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Pat Metheny: Tap: John Zorn's Book of Angels, Vol. 20
ByNegli anni è diventato sempre più difficile, se non impossibile, valutare la produzione di John Zorn con i tradizionali strumenti critici: una delle caratteristiche più "geniali" e in un certo senso eversive del sassofonista e compositore newyorkese è infatti certamente quella di avere sottratto progressivamente la propria musica alle traiettorie dialettiche conosciute, attraverso una produzione multiforme e abbondantissima che diventa essa stessa "opera d'arte" o comunque "strategia artistica" prima ancora della musica [spesso bella e interessante] che veicola.
In un certo senso - sebbene con differenti prerogative - si potrebbe fare un discorso analogo per Pat Metheny, che condivide con Zorn non solo il fattore generazionale [il sassofonista ha un anno di più del chitarrista], ma anche l'essere diventato una sorta di "brand" musicale seguito dai fans con particolare devozione.
Alla produzione più "popolare" con il Pat Metheny Group, il musicista ci ha infatti abituato negli anni a frequentazioni meno ovvie, dalle collaborazioni con Ornette Coleman o Derek Bailey, alle sortite noise di Zero Tolerance for Silence, dimostrando una "musicalità" a tutto campo che anche chi non lo apprezza particolarmente non può non riconoscergli.
Unendo i puntini che questo scenario ha disseminato non sarà quindi difficile trovare qualche coordinata significativa per la prima collaborazione tra i due, Tap: John Zorn's Book of Angels, Vol 20, che vede Metheny alle prese con sei temi dallo sterminato "canzoniere angelico" di Zorn che, comme d'habitude, li ha scelti personalmente.
Sovraincidendo molti strumenti, utilizzando l'elettronica e l'Orchestrion che in questi ultimi anni sembra essere al centro di molti suoi pensieri musicali, Metheny piega i temi del collega alle atmosfere che gli sono più congeniali, facendosi sorreggere dalla collaudata batteria di Antonio Sanchez.
Prevedibile quindi che la sensibilità acustica del chitarrista trovi in "Albim" o "Phanuel" il terreno ideale per srotolare tutto il suo lirismo melodico, così come non stupisce che in episodi come "Tharsis" si dia grande spazio a sonorità pesantemente datate come quelle della chitarra-synth.
Se le atmosfere dell'iniziale "Mastema" richiamano scansioni post-rock e con "Sariel" si aprono squarci western-metal, più sorprendente sarà il pianismo percussivo e vagamente "tayloriano" della conclusiva "Hurmiz," in molti tratti sovrastato dalla batteria di Sanchez.
Alla fine ci si ritrova tra le mani un disco con più di qualche ingrediente di troppo, certamente pensato con attenzione e innervato da un rispetto reciproco che si intuisce sincero tra i due musicisti, ma che rischia - al di là delle considerazioni più superficiali - di non aggiungere molto al percorso espressivo dei due musicisti [ma, come dicevamo all'inizio, in realtà questo "aggiungere" può essere letto come un altro ben calibrato tassello all'opera complessiva] e di finire, tra non troppo tempo, come uno dei tanti dischi che alla fine si rischia di riascoltare poche volte.
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