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Rita Marcotulli: Tra Palco, Passione e Jazz Contemporaneo

Mi affascina l'uso di tempi dispari e strutture complesse, ma se l'obiettivo è solo quello di impressionare con la tecnica, si rischia di perdere il senso più profondo della musica
Rita Marcotulli
All About Jazz: Parliamo del suo progetto di questa sera, Autoritratto, un ritorno al piano solo.
Rita Marcotulli: Sì, sicuramente. Chiamo il mio progetto di piano solo Autoritratto perché lo vedo come un percorso, una strada invisibile, un "film invisibile" che fa parte della mia vita e delle mie esperienze. Contiene brani originali, ma anche omaggi a musicisti con cui ho suonato, come Pino Daniele, con cui ho avuto una bellissima esperienza. Include anche le cose che più amo. Questo "autoritratto" racchiude molte esperienze passate di cui sono molto soddisfatta, compreso un omaggio al cinema, la mia seconda passione oltre la musica.
AAJ: Come ricorda il suo periodo scandinavo?
RM: Il periodo scandinavo è stato un momento di grandissima crescita per me. Sono andata lì proprio perché mi affascinava quel tipo di musica. In quel periodo, sebbene ci fossero molti musicisti americani che venivano in Europa, esisteva anche una ricca realtà musicale europea, quella legata all'etichetta ECM. Amavo quel suono, e grazie all'amicizia con Michel Petrucciani, ho incontrato musicisti come Palle Danielsson e il suo mondo. Quella musica era diversa, non così autoreferenziale o basata solo sul virtuosismo, ma cercava di creare qualcosa di nuovo, con una forte enfasi sulla personalità. Chiaramente, la tecnica e il linguaggio sono fondamentali, ma ciò che mi affascinava era la ricerca di una strada personale. Credo che questo sia ciò che rimane di più nella musica: i più grandi sono stati "caposcuola," spesso perché unici nel loro approccio, come Thelonious Monk.
AAJ: Lei ha intrapreso un viaggio musicale molto vario: dal jazz classico a quello appunto nordeuropeo, al pop, fino ai riconoscimenti per le colonne sonore. Questi ambiti diversi fanno parte di un unico percorso o li ha vissuti come esperienze parallele?
RM: Non ci ho mai pensato in termini di settorializzazione o radicalismo musicale. Semplicemente, a me piace la musica bella, senza gerarchie di stile. Sono curiosa e mi piace comporre, e per comporre servono molte ispirazioni: la vita stessa, altre forme d'arte come la pittura, e diversi generi musicali. Ad esempio, la musica indiana, che ho ascoltato molto per via del suo ritmo complesso e delle sue variazioni, che pur essendo diverse dalla nostra musica, richiamano in qualche modo il jazz. Allo stesso modo, la musica brasiliana ha avuto un ruolo fondamentale. La mia prima esperienza dal vivo, a 16-17 anni, è stata con un percussionista brasiliano che suonava con Irio DePaula. Artisti come Joao Gilberto ed Elis Regina sono stati veri e propri punti di riferimento per me. Tutta la musica che ho incontrato mi ha arricchita.
AAJ: Lei ha avuto una carriera straordinaria, iniziata molto giovane, con l'opportunità di collaborare con grandi artisti. Guardando indietro, cosa crede sia cambiato maggiormente per i giovani musicisti, e in particolare per le donne nel mondo del jazz, rispetto ai suoi inizi?
RM: Molto è cambiato, indubbiamente. Quando ho iniziato, non esistevano le scuole di jazz come le conosciamo. Oggi chi decide di intraprendere un percorso per diventare una musicista professionista o un musicista professionista ha facile accesso alla formazione e alle risorse, con un'enorme quantità di materiale disponibile online. Da giovane avevo a mia disposizione solo un percorso formativo classico, e il jazz lo apprendevo principalmente attraverso l'ascolto dei dischi. La mia fortuna è stata quella di incontrare, e suonare, con tanti musicisti leggendari di passaggio. Ad esempio, nel 1989 Billy Cobham dopo avermi sentito suonare mi invitò ad unirmi al suo gruppo per una lunga tournée. Ho collaborato per quindici anni con Dewey Redman. Questo è ciò che spesso manca oggi a chi è agli inizi di una carriera: l'opportunità di apprendere sul campo, suonando con chi è più bravo di te. È lì che avviene la vera scuola, e soprattutto, la possibilità di spaziare tra diversi stili. Personalmente, non ho mai voluto limitarmi ad un unico genere. Credo che esista solo musica bella e musica brutta; ogni esperienza musicale che ho fatto mi ha aiutata a costruire una mia personalità artistica.
AAJ: Ha toccato un punto interessante riguardo ai giovani musicisti. Dal suo punto di vista, quali sono le maggiori differenze che riscontra nei talenti emergenti rispetto ai suoi inizi, in particolare sul fronte della preparazione e dell'approccio musicale?
RM: Oggi trovo che i giovani siano tecnicamente dei mostri. Non ricordo, ai miei tempi, musicisti così preparati dal punto di vista tecnico. Tuttavia, a volte questa preparazione, che è anche un po' la tendenza del momento, può portare a una focalizzazione eccessiva sul virtuosismo fine a sé stesso. L'uso di tempi dispari e strutture complesse mi affascina, ma se l'obiettivo è solo quello di impressionare con la tecnica, si rischia di perdere il senso più profondo della musica. Si può essere bravissimi, ma poi magari si ascolta un disco di artisti che hanno saputo dire qualcosa di unico e si capisce che c'è un altro livello.
AAJ: Quindi, la formazione accademica attuale prepara i musicisti a un livello altissimo, ma poi emerge la necessità di trovare una propria voce?
RM: Esattamente. Le scuole di oggi preparano in modo incredibile, fornendo una concezione molto approfondita del jazz e una preparazione per suonare qualsiasi genere. Prima, invece, si imparava a suonare "sostanzialmente," si avevano opportunità con i grandi musicisti americani e si apprendeva sul campo. Adesso c'è l'Accademia, la formazione è altissima, si deve essere preparati. Però, è poi compito del musicista trovare sé stesso. Molti si trovano a dover affrontare un viaggio interiore o a cercare le esperienze di cui hanno bisogno per sviluppare la propria personalità. Questo è naturale nelle diverse fasi della musica: all'inizio è inevitabile voler dimostrare di saper suonare bene. Ma più si va avanti, più la dimostrazione deve lasciare spazio all'espressione. Il virtuosismo deve essere un mezzo per dire qualcosa, non il fine.
AAJ: Emerge quindi anche la necessità di suonare per vivere e non solo vivere per suonare.
RM: Certo, quello è uno dei motivi per cui anch'io ho fatto tante tournée. Ho suonato con De Gregori e, ancora prima, con Eugenio Bennato, suonando con i Musica Nova e in spettacoli teatrali. È stata una scuola bellissima, come anche l'esperienza di suonare a teatro con Rossella Falk. Ma poi si sente la necessità di tirare fuori qualcos'altro, di mettere l'espressione al primo posto. Ricordo con Pino Daniele: molti dicevano che i suoi giri armonici non erano facili, ma il punto era che lui suonava con altri parametri. Con Pino, ho imparato la sintesi. Nel jazz, a volte si tende a suonare quanto si vuole, ma con lui dovevi "togliere." Magari avevi un solo di dieci o dodici battute, e dovevi riuscire a dire tutto in quel breve lasso di tempo. Suonare un solo e "svuotarlo" è bellissimo, si impara tantissimo. È stata una lezione preziosa.
AAJ: Crede che questo possa essere un messaggio per i giovani musicisti: la curiosità, l'apertura, ma anche la consapevolezza che a volte è necessario scendere a compromessi nella vita del musicista?
RM: Assolutamente sì. Ogni tanto purtroppo si devono fare dei compromessi, anche per il pubblico che magari conosce determinate cose. Spesso si realizzano progetti o omaggi. Ma la chiave sta nel come si fanno questi omaggi. Fare una semplice cover ha meno senso. Se invece si riesce a prendere qualcosa da un'idea preesistente e la si trasforma in qualcosa di proprio, allora diventa un percorso creativo. È un modo per attrarre il pubblico che conosce quel materiale, ma per me è fondamentale anche la ricerca, la capacità di creare qualcosa di veramente tuo, non solo una riproduzione.
AAJ: Lei non è solo una pianista, ha ricoperto diversi ruoli nel mondo della musica, inclusa la partecipazione come giudice al Festival di Sanremo e attivista impegnata con proposte normative nel settore del jazz. Qual è, a suo avviso, la situazione attuale di questo mondo e di cosa ha realmente bisogno?
RM: È un momento un po' difficile. Ci sono tantissimi musicisti bravissimi, e devo essere sincera, sono musicisti molto più aperti dei loro colleghi del passato. Li vedo molto attenti a tanti generi e a tanta musica diversa. C'è una grande apertura che spesso non riscontravo quando suonavo io, dove si sentiva spesso dire: "Ah, ma suona con Pino Daniele, non è jazz!." Una tipica mentalità italiana, perché in America, ad esempio, ci sono tantissimi jazzisti che suonano anche pop. Tornando alla sua domanda su cosa abbia bisogno il mondo del jazz, parlando di musicisti e organizzatori, gli spazi ci sono, ma purtroppo c'è la tendenza a privilegiare la quantità sulla qualità. Questo pesa molto sui giovani che, non essendo ancora conosciuti, fanno molta fatica a suonare nei grandi festival. Per questo ho formato un gruppo di giovani chiamato "Under 29 but Me," per dare loro l'opportunità di farsi ascoltare. Per me è anche una fonte di ispirazione, perché hanno molta più energia.
AAJ: Parlando delle sue colleghe artiste presenti al festival, che cosa l'ha colpita?
RM: Anais Drago è molto brava. Ha il suo mondo, la sua personalità, la trovo molto interessante. Quella è la cosa più importante: la personalità. Infatti, spesso nei miei gruppi chiamo sempre musicisti che in qualche modo sono unici, molto personali. Ad esempio, Israel Varela, un batterista messicano che vive qui e ha integrato il flamenco nel suo stile. È unico nel suo modo di suonare, e questo è ciò che mi affascina di più: non solo la bravura, ma ciò che di personale un musicista porta, come Anaïs.
AAJ: Oltre al progetto con i giovani e Autoritratto, quali sono i suoi prossimi impegni?
RM: Vorrei registrare con "Under 29 but Me," e fare un nuovo album di piano solo. Ho anche un progetto più ambizioso e multimediale, un omaggio a Caravaggio con immagini e testi di Stefano Benni. È un lavoro molto elaborato, ma da compositrice mi ispira moltissimo.
AAJ: Una curiosità sul suo concerto di stasera: il piano solo è un'esperienza molto intima e diretta, basata sull'improvvisazione. Sarà interamente improvvisato?
RM: Assolutamente sì. Sono una che vive di improvvisazione. Non so mai esattamente cosa suonerò prima di andare sul palco.
AAJ: C'è una tendenza, in alcuni ambiti, a suonare trascrizioni di improvvisazioni storiche, come quella del Koln Concert di Keith Jarrett. Mi riferisco ad esempio a quello che il pianista Cesare Picco ha deciso di presentare al Piano City Milano. Cosa ne pensa di questo approccio alla musica e all'improvvisazione?
RM: Credo che sia un progetto interessante per coinvolgere il pubblico. Però, è un'operazione molto complicata. Ci sono stati altri pianisti che hanno suonato trascrizioni di Jarrett, ma fare le improvvisazioni di qualcun altro non ha senso, almeno in ambito improvvisativo. È come se si diventasse un interprete, un po' come nella musica classica, ma nel jazz l'improvvisazione è qualcosa di intrinsecamente personale. Thomas Enhco, un bravo pianista francese che ha fatto un progetto simile, mi ha detto che Jarrett stesso gli ha consigliato di improvvisare le sue cose e di non cercare di imitarlo. Non so come sarà il progetto di cui parla Picco, ma è un approccio rischioso. L'improvvisazione è un salto nel buio, un atto di immersione totale che include anche le paure e gli errori. Come diceva Picasso, "Se sai esattamente quello che andrai a fare, che senso ha farlo?." Questo racchiude perfettamente il senso del jazz.
AAJ: Infine, parliamo del rapporto con la tecnologia. Il suo progetto multimediale dimostra un'interazione con altre arti. Cosa pensa dell'evoluzione della tecnologia e dell'intelligenza artificiale in musica, soprattutto per quanto riguarda l'improvvisazione e la produzione?
RM: Non sono negativa riguardo all'intelligenza artificiale. Credo che, se usata nel modo giusto, possa essere un aiuto in più. La paura che l'intelligenza artificiale possa eliminare la creatività umana, secondo me, non è fondata. Ho provato con mia figlia a usare l'intelligenza artificiale per creare canzoni: è divertente, ma le canzoni generate sono collage di cose già fatte, non c'è nulla di originale. L'originalità, ciò che non si è mai sentito, è ciò che credo l' intelligenza artificiale non possa replicare. Non so come si evolverà l'improvvisazione con l' intelligenza artificiale, mi incuriosisce e mi piacerebbe esplorare le sue possibilità. Certo, puoi dire all'intelligenza artificiale di fare un pezzo in stile Bach o pop, ma l'input umano è sempre fondamentale. Una persona è diventata milionaria creando quadri con l'intelligenza artificiale, ma se lui non avesse dato gli input, l'intelligenza artificiale non avrebbe fatto nulla. C'è sempre l'uomo dietro la nascita dell'opera e chi la riceve.
AAJ: E per quanto riguarda lo streaming e l'uso dell'intelligenza artificiale nella produzione musicale, con playlist che includono brani generati artificialmente?
RM: Questa è l'unica cosa che mi preoccupa. C'è un pubblico, la massa, che ascolta ciò che viene proposto, ad esempio in televisione. Se il livello si abbassa costantemente, se tutto si impoverisce e diventa più superficiale, il pubblico potrebbe non essere più in grado di riconoscere la vera qualità. È come nella letteratura o in altre arti: se tutto diventa meno profondo, la capacità di discernere viene meno. Però, nel concerto dal vivo, la situazione è diversa. C'è il corpo, l'energia che possiamo trasmettere alle persone. Una macchina è perfetta, ma come diceva Oscar Wilde, "Per essere perfetto gli mancava un difetto." Se siamo tutti macchine quantizzate, cosa comunichiamo? Dobbiamo prenderci cura sempre di più di tutti i nostri difetti, perché sono la nostra umanità.
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