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La parola a Tim Berne

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Non c'è nulla di male nel voler vendere - e quindi diffondere - la propria musica. Diversamente un dato processo di comunicazione risulta monco.
Il suo ultimo album, Snakeoil, sta convogliando su di lui nuove e pressoché plebiscitarie attenzioni, vuoi perché uscito per la ECM (il primo, a suo nome, per l'etichetta bavarese), vuoi perché si tratta di un'opera veramente notevole. Lui, Tim Berne, si è presentato a fine marzo a Bergamo Jazz alla testa del quartetto protagonista del lavoro, offrendone una versione live che non ha fatto che confermare le good vibrations provate all'ascolto del CD. Il quale CD si avverte una volta di più come inequivocabilmente suo, però con qualcosa di diverso dal solito: un tono più rilassato (parzialmente, si capisce, perché una tensione a tratti quasi febbrile è connotato troppo radicato nella musica del sassofonista di Syracuse per scomparire d'un colpo), quasi cameristico, con un aplomb, una compostezza anche formale (non solo strutturale, quindi: quella non è mancata mai), che lo rendono quanto mai prezioso e illuminante.

Una data perentorietà, quel tono denso, spigoloso, a tratti quasi lancinante, non mancano certo nel progredire dell'alto (cui dà per più versi manforte la batteria di Ches Smith), laddove il piano di Matt Mitchell e i clarinetti di Oscar Noriega tendono a raffreddare, a smagrire, a decongestionare. Il tutto nello sdipanarsi di un percorso dinamicamente articolato come non mai.

Qualche ora prima del concerto bergamasco, abbiamo preso la palla al balzo per sottoporre Berne ad alcune domande riguardanti il disco in oggetto così come passaggi vari della sua intera parabola artistica. Eccone il resoconto.

All About Jazz: Certe differenze rispetto al passato che, dal di fuori, si colgono in Snakeoil sono avvertite anche da te? Sono volute? Fino a che punto, concependo il lavoro e poi registrandolo, hai maturato una data consapevolezza in questo senso?

Tim Berne: Tutte le volte che entro in studio per incidere un nuovo album mi ripropongo di fare qualcosa di differente rispetto ai precedenti. In questo caso specifico, oltretutto, il mio ultimo disco in studio risaliva addirittura al 2004, ai tempi di Hard Cell, con Craig Taborn e Tom Rainey. Dopo di allora ho realizzato solo album live, che sono una cosa sempre molto diversa da una registrazione in studio. Non va poi sottovalutato il fatto che mi sono trovato a lavorare con Manfred Eicher, in un ottimo studio, con un ottimo pianoforte, un suono molto chiaro. C'erano, insomma, tutte le condizioni per creare qualcosa di significativo. In particolare m'interessava realizzare un disco con più scrittura, una presenza compositiva più marcata del solito. Un disco un po' speciale, insomma. Ci tenevo particolarmente a restituire una fotografia il più fedele possibile di quello che, creativamente parlando, sto vivendo in questo preciso momento, soprattutto - come dicevo - sul piano compositivo e in considerazione di tutto il tempo intercorso dal precedente album in studio. Oltretutto Manfred Eicher ha una grande cultura anche in ambito classico, per cui c'era un motivo in più per compiere questo tipo di scelta.

AAJ: Alcuni elementi saltano particolarmente all'occhio. Il primo è l'assenza del contrabbasso, una strada che peraltro tu percorri già da alcuni anni. Partendo da quale intenzione specifica?

T.B.: Ho fatto questa scelta, anni fa, anzitutto per eliminare il concetto tradizionale di sezione ritmica, con tutti i cliché che inevitabilmente ne conseguono, dando più spazio e maggiori responsabilità alla batteria, e contemporaneamente mirando a una tessitura del suono più paritaria, che nascesse all'interno del gruppo senza esser troppo vincolata dagli strumenti suonati da ciascuno di noi. È un fatto anzitutto di dinamiche interne alla musica.

AAJ: Quanto hai appena detto è l'assist ideale per introdurre il secondo elemento distintivo che si coglie in questo lavoro, che personalmente - almeno - mi ha fatto venire in mente il nome di Jimmy Giuffre (cosa mai accaduta, in passato), per certe temperature, un clima per ampi segmenti più compassato, quasi cameristico, in particolare nell'uso del clarinetto da parte di Oscar Norriega, il quale sembra aver ascoltato con una certa attenzione non solo Giuffre, ma tutto un dato clarinettismo classico...

T.B.: Questo di sicuro.

AAJ: Però, in più, quanto hai appena detto rimanda a maggior ragione a un musicista come Giuffre, che è stato in qualche modo il primo a utilizzare con costanza - di fatto a codificare - accostamenti strumentali del tutto inusuali, forse inauditi, creando trii senza batteria, e almeno in un caso - con Jim Hall e Bob Brookmeyer - anche senza contrabbasso. Senza dimenticare il trio con tromba (Shorty Rogers) e batteria "melodica" (Shelly Manne).

T.B.: Certamente io amo questo tipo di musica, e altrettanto certamente Manfred Eicher è stato molto segnato da artisti come Giuffre o Paul Bley. La differenza più evidente rispetto alla mia musica - quella di Snakeoil in particolare, visto che è di questo che stiamo parlando - è che qui le composizioni sono più complicate, le trame più intricate. Semmai c'è maggiore affinità sul piano della sensibilità. In realtà, concependo e registrando il disco, non ho pensato a tutto ciò, però trovo questa tua chiave di lettura molto interessante.

AAJ: Terzo e ultimo elemento, visto che hai citato Manfred Eicher: ha contato, per la filosofia estetica del disco, che lo stesso dovesse uscire su ECM?

T.B.: Con l'approccio generale sì, potrebbe anche essere, però in buona sostanza se tu confronti i recenti ECM di Michael Formanek The Rub and Spare Change, a cui partecipo anch'io, o il piano solo di Craig Taborn, Avenging Angel, con Snakeoil, ti accorgerai con facilità che le differenze sono notevoli.

AAJ: Un particolare che salta all'occhio scorrendo la tua discografia è l'alternanza, per grandi periodi, fra produzioni su etichette autogestite, tipo l'iniziale Empire o la più recente Screwgun, e per grandi labels, compresa la CBS/Columbia. Ciò significa che hai avvertito precise limitazioni della tua libertà artistica quando non hai potuto gestire in prima persona la tua musica?

T.B.: Non è tanto un discorso di libertà in senso stretto. Non - per fare un esempio - nel mio rapporto con la JMT, di cui ho sempre gradito la qualità dello studio, del suono, la stessa autonomia di cui godevo nell'esprimere la mia musica, mentre non avvertivo altrettanto entusiasmo, altrettanta passione, nel promuoverla, né abilità nel commercializzarla. Erano soddisfatti del prodotto, ma poi non lo seguivano adeguatamente, per esempio venendo con me in tour. Alcune fasi della catena produttiva erano carenti. Per questo ho creato Screwgun, perché pensavo che si potesse lavorare meglio sulla mia musica: tutti i processi erano sotto il mio diretto controllo, e così pure la comunicazione verso l'esterno, verso il pubblico. Lavorare con personaggi come Steve Barron, artista visuale, e David Torn, produttore, è stato molto gratificante, anche divertente. Purtroppo, però, con gli anni 2000 tutto è cambiato: meno concerti, molti meno dischi venduti, perché si ha ormai un'idea della musica come di qualcosa di libero, che non è necessario pagare. Per questo ho voluto provare qualcosa di diverso, e quando Manfred Eicher mi ha chiamato ho accolto con piacere questa opportunità. Lavorare con lui significa rapportarsi a una persona di grande sensibilità artistica ma anche commerciale, uno che capisce come sia importante creare quanto vendere. Non c'è nulla di male nel voler vendere qualcosa che si è creato. Diversamente il processo di comunicazione di cui parlavo prima risulta monco.

AAJ: Andiamo ancora più indietro: come mai ti sei deciso a suonare il sassofono all'età, tutto sommato non verdissima, di diciannove anni?

T.B.: Si è trattato di una pura coincidenza: un amico mi offriva un sassofono a un prezzo molto vantaggioso e io ho deciso di comprarlo, tutto qui. La giudichi un'idea frivola?

AAJ: No di certo. Però mi viene spontaneo chiederti: e se ti avesse proposto un trombone, oggi avremmo un Tim Berne trombonista?

T.B.: No, non penso...!

AAJ: Andiamo sempre più indietro: mi risulta che da ragazzo fossi molto sensibile alla black music di artisti, in particolare, come Aretha Franklin o James Brown...

T.B.: Certo, e non solo loro. Anche Sam & Dave, per esempio. Ciò dipende dal fatto che avevo due fratelli, più grandi di me di sei e quattro anni: uno ascoltava quel tipo di musica, l'altro aveva un sacco di dischi dei vari Don Cherry, Jimi Hendrix, Sun Ra... In casa mia, quindi, quand'ero ragazzo, si ascoltava questo mix di musiche, che hanno avuto tutte un peso nella mia formazione.

AAJ: Ti faccio un altro nome, molto meno noto, che si legge nella tua biografia: Vinny Golia, musicista quanto mai sottovalutato con cui hai collaborato a più riprese nei primi anni della tua carriera.

T.B.: Si tratta di un grande compositore e polistrumentista. Sicuramente sottovalutato, condivido. Tuttavia lui abitava a Los Angeles e io a Brooklyn, per cui abbiamo inciso più volte insieme ma di fatto non ci siamo mai frequentati.

AAJ: Penso che analogamente, anzi a maggior ragione, siano andate le collaborazioni italiane con Enten Eller e Umberto Petrin.

T.B.: In effetti sì: le ricordo come belle esperienze, però è passato tanto tempo e si è trattato sempre di registrazioni molto fugaci.

AAJ: E lavorare con Giovanni Bonandrini, com'è stato?

T.B.: Gli sarò sempre riconoscente per avermi offerto la chance di incidere quando potevo essere al massimo una promessa, che però quasi nessuno conosceva. È stato un bel gesto, che ho molto apprezzato.

AAJ: Un ultimo nome: John Zorn. Avete suonato più volte insieme tanti anni fa e poi non più. Come mai? Siete ancora in rapporti?

T.B.: Non è questione di essere o meno in rapporti: abbiamo intrapreso strade molto diverse, per cui ognuno segue molto semplicemente la propria.

Si ringraziano Enzo Boddi e Marie Ferré.

Foto di Alberto Bazzurro (la quarta) Claudio Casanova (tutte le altre).

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