Home » Articoli » Live Review » Südtirol JazzFestival Alto Adige 2025
Südtirol JazzFestival Alto Adige 2025

Varie sedi
Bolzano e provincia
27 giugno6 luglio 2025
Il Südtirol Jazzfestival Alto Adige si conferma un tipico festival "di confine." Manifestazione bilingue, come denuncia la sua stessa denominazione, o meglio tri-lingue per l'uso sistematico anche dell'inglese sul programma cartaceo, nelle presentazioni dei concerti e nelle comunicazioni di servizio, si estende su un vasto territorio soprattutto a nord di Bolzano toccando Bressanone, Brunico, Fortezza, vallate e rifugi d'alta quota, suffragando la sua vocazione paesaggistica e turistica. La programmazione, che previlegia musicisti e gruppi italiani e austriaci, per lo più giovani, è tesa a favorire inedite collaborazioni, accogliendo anche formazioni francesi, belghe, scandinave... Sta di fatto che in questo festival, che replica le apparizioni di alcuni dei gruppi invitati in più sedi, si può ancora vivere l'emozione della sorpresa, assistendo nelle location più impensate a proposte inedite o consolidate, ma sempre significative dell'attualità musicale più trasversale. Quanto alle sedi del capoluogo di provincia, quest'anno si è rinunciato ad allestire il main stage al parco dei Cappuccini, ma, come si può intuire dal mio resoconto volutamente personale e selettivo, tutta la città è stata invasa dagli eventi del festival, coinvolgendo gli spazi pubblici e privati più svariati.
Immancabile la penultima serata che ha visto due delle formazioni più attese, accolte negli spazi dalla Fondazione Antonio Dalle Nogare Stiftung. Il trio italiano Fade In, attivo dal 2018 e già riportato su un notevole CD Clean Feed del 2022, ha confermato un'evoluzione più radicale rispetto alla sua consolidata e personale impostazione. Le sonorità concrete, metalliche o legnose, prodotte dalla batteria di Marco Luparia e dal contrabasso di Pietro Elia Barcellona, il loro procedere dinamico disarticolato, timbricamente mobilissimo, con insistenze ossessive o sospensioni discorsive, non sono state contraddette dall'eloquio dei clarinetti di Federico Calcagno, che hanno per lo più sostato su note spigolose e nette, rifiutando il versante più esplicitamente melodico del fraseggio, salvo inerpicarsi in episodiche sequenze veloci e taglienti di grande efficacia. Sono prevalse quindi una scontrosa astrazione e una visione un po' dura e introversa, vicine alle esperienze performative di certa musica contemporanea. Un'acustica più asciutta, meno alonata di quella della vasta sala, tutta cemento e ferro, che ha ospitato l'esecuzione, avrebbe giovato agli esiti di una proposta tutto sommato d'impronta cameristica, che si avvale del supporto di spartiti ed anche di un sofisticato virtuosismo tecnico, tesi a immaginare una dimensione musicale decentrata e trasversale rispetto ai generi consolidati e alle culture dominanti.
Nell'area esterna della Fondazione, sull'ampia e appartata zona d'ingresso, si è svolto il secondo set della serata. La musica del quartetto cosmopolita The Sleep of Reason Produces Monsters (nome ripreso da Goya), nato alla fine del 2023 ma alla sua prima apparizione italiana, non fa altro che esplicitare ciò che viene dichiarato dalla stessa denominazione del gruppo: una disastrosa cascata sonora ad alto volume, che non lascia intravedere alcuna ragionevole speranza. A creare questa massa greve, ritmata, insopprimibile hanno contribuito soprattutto i tre musicisti addetti ai mezzi elettronici, che con grande sintonia hanno amministrato gli intrecci con comunità d'intenti ed esiti estremi: la britannica Miriam Razaei, anche ai giradischi e coordinatrice del progetto, il nostro Gabriele Mitelli, anche alla pocket trumpet, ed il batterista austriaco Lukas König. Il contralto della danese Mette Rasmussen sembrava quasi impersonare la voce più "tradizionale," con le sue note prolungate e potenti e le sue brucianti accensioni free. È evidente che nel percorso intrapreso si sono enucleate fasi, temi-riff, transizioni, azzeccati abbinamenti strumentaliquello fra i due fiati o quello fra la Raezei e Königfino a raggiungere la conclusione netta ed improvvisa perfettamente all'unisono.
Un'altra proposta di estremo interesse, analoga per appartenenza generazionale, geografica e soprattutto estetica, è stata inserita fra i set notturni al Sudwerk Ca' de Bezzi: il quartetto Emmeluth's Amoeba, pilotato da Signe Emmeluth, anche lei danese e contraltista. Il gruppo, costituito nel 2017, ha creato una musica corposa e rovente, in cui riff feroci e insistiti venivano scanditi con energica precisione da piano, chitarra e batteria, rispettivamente il danese Christian Balvig e i norvegesi Karl Bjorå e Ole Mofjell, tutti strumentisti dotati di notevole personalità. Dal canto suo la leader ha esposto una pronuncia nervosa e guizzante, sostenendo la regia del tutto. Soprattutto nei brani relativamente più pacati, la trama sonora si è fatta più sfrangiata e infarcita di rallentamenti, stop improvvisi all'unisono, cambi di direzione, spunti delicati o giocosi, temi che si sono sviluppati in ampie ed epiche volute... Un ambito sonoro che, se nelle prime battute poteva sembrare ancora di derivazione free, convinto e intenso ma un po' generico, a cominciare dal secondo brano, lungo e articolato, ha rivelato una concezione compositiva ferrea e permanente, modulata con un interplay compatto grazie a una formazione estremamente affiatata.
Ogni solo-performance si basa su composizioni maturate negli anni; l'autore sa più o meno da dove partire e dove arrivare, senza correre il rischio di perdersi, anche se la contingenza del luogo con la sua acustica e della composizione del pubblico con la sua variabile ricettività contribuiscono a conferire sostanza ed autenticità al percorso sonoro ed emotivo dell'interpretazione. Una dimostrazione in tal senso è venuta dai due pregevoli concerti serali ascoltati alla periferia di Bolzano: quello del violoncellista Francesco Guerri e quello della flautista francese Delphine Joussein.
Per Guerri, ritornato al festival bolzanino dopo otto anni, la solo-performance, già documentata su disco nel 2019 con Su Mimmi non si spara!, si è ormai consolidata come la sua forma espressiva più matura, in cui poter esprimere pienamente se stesso. Nella sede delle distilleria Roner a Termeno, anomala ma accogliente ed acusticamente ideale, il violoncellista romagnolo ha sostenuto una prova di grande concentrazione e forza espressiva, personale, convinta e convincente. Un piglio sicuro ha dato corpo ad un senso melodico ed armonico sempre presente, a un procedere dinamico controllato, a volte contrastato. Notevole un episodio in cui le corde dello strumento, preparate con l'inserimento di piccole mollette, venivano arpeggiate e pizzicate con esiti suggestivi.
Contrapposta alla vastità di un capannone della Fiera di Bolzano, la dinamica figura di Delphine Joussein sembrava combattere una lotta impari, ma la dimensione dell'ambiente in realtà si è rivelata un elemento favorevole alla performance, per le sue ampie risonanze, oltre al pertinente impatto visivo fornito da una luce blu e da un fumo diffuso falciati dai raggi dei faretti rotanti. La componente fondamentale della sua musica era invece costituita da una serie molteplice di pedali e interruttori disposti sul pavimento, che l'interprete azionava continuamente ottenendo deformazioni, espansioni, intrecci e stratificazioni inimmaginabili delle sonorità emesse dal suo flauto elettrificato. Ne è risultata una massa sonora densa e inestricabile, una sorta di soverchiante rumore martellante, pur organizzato in un processo narrativo con picchi di grande efficacia, fino a comprendere, come bis, una versione distorta ma vibrante di "Goodbye Pork Pie Hat."
Come sempre si è rinnovata la collaborazione con il Filmclub bolzanino, dove è stato proiettato il film muto Der Mandarin, girato nel 1918 dal regista Fritz Freisler, andato perduto e riscoperto negli Stati Uniti e restaurato fra il 2002 e il 2004. Il commento sonoro era affidato al trio belga De Beren Gierenin scena soltanto il bassista Lieven Van Pee e il batterista Simon Segers, mancando il pianistaintegrato da Dan Kinzelman, da anni beniamino del festival altoatesino che quest'anno ha goduto di quattro diverse apparizioni. La pellicola protoespressionista narra una vicenda moraleggiante che sembra far rivivere in toni semplicistici il fallimento del contratto faustiano. Ottima l'interpretazione musicale dell'inedita formazione, che con ogni evidenza ha visionato attentamente il film per predisporre un commento pertinente, in grado di sottolineare con puntualità e intelligenza le situazioni psicologiche di esaltazione, sconforto, sopraffazione, rivalità e paura che muovono le azioni dei protagonisti.
Della lunga serie di duetti ascoltati, consolidati o improvvisati, vale la pena di soffermarsi sul primo incontro assoluto fra Dan Kinzelman e l'argentina Camila Nebbia, entrambi al sax tenore, che si è configurato come una vera e propria "site specific performance." I meandri scavati nella roccia del Bunker H, illuminati da pochi ma mirati faretti e decorati nelle anse laterali da interventi più o meno recenti di graffitisti, hanno costituito il percorso di una lenta processione del pubblico, in cui i passi trascinati sui sassi e sulla sabbia del pietroso fondale fornivano in sottofondo un pacato bordone. A un certo punto, attirati dalle note di un sax che fungevano da richiamo, si è arrivati alla prima sosta di fronte a un antro in cui la Nebbia, illuminata da un faretto rosso, si esibiva in un assolo "misterioso." In seguito gli ascoltatori, richiamati da Kinzelman, quasi come il "pifferaio magico" della fiaba, sono stati condotti lungo il tunnel fino ad uno slargo, dove i due tenoristi, nel frattempo riunitisi, hanno sviluppato il loro dialogo. La sorprendente conclusione della performance ha visto i due sassofonisti attraversare un piccolo specchio d'acqua gelida, invisibile nel buio, in cui hanno anche immerso le campane degli strumenti smorzandone le sonorità, per poi scomparire definitivamente nell'oscurità.
Se questa è stata la singolare e suggestiva evoluzione fisica della performance, preordinata dai due interpreti in precedenti sopralluoghi, vale la pena ora di riferire l'essenza del loro messaggio musicale. In estrema sintesi la loro improvvisazione è stata accomunata da un approccio omologo, raramente in contrapposizione, che ha opportunamente sfruttato le risonanze della mutevole e irregolare ambientazione; una pronuncia free prevalentemente meditabonda dagli evocativi risvolti melodici a tratti si è esasperata in scabre e contrastate impennate o attenuata in flebili e introversi sussurri.
A Fié allo Sciliar, nella baita Stanglerhof, si è ascoltato il duo Poeji, formato dalla vocalist Enji Erkhem, originaria della Mongolia ma residente a Monaco di Baviera, e dal percussionista tedesco Simon Popp. Le trame ritmiche tracciate da quest'ultimo, che si è avvalso anche di uno strumento a corde battute, simile al cimbalom ungherese, si sono protratte propulsive, timbricamente variate e raffinatissime, ora minute e insinuanti ora più decise ma sempre tenute sotto controllo. Su questo contesto ritmico si sono sovrapposti i vocalizzi d'impronta etnica della cantante, inizialmente per lo più basati su note lunghe e ferme, per poi intonare canzoni popolari dalle inflessioni dolenti o determinate ma anche cariche di speranza. Il connubio si è dimostrato collaudato e di un certo interesse per la sua originalità, anche se è risultata poco pertinente la versione del mingusiano "Duke Ellington's Sound of Love" inserita verso la fine del concerto.
Una particolare sezione, intitolata Jazz Chemistry o anche Sonic Reactions, ha concepito duetti assolutamente improvvisati, abbinando di volta in volta due dei tanti musicisti già presenti al festival in una sorta d'incontro senza rete, in sedi "anomale" e altrettanto improvvisate nel centro di Bolzano. L'obiettivo era quello di sollecitare le alchimie sonore che può sprigionare qualsiasi duo, anche il più improbabile, in un luogo imprevedibile e non deputato alla musica. Si sono così succeduti appuntamenti intesi quasi come una sorta di "incursioni urbane," analoghe per certi versi alle azioni di disturbo realizzate dal gruppo Fluxus, del quale una delle tre mostre allestite proprio questa estate al Museion ricapitola alcuni importanti esempi, ricordando Francesco Conz, vulcanica figura di collezionista, editore d'arte e mecenate.
Dei sette brevi concerti predisposti in questa sezione ho avuto l'opportunità di ascoltarne solo quattro. Nello spazio circoscritto del Rebel Rebel Records, negozio di dischi specializzato in rock e pop più che in jazz, hanno intrecciato la loro improvvisazione il trombonista Filippo Vignato e il chitarrista austriaco Andreas Tausch. Nel loro incontro mattutino i due hanno ricercato una sintonia estemporanea, basata su una "corretta" parità di ruoli che ha portato a pensare analogie melodiche e dinamico-ritmiche, senza affrontare crescendo o decantazioni particolarmente significative.
Fra i libri incombenti della Nuova Libreria Cappelli, non climatizzata, Signe Emmeluth al sax contralto e Kit Downes, questa volta al violoncello anziché al pianoforte, a lui più congeniale, si sono inoltrati in una sperimentazione radicale, ruvida e un po' introversa, che ha lasciato ben poco spazio a una visione positiva e tanto meno a un approccio accattivante, mentre nel centralissimo Waag Infopoint del festival il duo fra il nostro violoncellista Francesco Guerri e il chitarrista austriaco Kenji Herbert ha maggiormente giocato su aspetti melodici e su alterazioni dell'andamento dinamico e sonoro che sembravano evocare variazioni emotive.
L'ambientazione più indovinata si è dimostrata quella in una sala del Südtiroler Künstlerbund, dove Zoe Pia, con i suoi strumenti etnici oltre al clarinetto, si è misurata con la batteria di Lukas König. La parte iniziale, in cui si è snodato un affiatato interplay utilizzando campanacci, launeddas e vari strumenti a percussione, compreso il sensibile drumming di König, ha lasciato il posto a una evoluzione, con la polistrumentista sarda impegnata al clarinetto, che avrei auspicato più estesa e sviluppata in senso melodico. A conti fatti, questa iniziativa di duetti improvvisati, benché lodevole e propositiva, in futuro dovrebbe essere pensata e calibrata con maggiore attenzione, ricercando location più idonee per capienza e condizioni climatiche.
Tags
Live Review
Signe Emmeluth's Amoeba
Libero Farnè
Italy
Bolzano
Marco Luparia
Pietro Elia Barcellona
Federico Calcagno
Miriam Razaei
Gabriele Mitelli
Lukas König
Mette Rasmussen
Signe Emmeluth
Christian Balvig
Karl Bjorå
Ole Mofjell
Francesco Guerri
Delphine Joussein
Lieven van Pee
Simon Segers
Dan Kinzelman
Camila Nebbia
Simon Popp
Filippo Vignato
Andreas Tausch
Kit Downes
Kenji Herbert
Zoe Pia
Comments
PREVIOUS / NEXT
Signe Emmeluth Concerts
Support All About Jazz
