago e da quel tipo di espressione della musica nera. Abbiamo quindi incominciato suonando pezzi originali, ma anche temi di Eric Dolphy...

AAJ: Come si mantiene vivo per cosi' tanto tempo un "matrimonio" artistico?

TT: Direi che il fatto di essere bene assortiti ha la sua importanza: compensiamo le mancanze uno dell'altro e nel tempo abbiamo anche imparato a convivere nella differenza, che e' poi l'anima di questa vicenda e di questo percorso. Io sono probabilmente piu' curioso, faccio cose piu' eterogenee, mi piace sperimentare, mi sono avvicinato alla scrittura, mentre Daniele ha focalizzato maggiormente la sua intenzione musicale nei confronti di una jazz post-modale, nella cui concezione ha un peso rilevante lo strumento basso. In questo va molto d'accordo con William Parker, fautore di una musica che parte dalle radici, dal contrabbasso, per poi addensarsi, costruirsi. Il suo suono si ispira profondamente alla tradizione nera e il nostro connubio ha creato una gamma sempre molto orientata, ma tutto sommato meno univoca di quanto sarebbe stato se si fosse trattato del mio o dei suo gruppo. Con il tempo, com'e' fisiologico, ognuno di noi ha prodotto poi lavori che fanno capo a gruppi di lavoro simili, ma con intenzioni diverse, com'e' successo ad esempio per i miei lavori "a tema".

Uno dei motivi per cui riusciamo a dare ai Nexus una connotazione sempre nuova e' che si continuano a sperimentare cose: nell'organico del gruppo sono passati tanti musicisti e ciononostante mi accorgo che e' rimasto un suono, un approccio, una modalita' costruttiva della musica riconoscibile.

AAJ: E' stato quello un periodo ricco di incontri e di crescita...

TT: Certamente, ho avuto la possibilita' di lavorare con Tiziana Ghiglioni, Piero Bassini, Stefano Battaglia, Gianluigi Trovesi, Roberto Ottaviano, Giancarlo Schiaffini... con alcuni di loro ho poi anche condiviso quella incredibile esperienza che e' l'Instabile Orchestra.

Per quanto riguarda le collaborazioni con artisti stranieri, ci tengo a precisare una cosa: agli inizi degli anni Ottanta, quella delle collaborazioni era una vera e propria piaga, sembrava bastasse pagare per suonare con chiunque! Per noi invece quelle collaborazioni sono sempre partite da qualcosa che avesse una solida base musicale e umana che le sostenesse.

Cosi' e' stato con Glenn Ferris - di cui mi ricordo che rimasi folgorato vedendolo suonare alla televisione con Jack Walrath - o con Herb Robertson, che conobbi attraverso Tim Berne: all'inizio avevamo suonato con Pino Minafra, ma c'e' stato un lungo periodo, dal 1986 al 1994, in cui non abbiamo piu' avuto trombettisti e l'inserimento di Herb e' stato interessantissimo.

Uno degli aspetti piu' interessanti e' certo la possibilita' per quegli artisti di suonare in contesti che non erano quelli loro abituali: anche Robertson aveva gia' un suo stile definito, ma le composizioni richiedono di suonare anche in altro modo e lui l'ha fatto ovviamente in modo splendido!

AAJ: Immagino che una delle collaborazioni cui tieni di piu' sia quella con Roswell Rudd...

TT: Suonare con Roswell Rudd e' stato il coronamento di un sogno! I Nexus all'inizio erano un quartetto che nella strumentazione con tenore e trombone richiamava sicuramente l'accoppiata tra Rudd e Archie Shepp, anche se Luca Bonvini non si rifaceva particolarmente a lui. Trovarmi anni dopo a suonare con questo grande artista - che anche dal punto di vista umano e' eccezionale - e' stata un'emozione fortissima!

AAJ: Tornando ai tuoi colleghi italiani, alcuni di quei musicisti - come anticipavi - li hai poi ritrovati nell'Instabile Orchestra...

TT: Nel 1990 e' nata l'Instabile Orchestra, un'avventura che all'inizio e' stata abbastanza sofferta, anche perche' eravamo fondamentalmente inconsapevoli di quello che avevamo per le mani, in particolare dal punto di vista umano! Puoi bene immaginare come non sia facile riuscire a coagulare delle esperienze cosi' diverse e forti, tutte insieme, inizialmente per quello che doveva essere un solo concerto, poi due, poi siamo ancora qui!

AAJ: Come si e' evoluta l'Orchestra in questi anni?

Guardando retrospettivamente posso dire che la prima meta' dell'avventura, fino al 1997, e' servita a creare le condizioni per i secondi otto anni! Eravamo abbastanza impreparati a un simile organico: nessuno lasciava passare niente e ciascuno anteponeva la propria visione particolare a una visione generale. Per me che avevo sempre amato lavorare con musicisti che avessero determinate caratteristiche, e' stato un certo shock rendermi conto che non e' cosi' per tutti e quando sei in diciotto persone e fai una musica che a un certo punto deve arrivare al dunque, inevitabilmente le cose vengono fuori.

Tieni conto che l'Instabile Orchestra non fa musica improvvisata, ma suona delle composizioni dei suoi membri e il dibattito interno, specie all'inizio, e' stato molto pesante, sia dal punto di vista "estetico" che da quello della stessa organizzazione collettiva.

Ci sono poi dei parametri che non possono essere tralasciati: se c'e' scritto che si deve suonare quella determinata cosa, va fatto e devono farlo tutti nello stesso modo, non si sfugge!

C'erano poi delle difficolta' a parlarsi direttamente, si creavano e distruggevano alleanze in tempo reale e devo dire - spero di non venire frainteso perche' lo dico senza cattiveria alcuna - che tutto questo e' finito quando Giorgio Gaslini e' uscito dall'Orchestra e questa e' tornata ad avere il primato su qualunque dei suoi membri.

Ammiro molto Gaslini e trovo che sia stato per l'Orchestra una ricchezza straordinaria, ma per un organismo di quel tipo - tra l'altro l'unica esperienza di questo tipo per lui - non aveva senso che qualcuno si appropriasse del tutto.

AAJ: Cos'e' cambiato in quella fase?

TT: Da quel momento sono cambiate molte cose, ovviamente non riconducibili solo alla partenza di Giorgio: direi che il fattore principale e' stata una sopravvenuta maturita' e una maggiore capacita' di fare i conti con la realta'. Ci siamo costituiti in associazione, cosa che ha sviluppato una maggiore responsabilita' di tutti. Poi, nel 2000, c'e' stata un'altra partenza importante, quella di Riccardo Bergerone che ne era il manager e da quel punto ci dibattiamo con il problema di essere un'orchestra celebrata - anche troppo - senza una figura che la rappresenti e promuova.

Questa situazione ha rafforzato i convincimenti alla base della formazione stessa: ora l'Instabile puo' fare a meno di chiunque e comunque, il che e' un punto di forza e un bel traguardo!

Devo dire che siamo anche molto cresciuti musicalmente negli ultimi tre, quattro anni, suoniamo decisamente meglio e l'esperienza con Cecil Taylor ha cambiato la nostra prospettiva.

AAJ: Una delle caratteristiche che saltano agli occhi scorrendo la tua discografia e' la volonta' di realizzare dei tributi, di confrontarsi sempre con le figure piu' influenti della musica afroamericana. Il primo di tutti in termini cronologici e' stato Albert Ayler...

TT: I lavori "a tema" sono l'esito di una riflessione sulla possibilita' di riutilizzare quei linguaggi che tanto significavano per noi e riuscire a dire lo stesso una parola originale, personale, usandoli sempre come pretesto e mai come fine.

Quella del tributo a Albert Ayler e' stata poi la prima volta in cui mi sono occupato completamente di un disco, perche' Daniele non era totalmente sintonizzato in quel momento sul lavoro di rilettura. Ho cosi' scritto entrambe le suite del disco The Prayer and the Ghost e ho trovato anche delle conferme personali sulla mia capacita' di organizzare, di affrontare le cose e di scrivere. Riascoltandolo oggi mi sembra registrato male, ma ne sono contento ugualmente. Nella prima suite ho organizzato un sestetto con Glenn Ferris al trombone e Mark Dresser al contrabbasso, mentre nella seconda c'e' un ottetto con Lauro Rossi e Attilio Zanchi in piu'. Nella prima parte ci sono riferimenti abbastanza diretti a materiali ayleriani, anche se infilati in punti in cui magari non ce li si aspetta, mentre nella seconda ho effettuato piu' un lavoro di scavo in cui individuare una serie di temi che per clima, impasto sonoro, melodia, fungessero da spunto per le parti.

Ho dovuto tenere tutto sotto controllo e devo dire che ne e' valsa la pena, perche' e' un disco che produsse molto, dal momento che poi lavorammo molto di piu', ottenemmo maggiore visibilita' di prima, di quando non pensavamo a nulla al di fuori di Nexus.

AAJ: Poi la consacrazione avviene con il disco su Don Cherry!

TT: Il lavoro su Don Cherry e' nato sulle ali del grande amore per la sua musica, per quello che ha rappresentato: lo ritengo una delle figure piu' importanti, piu' ancora di Ornette Coleman. Ricordo che comprai Mu quando ne capivo davvero poco, ma percepivo una grande poesia in quella musica.

Poi in realta' tutto e' nato anche sulla scorta dell'emozione per la sua morte, era l'autunno del 1995 e stavamo provando con l'Instabile quando giunse all'improvviso la notizia. Rimanemmo tutti molto colpiti e insieme a Daniele e a Guido Mazzon improvvisammo il tema di "Awake Nu" come omaggio.

Rispetto al disco su Ayler, quello su Cherry, che poi prendera' proprio il titolo da quella composizione che apriva il disco Where Is Brooklyn?, parte da una prospettiva diversa e in fondo senza fare troppi calcoli. Tanto che i pezzi sono divenuti subito tanti, attingendo al repertorio di Sonny Rollins, di Archie Shepp, dei Contemporary Five, oltre che ai temi di Cherry che sono semplici, ma dotati di una incredibile bellezza folk.

Un punto di riferimento e' stato il materiale di Complete Communion, capolavoro del periodo Blue Note, ma anche cose tipo la Relativity Suite.

Cento minuti registrati in un giorno e mezzo - mi ero prefisso una tabella di marcia e avevo i differenti organici gia' in mente - e con quel poco in piu' dal vivo nasce un disco doppio.

Quello che e' successo poi, si sa: la vittoria al Top Jazz, una copertina che non e' certo bellissima, ma funziona nell'incrocio di sguardi tra la foto di Cherry e quella mia, un notevole seguito di pubblico e critica.

AAJ: Accade poi che Pino Saulo di RadioTre vi stimola a un lavoro su John Coltrane...

TT: Sono molto legato al lavoro su Coltrane, una musica che abbiamo affrontato con uno spirito ancora diverso, lasciandoci ispirare dai suoi lavori posteriori a A Love Supreme. L'organico a disposizione era davvero stimolante, con sassofonisti quali Daniele, Renato Geremia e Sandro Satta e ho avuto la possibilita' di preparare dei materiali che fossero funzionali a quello spirito... basta davvero poco in Coltrane per richiamare un mondo intero! Il disco che ne e' risultato e' alla fine qualcosa che mi rappresenta molto, specialmente nel modo di scrivere, poco e efficace. Dopo il successo di questi lavori ho anche avuto modo di focalizzare meglio alcuni concetti su come "funzionano" determinati meccanismi: e' essenziale che uno faccia sempre quello che sente, ma nel mondo del jazz odierno non basta piu' essere naïf e onesti, ma bisogna sapere dare a quello che vuoi che venga ascoltato la possibilita' che questo accada. E non c'e' dubbio che questi lavori "a tema" abbiano attirato subito di piu' l'attenzione collettiva.

AAJ: Eppure il lavoro successivo su Rahsaan Roland Kirk, We Did It, We Did It, e' una sfida ulteriore, addirittura un triplo, cosa che non fa molto... "marketing"!

TT: Si e' trattato in effetti di un lavoro monumentale, non solo in termini di struttura del disco! Ho voluto dare una visione completa del pensiero musicale di Roland Kirk, che non e' certo semplice, e quello che ne e' venuto fuori e' davvero complesso. E' come se ci fossero tanti livelli di lettura e di riferimenti: chi piu' e' in grado di cogliere - e' alla fine un procedimento molto zappiano - di sbucciare la cipolla, piu' arriva al cuore di questa cipolla! In questo senso i tanti autori correlati - nel disco vengono suonati anche brani di Duke Ellington, Fats Waller, Thelonious Monk, John Coltrane, ma anche di Charles Mingus, Archie Shepp, Stevie Wonder, Jimi Hendrix e Bob Marley! - sono stati un grimaldello che ha aperto tante porte, al punto di avere messo un po' tutti d'accordo, ho ricevuto i complimenti dal biografo ufficiale di Kirk e mi e' stata richiesta una copia del disco dall'archivio delle musiche di Hendrix nell'Idaho! E qui scatta ovviamente un campanello d'allarme [ride, ndr]!

Siamo riusciti a scardinare un meccanismo e a vendere tremila copie, a riprova del fatto che per raggiungere un numero di ascoltatori piu' vasto ci vuole un'idea forte o un modo forte di porsi. Ma e' altrettanto vero che esiste un problema grave di preparazione e di giudizio nel porsi verso materiale originale invece che storicizzato, si veda il disco dell'Orchestra Nexus che e' venuto dopo, non meno interessante, ma che ha suscitato minore attenzione.

AAJ: Qual e' la tua opinione sulla scena attuale del jazz in Italia?

TT: Penso che sia un ambiente in cui molte persone non dicono quello che pensano, mentre mi sembra che mai come oggi chi ha qualcosa da dire debba dirlo liberamente, anche perche' siamo comunque per natura una musica in controtendenza. I discorsi da fare sui problemi della scena sarebbero davvero tanti, ma alla base c'e' sempre il fatto che essere un musicista in Italia e' davvero difficile ed e' doppiamente difficile essere un musicista intelligente e dimostrarlo.

Alla fine penso che il lavoro paghi e ci siano comunque spazio e orecchie sufficienti per quello che facciamo: se guardiamo al mio caso, non ho mai avuto come in questi anni tanti premi e riconoscimenti, ma non e' che sia cambiato molto.

Non ho mai pensato di dover piacere a tutti, a qualcuno la mia musica piace e mi sembra che siano ascoltatori molto onesti. Inoltre non siamo piu' nella condizione di inventare sempre cose nuove: siamo inevitabilmente la generazione della sintesi, del riutilizzo, per quanto personale, gli elementi in ballo sono davvero troppi oggi.

AAJ: Come ti poni di fronte a questo tipo di scenario?

TT: Oggi e' davvero difficile orientarsi, ogni giorno escono migliaia di dischi che francamente non ho il tempo e i soldi di ascoltare e tra i quali c'e' sicuramente molto di interessante.

A questo punto della mia carriera, la cosa non e' piu' un gran problema, ma tutto oggi passa estremamente in fretta, e' difficile farsi notare [anche se qualcuno va predicando il contrario] e penso che per un giovane musicista di talento sia davvero arduo mettere la testa fuori dalla omologazione del delirio delle uscite discografiche.

AAJ: Un'altra delle tue passioni, si e' scorta tra le righe, e' proprio quella di cui parlavi poco fa per Jimi Hendrix!

TT: Jimi Hendrix e' stato una vera folgorazione e forse oggi e' difficile capire la portata di quello che ha prodotto nel 1967/68 in noi, in me in particolare, l'ascolto della sua musica! Non solo era diversa da tutto quello che c'era stato fino ad allora, ma aveva una valenza enormemente superiore a cio' che il rock aveva prodotto in termini sia di spessore musicale che dal punto di vista "spirituale", per me paragonabile solo all'intensita', alla forza densa della musica di Coltrane da A Love Supreme in poi. Non riesco nemmeno a considerare la grandezza dello strumentista, le innovazioni dal punto di vista "tecnico" di dischi come Axis Bold As Love, peraltro da rivalutare totalmente, o di Electric Ladyland, capolavoro dei capolavori... tutto in Jimi trasudava vita, energia, blues. Un ascolto "obbligatorio" per chiunque voglia dire di volersi occupare di musica, di qualsiasi musica, con qualunque fine.

AAJ: Il "tributato" piu' recente e' pero' stato Ornette Coleman, nel disco Peace Warriors!

TT: Ornette Coleman e' artista la cui musica travalica l'ambito del jazz e a me interessa sempre molto la possibilita' di dire cose mie accanto a cose non mie. Peace Warriors - che e' il primo volume di questa avventura colemaniana - e' uscito per la storica Black Saint, etichetta con cui avevo una sorta di "debito", dal momento che per ben due volte non eravamo riusciti a fare un disco assieme, ma questa volta ci siamo riusciti! Ho scelto un organico con due contrabbassi, due ance e violino, oltre alla batteria: l'idea e' quella di richiamare un "suono" ornettiano [ognuno di questi elementi e' stato usato dal sassofonista nella sua storia sonora].

AAJ: Beh, c'e' pure la presenza del sax contralto...

TT: Si', ho pensato molto a questo, ma credo che Achille Succi possieda un approccio talmente diverso da quello di Coleman, che mi pare che la questione non possa mai porsi in termini di confronto. E poi si integra in modo che mi piace molto con il timbro di Cavallanti. Anche il violino di Emanuele Parrini ha piuttosto il ruolo di richiamare quelle tracce folk, blues, tradizionali, che sono il substrato della musica di Ornette. Per quanto riguarda le composizioni scelte, anche qui ci sono dei riferimenti, "Broadway Blues" ad esempio la suonavamo gia' con i Nexus venticinque anni fa, "A Girl Named Rainbow" e' un tema che e' stato inciso da Andrew Cyrille, cose come "Sadness" e "The Empty Foxhole" sono interessanti per l'uso degli archi, "Feet Music" e' un tributo a New Orleans, "Happy House" rimanda agli Old & New Dreams... poi ci sono temi come "Faithful" che solo Ornette puo' scrivere! La musica di questo disco e' assai meno compartimentata di quanto potrebbe sembrare!

AAJ: Com'e' avvenuto l'incontro con un protagonista del jazz dei nostri anni come William Parker, con cui ha recentemente inciso un disco che sta per uscire?

TT: L'incontro con William Parker mi e' sembrato "fisiologico", nel senso che penso che lui - come un'altra serie di musicisti - possano essere considerati un po' il nostro corrispettivo, o noi il loro, sia dal punto di vista dei riferimenti che degli intenti. Un modo fortemente motivato di "stare" nella musica, con un intento politico in senso lato (ma non troppo...), profondamente radicati nel blues, che anche se traslato non viene mai meno, una sorta di Grande Musica Universale (dal primo disco Nexus: Great White Red Yellow Music) che permea tutto quello che non solo si suona, ma si "pensa" in musica e un costante punto di riferimento a cui guardare [ed eventualmente ritornare] nei momenti bui, duri, di smarrimento, della musica e della vita. Avevamo suonato assieme in Canada in trio la prima volta nel 1999 e lavorare su un progetto che comprendesse riferimenti alla grande tradizione afro/blues e un testo di Amiri Baraka sembrava molto naturale... come la musica che ne e' scaturita, nella quale abbiamo tutti "nuotato" con grande naturalezza, come se avessimo suonato insieme da tanto tempo. Spirits Up Above...

AAJ: Quali altri progetti sono "in cantiere"?

TT: Mi piacerebbe certamente registrare in duo con Tiziana Ghiglioni - artista cui sono molto legato, con cui ho collaborato molto in passato e che ho "ritrovato" recentemente quando mi ha chiamato per il disco The Rotella Variations - e un secondo capitolo del duo con Daniele. Nel "settore tributi", dopo il secondo disco dedicato a Coleman in cui introdurro' tromba, tre fiati, due chitarre e attingero' dal repertorio di In All Languages, di Golden Circle, cosi' come da cose dei primi dischi, ho intenzione di affrontare le musiche di Frank Zappa, dei King Crimson e con i Nexus allargare l'organico e ripensare le musiche di Harry Miller e Thomas Mapfumo. Mi piace poi ricordare il duo con Alessandro Rossi, per la Ebria Records.

AAJ: Che rapporto hai con l'elettronica?

TT: E' un aspetto che mi interessa molto approfondire, anche se il problema alla fine non e' mai il cosa, ma il come! Il secondo disco su Ornette mi sembra l'occasione giusta, continuando il lavoro gia' intrapreso con Andrea Rainoldi, l'importante e' trovare un equilibrio nelle sonorita'.

Foto di Claudio Casanova

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