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Intervista a Tord Gustavsen

... mi considero più un "song writer" che un "compositore". Sono ancora troppo interessato ad esplorare i piccoli dettagli e le sfumature più sottili dell'interplay...
Ogni nota nella sua musica è essenziale e indispensabile al tempo stesso, una continua ricerca del "minimo" come forma solida dell'arte musicale. Una ricerca melodica che fonde elementi del folk scandinavo a musiche etniche di derivazione africana e caraibica. Lui è Tord Gustavsen, pianista norvegese tra i più affermati e interessanti della scena jazz europea contemporanea.

Vincitore, a marzo di quest'anno, del premio Spellemannsprisen per il jazz (Grammy Award norvegese), è salito alla ribalta internazionale nel 2003 grazie a Changing Places, album di debutto del suo trio per l'etichetta ECM.

È nato a Oslo il 5 ottobre 1970 e si è formato nel leggendario Jazz Department del Conservatorio di Trondheim, approfondendo però anche aspetti teorici della musica con un dottorato in Musicologia - incentrato sulla psicologia dell'improvvisazione, la teoria musicale e l'estetica generale - presso l'Università di Oslo. La sua precedente formazione accademica, con studi in sociologia, psicologia e storia delle religioni, è così confluita negli studi musicologici e, affiancata all'intuitività del musicista, lo rendono oggi un musicista di grande personalità e spessore, in grado di affiancare l'insegnamento della musicologia all'università di Oslo all'attività di musicista di levatura internazionale.

Cresciuto al fianco della cantante Silje Nergaard, ha iniziato la carriera solistica nel 2003 con il suo trio e, dopo una trilogia terminata nel 2007 con Being There, ha deciso di ampliare il suo ensemble. Proprio con questo nuovo ensemble, estensione naturale del precedente trio che vede l'ingresso del sassofonista Tore Brunborg e della voce straordinaria di Kristin Asbjørnsen, ha di recente pubblicato Restored, Returned. sempre per la ECM.

All About Jazz: Come nasce Tord Gustavsen pianista?

Tord Gustavsen: Molto presto, mio padre suonava il pianoforte. Suonava molto a casa e io mi sedevo sulle sue ginocchia: è così che abbiamo iniziato ad improvvisare insieme, spesso mi raccontava storie e suonava delle vere e proprie ninnananne. Ho iniziato così, mi sono trovato dentro la musica come in un campo da gioco e d'esplorazione, senza dovermi preoccupare di evitare le note sbagliate...

AAJ: E al jazz come sei arrivato?

T.G.: Dipende molto da cosa si intende per jazz. Ho iniziato a improvvisare molto presto, ma se intendi la tradizione del jazz afroamericano in senso stretto, direi che ho iniziato a farlo solo nel periodo della tarda adolescenza. Ho suonato musica classica, composto musica mia, nel corso degli anni ho suonato molto all'interno delle chiese e con i cori, e poi, quando ho iniziato a scoprirlo, il passaggio al jazz è stato molto naturale...

AAJ: Quali sono i musicisti che hanno contribuito maggiormente alla tua crescita artistica, direttamente (con cui hai suonato o studiato) e indirettamente (a cui ti sei ispirato)?

T.G.: Il ventaglio dei musicisti e degli stili che hanno influenzato il mio percorso musicale è molto ampio. Senza dubbio Keith Jarrett e Bill Evans, come del resto larga parte dei pianisti della mia generazione, ma anche James P. Johnson e altri musicisti più storici del blues, e poi pianisti scandinavi come Jan Johansson e Jon Balke. Ma non solo pianisti, un ruolo fondamentale lo hanno avuto anche grandi cantanti del canone jazz, in particolare Bessie Smith e Billie Holiday, a cui si ispira il lirismo della melodia e dell'interpretazione nella mia musica. Wayne Shorter è stato illuminante: la sua originalità, il suo modo di dire solo le cose giuste al momento giusto, il suo fraseggio, le sue composizioni... Poi c'è tutta la storia della musica classica europea, il barocco, l'impressionismo e il neoclassicismo in particolare hanno significato molto per me. E la musica folk di molte parti del mondo - in particolare dell'Africa occidentale e della Scandinavia... È sempre molto difficile rispondere in breve a una domanda come questa, bisogna dare un senso a tutti gli influssi di modo che si traducano in risultati personali del qui e dell'ora - fondere nella propria voce individuale l'apertura post moderna e il credo romantico con onestà artistica - cercando di dire qualcosa che conti davvero invece di parlare a vanvera, restituendo il più possibile il senso di sacralità della musica.

AAJ: Quando e perché hai deciso di iniziare con il trio a tuo nome, dopo anni come band di supporto di Silje Nergaard?

T.G.: Ho suonato con il trio nello stesso periodo in cui ho collaborato con Silje Nergaard, è solo che ci abbiamo messo un po' prima di registrare. Ho sempre pensato che l'accompagnamento e l'interazione fossero tanto importanti quanto l'esperienza solistica, quindi non pensavo fosse così importante realizzare un grande progetto a mio nome. L'esigenza di farlo è emersa gradualmente, man mano che ci rendevamo conto di avere cose da dire come trio e che le mie composizioni strumentali crescevano: un giorno ho semplicemente capito che era giunto il momento di registrarle.

AAJ: E quando hai pensato che fosse giunta l'ora per questa successiva evoluzione da trio a quintetto?

T.G.: Dopo aver completato una trilogia di album e un lungo tour in diverse parti del mondo per sei, sette anni, ho voluto allargare l'organico, invitando alcuni dei musicisti più cari con cui collaboravo in altri progetti. Cercavo un'evoluzione che andasse oltre il trio, in un contesto a mio nome e con composizioni mie. Ho scelto le due voci più originali e interessanti che conoscevo, Tore Brunborg ai sassofoni e Kristin Asbjørnsen alla voce. E poi ho coinvolto Mats Eilertsen, un bassista dalle grandi doti, che sa unire un accompagnamento ritmico solido e sensuale a guizzi di grande creatività e originalità. Tutti e tre sono solisti eccellenti con progetti e composizioni a loro nome, ma trovo che siano altrettanto dotati per suonare in un ensemble come questo, in cui tutti si devono mettere a disposizione della musica e al suo stato d'animo generale. Questa combinazione di forti individualità e umile e rispettoso approccio all'interplay è quello che stavo cercando.

In generale, però, lo sviluppo del line-up non ha dato vita a un profondo cambiamento, si è trattato di un'estensione naturale del mio lavoro precedente. La nuova formazione può lavorare con diversi assetti - in duo, trio, quartetto e quintetto - in larga parte con lo stesso repertorio e con alcune cose dedicate a ciascun diverso assetto. Mi piace molto questa situazione: quattro band e, in sostanza, un unico progetto.

AAJ: Cosa ha comportato, sotto il profilo compositivo, passare dal trio al quintetto?

T.G.: L'atteggiamento di base resta invariato. Come dicevo prima molti brani possono essere comuni a tutte le versioni di ensemble. Naturalmente la presenza della voce implica la possibilità di aggiungere testi, con implicazioni non più meramente musicali. Inoltre puoi pensare di dare maggior peso al pensiero polifonico (improvvisazione e composizione), e da qui scaturiranno maggiori interazioni, anche su più livelli. Ma mi considero più un "song writer" che un "compositore". Sono ancora troppo interessato ad esplorare i piccoli dettagli e le sfumature più sottili dell'interplay, e a costruire grandi forme forgiate all'istante con l'ensemble, sulla base di composizioni che sono spesso piccoli elementi composti, dotati di buona melodia - piuttosto che a comporre con aspirazioni sinfoniche o usando la reale forza del quintetto per tutta la durata dell'opera. Non a caso, infatti, il nuovo album è molto più un'esplorazione del duo, del trio e del quartetto all'interno del quintetto, che non un utilizzo a pieno del quintetto completo.

AAJ: Hai detto spesso che le cantanti hanno influenzato il tuo ruolo di musicista e hanno avuto un impatto significativo sul tuo modo di costruire le linee melodiche, puoi spiegarlo meglio?

T.G.: Probabilmente questa cosa va collegata alla mia passione di dar vita a un mondo di sfumature ed emozioni in ogni singola riga della partitura, come le migliori cantanti riescono a dare grande densità ad ogni singola nota. Per mantenere la musica vicinissima al respiro umano, anche se sto suonando uno strumento rigido e temperato, cerco di far "cantare il pianoforte": è questa la metafora di base che adotto per fare musica.

AAJ: Come avviene il tuo processo compositivo?

T.G.: Si tratta di diversi processi, a volte le idee mi vengono in mente quando sono in aereo, o quando sono fuori che cammino nel bosco, o scaturiscono da qualcosa di concreto che mi succede. Altre volte le idee mi vengono mentre sono al pianoforte. L'importante dunque non è il dove e il quando, l'importante è ripetere, coltivare e vivere quell'idea per un po,' vedere dove va, se è abbastanza forte e sostenibile nel tempo. Poi, se si tratta di una composizione per la band, la porto alla band e la proviamo insieme brevemente prima di suonarla fuori, in concerto. L'arrangiamento evolverà e si svilupperà, ogni volta diverso, in ogni performance.

AAJ: Quanta composizione e quanta improvvisazione nella tua musica?

T.G.: È un equilibrio sottile, entrambi gli aspetti sono molto importanti ed è impossibile dire dove finisca l'uno e inizi l'altro. Curiamo la melodia e cerchiamo di definirla ripulendola da orpelli e riducendola all'essenziale - in questo siamo quasi come un gruppo pop. Ma così facendo diventano possibili piccole improvvisazioni - sfumature nel modo di suonare un brano, nel porre l'accento su questa o quella nota, ecc. Ma in linea di principio si tratta di forme e arrangiamenti in un procedimento aperto, l'improvvisazione si manifesta a questo livello della musica, e questo ci rende davvero più "liberi" rispetto a molte altre band del mondo del jazz. Insomma, sento che riusciamo a combinare in modo del tutto particolare due approcci apparentemente opposti, uniti da un qualcosa che ci sembra essere perfetto per questa band.

AAJ: Hai scelto prima i versi di W.H. Auden o la voce Kristin Asbjørnsen, per questo nuovo lavoro?

T.G.: Nel corso degli anni ho lavorato molto con Kristin. Abbiamo suonato in duo e quartetto negli anni '90, e sono stato molto contento della naturalezza con cui siamo riusciti a restaurare questa collaborazione. Questa volta la poesia è venuta prima. Durante un giorno di pausa da un tour del trio, un paio d'anni fa, sono capitato in una libreria di Oxford e ho iniziato a leggere alcune poesie di Wystan Hugh Auden: lo stimolo della sua poesia mi ha fatto venire immediatamente delle idee per delle melodie. Poco dopo ho iniziato a sentirmi nella testa la voce di Kristin con quelle idee... e ho capito che dovevo invitarla nel progetto.

AAJ: Kristin è piuttosto atipica per l'estetica ECM. Come ha reagito Eicher alla tua proposta di virare così marcatamente verso il blues?

T.G.: A Manfred è piaciuto molto come canta Kristin, e in studio durante la registrazione abbiamo avuto un'interazione molto interessante e soddisfacente. Concordo: Kristin ha un approccio un po' diverso rispetto alla maggior parte dei cantanti che hanno lavorato con ECM, è più influenzata da blues e gospel, ma la sua originalità e la sua tecnica vocale, affiancate alla purezza e alla sincerità artistica, la fanno rientrare a pieno titolo nel profilo ideale di ECM.

AAJ: Che cosa rappresenta per te l'aver vinto lo Spellemannsprisen proprio con questa nuova band?

T.G.: È stato un bel riconoscimento, una sorta di lasciapassare di buon augurio per il viaggio musicale che abbiamo intrapreso. È stato bello riceverlo, ovviamente, ma se pure non fosse arrivato non sarebbe stato un grosso problema, e saremmo andati avanti allo stesso modo...

AAJ: Pensi che la collaborazione con Trio Mediaeval avrà un seguito e/o confluirà in un disco?

T.G.: Mi auguro che vi sia modo di suonare di nuovo assieme. Il materiale che ho scritto per questa collaborazione è qualcosa che mi sento ancora dentro, estremamente intimo e personale, e spero di poterlo sviluppare quando sarà il momento giusto.

AAJ: Hai mai pensato di introdurre l'elettronica nei tuoi lavori?

T.G.: Direi proprio di no. Rispetto e apprezzo molto gran parte della musica proveniente dalla scena elettronica, ma io sono sicuramente un musicista acustico. C'è ancora tanto da esplorare con il pianoforte acustico, questa resta la mia missione...

AAJ: E come ti sei appassionato alla musicologia?

T.G.: Beh, oltre ad essere un musicista per lo più intuitivo ho anche un lato accademico in me, che deriva dagli studi in sociologia, psicologia e storia delle religioni. Quindi è stato abbastanza naturale sviluppare l'interesse per un approccio alla musica anche dal punto di vista teorico. E poi sono molto più interessato agli aspetti centrali della musicologia, e la ricaduta su filosofia, psicologia e gli studi recenti in materia di percezione e suono, a dispetto della solita ricerca storica del jazz.

AAJ: Sei molto coinvolto nella musicologia, soprattutto nella psicologia e nella fenomenologia dell'improvvisazione. Che cosa hai scoperto attraverso la tesi del tuo dottorato?

T.G.: È una domanda un po' complessa per una breve intervista come questa. L'obiettivo principale della tesi era esplorare l'intenso dilemma che sorge quando si suona, tra necessità di trasporto emotivo e necessità di controllo. Bisogna respirare in intima vicinanza con la musica, ma averne anche una certa distanza o prospettiva che consenta di analizzare quello che sta accadendo, e fare delle scelte nell'improvvisazione. Serve una prospettiva per comprendere e vivere la musica come un dispiegarsi percepibile, non solo come qualcosa che viene dall'intimo. Per identificare le trappole e i pericoli della musica ed evitare di rimanere bloccati su cose che non funzionano. E poi bisogna equilibrare continuamente e unire idealmente i due poli della stabilità e della stimolazione. In questa situazione di dilemma può essere molto pericoloso ancorarsi a uno solo dei due, senza alimentarli l'uno con l'altro. Ma il grigiore delle soluzioni intermedie è altrettanto noioso e non auspicabile, per cui va favorita la sintesi dialettica. Bisogna cercare di unire due opposti apparentemente impossibili. Sono questi i territori che ho esplorato con la mia tesi in musicologia.

AAJ: Ritieni che in qualche modo la tua musica sia connessa alla natura?

T.G.: L'arte che tu crei è il frutto di tutto ciò che hai vissuto nel corso degli anni, tra cui i paesaggi visti, la luce e i suoi cambiamenti stagionali a nord, i suoni della natura... Per me, però, la cosa più importante è il dialogo tra vita urbana e silenzio della foresta - la mia musica è collegata a questa dualità, non alla natura in sé...

AAJ: Progetti futuri?

T.G.: Ho alcune idee, ma per ora la cosa più importante è coltivare il suono e l'interplay di questo nuovo ensemble, sia nella formula del quartetto che del quintetto, cercando di sviluppare ulteriormente il repertorio esplorato fino a qui. Lo scorso anno ho anche composto un requiem per coro, attrice e ensemble, e spero di poterlo mettere di nuovo in scena.

AAJ: Farai un tour per promuovere il disco? Verrai anche in Italia?

T.G.: Il tour in corso prevede già diverse date, Germania, USA, Canada, Norvegia, Portogallo e Regno Unito, per l'Italia al momento è confermata una data in Puglia, ad Alberobello, e poi si vedrà...

Foto di Hans-Fredrick Asbjornsen (la prima), Richard Mallory Allnutt (la seconda), Truls Brekke (la terza), Luca Vitali (la quarta, la quinta e la settima), Christopher Tribble (la sesta), Mizuho (la ottava)

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