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Paolo Fresu: Kind of Miles

Courtesy Pannonica
Teatro Comunale
Bolzano
24-27 ottore 2024
La storia del jazz si alimenta di grandi passioni, di scoperte e di profonda stima. Tutti i musicisti hanno avuto una folgorazione, o meglio una serie continua di folgorazioni. Ci limitiamo a citare come esempio quella di Duke Ellington per Sidney Bechet, riportata nella sua celebre autobiografia: "Impossibile dimenticare la prima volta che lo sentii suonare allo Howard Theatre di Washington, attorno al 1921. Non avevo mai sentito nulla di simile. Per me erano suoni e concerti del tutto nuovi." Bechet aveva ventiquattro anni ed Ellington ne aveva due meno di lui.
Frutto di una folgorazione è questo Kind of Miles: il terzo lavoro di Paolo Fresu in cui la musica entra come protagonista nel teatro, dopo Tempo di Chet e Tango Macondo. Senz'altro riscuoterà il successo ampio già riservato ai due spettacoli precedenti, ma in questo caso, sia per il calibro del personaggio a cui è rivolto il tributo, che per il coinvolgimento emotivo del suo autore, il lavoro rappresenta una prova importante e impegnativa. È vero, anche Chet Baker ha lasciato un'impronta forte nella vicenda artistica e sensibile di Fresu, ma nel caso di Miles Davis l'impresa si presentava senz'altro più complessa, i livelli di empatia ben più stratificati e interrelati.
Sul palco del debutto a Bolzano, abbiamo conosciuto tra l'altro la vicenda dell'incontro "mancato" di Fresu con Davis: a Terni nel 1984, quando gli organizzatori avrebbero voluto presentarglielo, ma lui se la diede letteralmente a gambe, assalito da un'accelerazione incalzante del battito cardiaco, che non riusciva a controllare. Così, il ventitreenne entrato da pochi anni nel mondo del jazz fece sfumare un'occasione mai più recuperata. Cosa della quale il sessantatreenne di oggi certo si rammarica.
Lo spettacolo, prodotto come i due già citati dal Teatro Stabile di Bolzano con la regia di Andrea Bernard, percorrerà a tappeto la Penisola nei prossimi mesi, toccando tra l'altro Torino, Milano, Trento, Bologna, Genova, Trieste. Si tratta di una proposta teatrale in forma di concerto, dove il monologo di Fresu si alterna e si confronta con i suoni, mentre sull'ampio fondale i dettagli di celebri scatti e ritratti si fondono a plastiche elaborazioni grafiche digitali, create da Marco Usuelli e Alexandre Cayuela. Sfruttando la tecnologia anche per captare in tempo reale relazioni e reazioni neuronali dei protagonisti.
Mentre nell'allestimento di Tempo di Chet l'aspetto teatrale e l'ambientazione scenografica avevano un ruolo considerevole, in questo caso la scelta è quella di dare spazio alla musica e al monologo di Fresu, da lui stesso scritto. Si tratta in realtà di un costante, penetrante, informale dialogo alla ricerca di Miles, della sua personalità complessa, in perenne esplorazione. Il tono è quello confidenziale di chi, con discrezione, scava nella biografia e nei segreti di un proprio mito, mescolandone le vicende con aspetti della propria esperienza artistica e umana.
Per mettere in scena musicalmente questi contrasti e palesarne la ricchezza sublime, la capacità del Principe della Tenebre di essere sempre sé stesso, pur nel mutamento costante, Fresu ha collocato sul palco due formazioni che si specchiano e a loro volta si intrecciano. Come il nero e il bianco nella musica afroamericana. Come l'immagine celebre della copertina di Bitches Brew. Da un lato si illumina la parte elettrica, fisica, muscolare, con Bebo Ferra alla chitarra elettrica, Christian Meyer alla batteria, Federico Malaman al basso elettrico, Filippo Vignato al trombone e agli effetti elettronici. Dall'altro ci sono le ombreggiature e il dondolio ritmico della musica acustica, con Dino Rubino al pianoforte e Fender Rhodes, Marco Bardoscia al contrabbasso, Stefano Bagnoli alla batteria. Una mescolanza di musicisti che frequentano costantemente il mondo di Fresu e di nuove entrate, in perfetta osmosi.
Il contrasto è impersonato in modo particolare dalle due batterie e dai due bassisti, che incarnano tali approcci su versanti differenti, pur con la presenza dello stesso leader, in funzione naturalmente connettiva. L'alternanza tra le atmosfere musicali procede sulla traccia della narrazione, si adatta al carattere degli episodi toccati. Questi, a loro volta, sono cuciti insieme seguendo trame rapsodiche, non legate alla cronologia, mescolando sapientemente aspetti legati alla vicenda musicale e discografica con scorci di vita quotidiana. In qualche episodio tutti i musicisti si uniscono, con risultato di forza trascinante.
Nella narrazione, sono degne di riguardo le considerazioni scaturite dalla sensibilità del musicista che osserva un altro musicista: il segno più profondo e intimo del suono di Davis, ad esempio, secondo Fresu rimasto integro nel corso del tempo. O la postura con la campana dello strumento rivolta verso il basso, alla ricerca di un suono terreno, denso. Lo stesso Fresu distilla nella musica il proprio suono, il canto interiore del suo personale omaggio.
La sequenza dei brani nello spettacolo non segue dunque la stessa separazione tra Shadows e Lights (il Nero e Bianco di cui si parlava innanzi), come declinato nel doppio CD pubblicato dalla Tûk Music nella data del debutto teatrale con lo stesso titolo, Kind of Miles. Una scelta senz'altro dettata anche dall'esigenza di alternare il lavoro dei musicisti sulla scena, ma che funziona perfettamente, nella sua coerenza dialogica con il testo. Classici del repertorio di Davis (ma non brani suoi), tra cui "'Round Midnight," "Autumn Leaves," "Time After Time," "It Never Entered My Mind" si alternano a pezzi di Fresu e dei musicisti coinvolti, spesso scaturiti dalle suggestioni, da spunti ritmici, da inflessioni, da frammenti melodici di Miles.
Un lavoro prezioso. Anche di forte valore divulgativo per chi volesse capire certi meccanismi che stanno alla base della creazione: nel jazz, in Miles e nell'arte musicale del nostro tempo in generale. Con musicisti che hanno offerto generosamente spunti personali in modo pregevole.
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