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Intervista a Jackie McLean: in memoriam

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Fra marzo e maggio di quest'anno cadono due anniversari riguardanti Jackie McLean: l'ottantesimo della nascita (era nato a New York il 17 maggio 1931) e il quinto della morte (avvenuta il 31 marzo 2006). Per ricordare il grande altosassofonista abbiamo recuperato un'intervista - con ogni probabilità l'ultima effettuata in Italia - raccolta a Fano nel luglio 2004 da Libero Farnè. In una stesura lievemente accorciata venne pubblicata sul mensile "Musica jazz" nel novembre dello stesso anno. Intervistato e intervistatore compaiono nella foto qui riprodotta, scattata in quell'occasione da Luciano Rossetti

Figlio d'arte (il padre John era chitarrista professionista), Jackie McLean è stato precoce in tutti i sensi: diventato padre giovanissimo, nel 1948 ottiene il suo primo ingaggio vero e proprio a fianco dell'amico Sonny Rollins. Tramite Bud Powell, suo mentore, incontra il suo idolo Charlie Parker e Miles Davis; nel gruppo di quest'ultimo fa il suo debutto discografico nel 1951. In seguito lavora con Art Blakey, Charles Mingus ed altri, fino a giungere alla fine del decennio ai primi dischi a proprio nome per Prestige e New Jazz. Nella prima metà degli anni Sessanta, affrancatosi definitivamente dal modello di Parker e non insensibile alle innovazioni del free jazz, esprime il meglio di sé come strumentista e leader, incidendo per la Blue Note (ventuno LP a suo nome, oltre a partecipazioni come sideman).

Dopo aver superato problemi con la giustizia, dalla fine degli anni Sessanta McLean si dedica costantemente all'educazione dei giovani e alla didattica del jazz, insegnando soprattutto alla Hartford University, nel Connecticut, dove istituisce il Dipartimento di Musica Afroamericana. Negli anni Settanta soggiorna spesso in Europa, dove insegna a Copenaghen ed incide per la SteepleChase. Nell'ultimo ventennio, senza mai abbandonare la didattica ad Hartford, riprende un'intensa attività concertistica sia in gruppo con suoi collaboratori di un tempo (McCoy Tyner, Bobby Hutcherson...), sia con una formazione di giovani, comprendente il figlio René al tenore e al flauto. La produzione discografica di quest'ultimo periodo viene edita da Triloka, Antilles e di nuovo Blue Note. La sua voce strumentale al contralto è una delle più personali e riconoscibili del jazz moderno.

Fisicamente in ottima forma, rilassato e disponibile Jackie McLean si è presentato puntualissimo all'intervista che ci ha concesso a Fano, dove in luglio si è esibito in quintetto all'interno di Jazz By The Sea. Per prima cosa abbiamo avuto modo di verificare la sua data di nascita, che, come per altri protagonisti del passato, differisce da quanto riportato da alcune delle più diffuse enciclopedie del jazz: McLean infatti non è nato nel 1932, ma nel 1931.

Libero Farnè: Suo figlio René è nato nel 1946, quindi lei aveva solo quindici anni!

Jackie McLean: Sì, io e mia moglie eravamo veramente molto giovani e da allora siamo sempre rimasti vicini; lei mi dà un grande aiuto nella mia attività didattica.

L.F.: Cominciamo appunto da questo: cosa è fondamentale insegnare ad un giovane perché diventi un buon jazzman?

J.McL.: È importante far studiare la storia del jazz e far ascoltare tutte le varie evoluzioni succedutesi nei decenni, cominciando dalle origini, dal ragtime, dagli anni Dieci e primi anni Venti. Poi ovviamente bisogna approfondire la conoscenza dei grandi maestri per capire il contributo che ognuno di loro ha dato: Louis Armstrong, Sidney Bechet, Bix Beiderbecke... Per i sassofonisti ovviamente Coleman Hawkins, Ben Webster, Don Byas... fino ad arrivare a Lester Young; egli ha gettato le basi di un linguaggio che in seguito è stato sviluppato da Charlie Parker in quello stile che comunemente viene definito Bebop, termine che sinceramente non mi fa impazzire. Quindi penso che per gli studenti sia indispensabile comprendere la concatenazione fra i diversi momenti: ogni periodo, ogni personalità ha aggiunto le sue idee al patrimonio del passato.

L.F.: La musica afroamericana come evoluzione quindi più che come successione di momenti di dirompente rivoluzione (il Bebop, il Free). Mi sembra anche di capire che lei accetta il termine «jazz» e non lo rifiuta come fanno altri musicisti della sua generazione.

J.McL.: Io sono d'accordo con entrambi gli atteggiamenti: capisco i colleghi che evitano questa parola, anche a me non piace, ma in pratica non se ne può fare a meno perché bene o male definisce un tipo di musica. Sarebbe molto difficile parlare di questa musica senza usare il termine jazz, anche se forse sarebbe più esatto usare definizioni come «musica classica americana» oppure «musica afroamericana», appunto perché è nata dalla fusione di concetti musicali africani ed europei.

L.F.: Quando era ancora molto giovane, intorno al 1950, sostituì Parker in concerto. Cosa ci può dire della sua esperienza con lui?

J.McL.: Quando avevo quindici o sedici anni ero già un fan di Parker ed ebbi la fortuna di conoscere Bud Powell (per un paio d'anni frequentai la sua casa tutte le settimane). Bud mi procurava qualche ingaggio ogni tanto e per suo tramite ebbi l'opportunità di conoscere Parker, che mi sentì suonare col gruppo di Miles Davis (ed anche di quest'ingaggio devo ringraziare Bud). Siccome Parker in quel periodo aveva un paio d'impegni ogni sera, m'invitò a sostituirlo in un club in cui la sezione ritmica comprendeva Walter Bishop e Art Blakey (non ricordo chi fosse il contrabbassista). Dopo aver concluso il suo set in un club del Bronx, Parker ci raggiungeva e fu così che ebbi l'opportunità di suonare con lui.

L.F.: Le ha dato dei consigli musicali?

J.McL.: No, Parker non mi ha dato insegnamenti specifici; con lui parlavo di questioni della vita, ben raramente di musica. Quello che ho imparato l'ho appreso dai suoi dischi ed in seguito, ovviamente, dal vivo.

L.F.: Negli anni Cinquanta lei ha suonato con alcuni dei protagonisti del momento (e maestri in assoluto): Blakey, Davis, Monk e Mingus. Quali differenze fra di loro come leader?

J.McL.: In effetti erano molto diversi fra di loro. Miles è stato il primo grande leader con cui ho lavorato; allora era una persona molto delicata e fu molto importante per la mia formazione perché mi spinse ad approfondire la teoria musicale: le scale, gli accordi, l'uso del pianoforte e così via. Poi passai nella band di George Wallington, anch'egli leader molto bravo, e in seguito nel gruppo di Art Blakey, col quale la prima volta rimasi per più di un anno e fu un'esperienza veramente stimolante. Lasciai Art per Mingus: lavorare con lui fu per me una grande lezione, perché mi spronò a trovare un mio sound, ad esprimere le mie idee, dimenticando il modello di Parker. Probabilmente fu in quel periodo che sviluppai una mia pronuncia personale. Dopo tornai con Blakey per circa un altro anno ed infine, nel 1958-59, potei mettere in piedi un mio gruppo. Con Thelonious Monk invece, che era mio buon amico, suonai in poche occasioni, mai regolarmente e non incisi mai con lui.

L.F.: Nel 1959 ebbe una parte come musicista e attore in «The Connection» di Jack Gelber; cosa ci può dire di quell'esperienza?

J.McL.: Fu eccezionale, perché è molto singolare e importante per un musicista essere coinvolto in un lavoro teatrale, è molto diverso che suonare in concerto o in un club. Rimasi col Living Theatre per circa quattro anni, durante i quali toccammo Parigi e Londra. Judith Malina, Jullian Beck e Jack Gelber volevano che ci fosse un'interazione fra gli attori e i musicisti; questi ultimi intervenivano con qualche battuta nella recitazione, anche se per la verità si muovevano in scena e intervenivano soprattutto come musicisti.

L.F.: Nel 1967 chi ha avuto l'idea di incidere New And Old Gospel con Coleman alla tromba?

J.McL.: Alfred Lyon e Franck Wolf, i produttori della Blue Note, ebbero l'idea di far incidere insieme me e Ornette. Inizialmente pensavo che anche lui avrebbe suonato il contralto, invece decise di suonare la tromba e così quella seduta risultò tanto eccitante e particolare.

L.F.: Quale preferisce fra i suoi dischi Blue Note di quel periodo?

J.McL.: Penso che The Connection sia un album importante, ma sono molto legato anche alla serie di dischi con Gracham Moncour al trombone, Bobby Hutcherson al vibrafono e il giovane Tony Williams, che portai a New York da Boston. Penso che quel gruppo veramente speciale abbia segnato la nascita di una nuova concezione delle dinamiche all'interno di un piccolo gruppo. Ognuno di loro era un musicista fuori dal comune.

L.F.: Negli anni Sessanta nei suoi gruppi suonarono tanti batteristi straordinari: Tony Williams, Roy Haynes, Billy Higgins, Jack De Johnette... Chi di loro è stato il miglior interprete della sua concezione musicale?

J.McL.: Tony fu uno dei migliori batteristi di quel periodo, ma Roy Haynes è stato in assoluto uno dei più importanti di tutti i tempi, per cui penso che lui abbia contribuito molto all'evoluzione musicale di quegli anni. Anche De Johnette introdusse nel jazz freschi concetti ritmici. Higgins naturalmente è stato un maestro: era capace di adattarsi a qualsiasi contesto ed io rimasi estremamente soddisfatto tutte le volte che potei suonare con lui in gruppi diversi.

L.F.: Mi risulta che invece abbia avuto un rapporto meno buono con la Prestige negli anni Cinquanta.

J.McL.: È vero; da un lato devo essere riconoscente ai produttori della Prestige perché mi hanno dato l'opportunità di incidere i miei primi dischi, ma devo ammettere che essi non avevano la sensibilità di Lyon e Wolf, non avevano rispetto per ciò che i musicisti erano e rappresentavano, nonostante che avessero a che fare con protagonisti del calibro di Davis o Monk. Per cui ricordo con piacere molto maggiore il rapporto che ho avuto con la Blue Note, anche se, da un punto di vista musicale, i dischi che ho inciso per la Prestige non erano di un livello inferiore.

L.F.: Fra i suoi dischi incisi per la SteepleChase negli anni Settanta invece quali considera i più importanti?

J.McL.: Penso che i due LP che ho inciso con Dexter Gordon siano i più riusciti. Dexter è sempre stato uno dei miei idoli, è stato uno dei miei punti di riferimento fin da quando ero ragazzo; per cui quando ho potuto convocarlo per le incisioni della SteepleChase sono stato particolarmente felice.

L.F.: È vero che smise di assumere droghe nel 1967 quando era in prigione?

J.McL.: Sì, è vero ed è stato da quel momento che ho deciso di cambiare strada, che ho cominciato a dedicarmi all'educazione dei giovani a New York, cercando di stimolare il loro talento, le loro potenzialità musicali. In seguito, nel 1970, accettai di insegnare all'Università di Hartford, Connecticut, e cominciai a fare la spola fra New York e Hartford; là ho costruito progressivamente il Dipartimento di Musica Afroamericana, che ancora oggi è molto attivo con il nome di Jackie McLean Institute. Là ho fatto crescere tanti giovani talenti, fra i quali tutti i componenti del mio attuale gruppo. Dal 1999 abbiamo una nuova sede in un edificio meraviglioso nella parte settentrionale di Hartford.

L.F.: C'è un modo, un segreto per ottenere una sonorità personale al sax ed eventualmente è possibile insegnarlo?

J.McL.: Se c'è io non lo conosco; tuttora non so perché il mio timbro è come è, io non ho fatto nulla di particolare per ottenerlo. Piuttosto, una delle cose importanti che io e mia moglie negli anni abbiamo cercato di fare ad Hartford è stata quella di sviluppare un programma culturale secondo una visione interdisciplinare, chiamando ad insegnare esperti delle varie arti: musica, teatro, danza, arti visive... Siamo molto contenti e orgogliosi dei risultati che sta dando questo programma culturale, che è un'iniziativa collaterale ai corsi ufficiali dell'università. Programmiamo molti concerti con nomi come McCoy Tyner, la Illinois Jacquets Big band..., cercando di promuovere questa musica, di renderla più accessibile ai giovani, che devono acquisire una visione più ampia e non rimanere ancorati solo al rap, all'hip hop.

L.F.: Torniamo al 1967, che sembra essere stato un anno cruciale nella sua biografia. A quell'anno risale infatti anche la sua conversione all'Islam: quali furono le ragioni di questa scelta? È vero che Amiri Baraka ebbe qualche influenza nella sua conversione?

J.McL.: No, Baraka non è intervenuto in tutto questo. Penso che la religione, l'avere un culto faccia parte delle scelte strettamente personali; penso che tutte le religioni siano destinate a fondersi: io provengo dal Cristianesimo, ma ho scelto l'Islam per allargare le mie vedute, è una mia personale esigenza. Io non pretendo che il mio credo sia l'unico; ognuno deve fare le sue scelte e cercare di crescere.

L.F.: Eppure non deve essere facile per un musulmano vivere nell'America d'oggi.

J.McL.: Non sono affatto d'accordo con l'establishment americano quando considera l'Islam un nemico da combattere. Questo è un periodo molto difficile, questa confusione su cosa rappresentano le religioni è per me molto frustrante e triste: non voglio essere coinvolto in questa assurda contrapposizione fra Cristianesimo e Islamismo. È terribile quando le religioni entrano in conflitto e non sono più quello che dovrebbero essere. Io cerco di continuare ad essere quello che sono: un musicista, un uomo pio, che s'interessa del bene dei suoi figli, dei nipoti e del prossimo, che prega perché queste guerre assurde, queste stragi finiscano.

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