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Firenze Jazz Festival 2021

Firenze Jazz Festival 2021

Courtesy Giorgio Violino

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Firenze Jazz Festival
Firenze
Varie sedi
8-12.9.2021

Il Firenze Jazz Festival ha proposto quest'anno un numero impressionante di appuntamenti, ben trenta, spalmati su quattro giorni più l'anteprima la sera di mercoledì 8 settembre. La moltitudine di concerti ha inevitabilmente portato alla loro parziale sovrapposizione, ma questo non deve necessariamente essere considerato un difetto, anche alla luce della pluralità di generi e orientamenti stilistici presenti nel programma, che permettevano una selezione in termini di preferenze o di curiosità di approfondimento. Selezione a cui è stato costretto anche chi scrive e che influenza la documentazione che segue.

Nel bello scenario del giardino della Biblioteca Pietro Thouar, uno dei piccoli tesori nascosti dietro le mura del centro fiorentino, alle 18 di giovedì 9 si è svolto il concerto del duo di Camilla Battaglia e Rosa Brunello. Il loro progetto "A Song for a Thousand Years" va avanti da diversi anni e mette assieme brani di diversa provenienza, perlopiù pop e rock, riletti in modo estremamente personale: volutamente scarnificati, riarrangiati per voce e contrabbasso o basso elettrico, con diversi ma accurati interventi dell'elettronica, e in alcuni casi persino condotti senza strumenti, per doppia voce, battiti di mani e body percussion. Si aggiunga a questo una tangibilmente forte intesa tra le due interpreti e la varietà di approcci vocali della Battaglia, che alterna canto, vocalizzazioni e uso della voce—specie sui registri acuti—come uno strumento, e si avrà la cifra di un progetto accurato, ma fresco e sicuramente molto apprezzabile, specie per il pubblico più giovane—come infatti è accaduto in quest'occasione.

È seguito a ruota, nella storica Sala Vanni a poche centinaia di metri di distanza, il concerto di Nexus, in programma le musiche del disco a breve in uscita per Felmay, The Call: For a New Life, che ne celebra i quarant'anni di vita. Una formazione, Nexus, che ha spesso variato l'organico attorno a Daniele Cavallanti e Tiziano Tononi e che stavolta è un sestetto completato da Emanuele Parrini al violino, Silvia Bolognesi al contrabbasso—già da tempo suoi membri attivi —, Tony Cattano al trombone e Luca Gusella al vibrafono. La musica conserva la cifra classica di Nexus, innervandosi di "New Thing" e narratività, con contenuti politici impliciti ed espliciti—l'ultima, lunga suite, forse il momento migliore del concerto, era dedicata alle sofferenze e alle lotte dei nativi dell'America del Nord. Non tutto è però parso girare al meglio, con passaggi un po' confusi e momenti di ridondanza, compensati da altri senza dubbio coinvolgenti, come appunto il citato brano finale. Ma forse parte della responsabilità è da addebitare all'acustica della sala, che non rendeva giustizia a un suono troppo esplosivo e ricco per poter essere pienamente restituito da un ambiente come la Sala Vanni.

La giornata per chi scrive si è chiusa all'Anfiteatro di Villa Strozzi, con il concerto del quartetto Dark Dry Tears di Danilo Gallo, fresco tanto dell'uscita per Clean Feed del disco A View Through a Slot (che ospita il chitarrista Lorenzo Corti), quanto del rientro di Francesco Bearzatti, per la prima volta in concerto con l'ultimo materiale del gruppo. Un concerto davvero splendido, a dispetto del fatto che la formazione non suonasse assieme da tempo a causa della pandemia. I brani si sono susseguiti mostrando a chi non li conosceva una tensione e un'intensità fortemente coinvolgenti, a chi li conosceva—come nel nostro caso—una significativa e interessantissima evoluzione, dovuta in parte alla presenza di un membro diverso, in parte all'utilizzo di altri strumenti (scomparsi il sax soprano e spazio maggiore per i tenori rispetto ai clarinetti). In generale, notevole la precisione del gruppo nei reiterati stacchi e cambi di tempo o d'atmosfera, guidati da Gallo in una veste direttiva che oggi raramente si percepisce così netta ed efficacie, e notevole, in fase compositiva, il modo in cui si muovono i due fiati—con un Francesco Bigoni dal suono davvero sontuoso—i quali quando non sono in assolo suonano all'unisono, ma sempre variando o l'altezza, o l'attacco delle frasi, o la tonalità, così da creare suggestive complessità del fraseggio. Nota a parte per Jim Black, riguardo al quale è inutile aggiungere altro se non che assistere a una sua performance è sempre entusiasmante. Una formazione, Dark Dry Tears, che è oggi tra le punte di diamante del nostro jazz.

Il giorno successivo erano in programma due eventi internazionali di spicco—il trio del tenorsassofonista James Brandon Lewis e quello di David Murray, Brad Jones e Hamid Drake (di quest'ultimo si sono poi avute reazioni molto positive)—ma chi scrive ha scelto di seguire due trii nostrani, poi quello di Franco D'Andrea.

Quello guidato da Zeno De Rossi, che ha suonato in un giardino a ridosso delle mura cittadine presso il "torrino" di Santa Rosa, si è presentato con Francesco Bigoni alle ance e Alfonso Santimone—che sostituiva per l'occasione Giorgio Pacorig—al Fender Rhodes. Il programma prevedeva due set a distanza di un'ora, dei quali abbiamo seguito il primo che includeva perlopiù brani degli anni Settanta—Motian, Haden, il Jarrett del quartetto europeo—senza particolari effetti speciali, ma impreziositi da un lavoro ora acido, ora più delicato ma timbricamente straniante di Santimone, dall'accuratezza del fraseggio di Bigoni, quasi sempre al tenore, e dal colore della batteria del leader. Risultato, un suono originale per riascoltare brani splendidi.

D'Andrea ha invece suonato nella location più prestigiosa e scenografica della manifestazione: i giardini di Villa Bardini, situata nella Costa San Giorgio, una delle vie più elitarie di Firenze, dominanti dall'alto il centro storico cittadino, con la basilica di S. Croce e la cupola del Duomi in bella evidenza. La formazione era quella dell'album New Things, con Enrico Terragnoli alla chitarra e Mirko Cisilino alla tromba. Il concerto si è idealmente diviso in tre parti: nella prima i musicisti hanno dialogato a partire da brevi frammenti d'inizio di vari brani del loro ampio repertorio di riferimento, improvvisando senza però mai portare avanti il materiale tematico del brano. Così condotti, i primi due brani hanno messo in scena un lungo, variegato e sorprendente peregrinare musicale, del quale Terragnoli teneva ben fermo il filo conduttore, mentre gli altri due operavano variazioni di tempi e intervalli. Notevolissimo l'apporto di Cisilino, che mutava con grande libertà e altrettanta spontaneità l'uso delle cinque sordine a sua disposizione, operando così su piano timbrico e facendo da contraltare al ricco lavoro di D'Andrea su quello cromatico. Nella seconda parte si è invece tornati alla musica più classicamente propria di D'Andrea, con spezzoni di standard e brani classici che emergevano in modo più distinto, venivano "lavorati" in vari modi per poi essere sostituiti spontaneamente da altri. La terza parte, infine, è stata quella dei due lunghi bis, nei quali il pianista trentino, ottant'anni celebrati nel marzo scorso, si è esibito in solitudine, operando principalmente attorno a Monk con modalità non dissimili dalle precedenti. Un concerto, come spesso succede con D'Andrea, teso e rigoroso, da seguire con attenzione, ma a giudicare dalle "chiamate" ricevute per i bis, apprezzatissimo dal pubblico.

La terza giornata del festival, sabato 11, s'è aperta al giardino della Biblioteca Thouar con il delizioso duo del tenorsassofonista Giovanni Benvenuti e del contrabbassista Francesco Pierotti al lavoro sulla musica di John Coltrane, progetto al quale qualche anno fa avevano già dedicato un altrettanto delizioso disco, colpevolmente trascurato dalla critica. Lo spirito del progetto è rileggere la musica coltraneiana spogliandola della sua orchestrazione, in tal modo esaltandone la bellezza dei temi e la raffinatezza dei dettagli. Per farlo Benvenuti mette da parte l'irruenza del fraseggio e la potenza del suono con le quali si fa apprezzare nel suo quartetto e dialoga fittamente con il compagno, che opera spesso anche all'archetto. Non solo, alcuni dei brani sono decisamente modificati anche dal punto di vista dei tempi e del ritmo, così da presentarsi in ben diversa foggia. I risultati sono davvero eccellenti, tanto da rendere sorprendente che una formazione di tale qualità sia sfuggita all'attenzione dei più. Non però al pubblico presente, il quale ha sottolineato con vigore il suo apprezzamento.

Inframezzato da una conferenza di Stefano Zenni proprio su Coltrane, ha concluso la giornata un doppio concerto a Villa Bardini. Ha iniziato il quintetto del contrabbassista Ferdinando Romano, miglior nuovo talento italiano del 2020, che presentava l'album Totem, uscito lo scorso anno. Una formazione a larga presenza di toscani (di nascita o d'adozione), con Manuel Magrini al pianoforte e Giovanni Paolo Liguori alla batteria, arricchita dal sax contralto di Simone Alessandrini e soprattutto dalla tromba di Ralph Alessi. Nonostante la defezione all'ultimo momento del vibrafono di Nazzareno Caputo e a dispetto del lungo periodo trascorso dalle ultime esibizioni live, la formazione è parsa affiatatissima e ha sfoggiato un suono fluido e compatto. Anche la cifra della musica è parsa interessante: un modern jazz con momenti di dissonanza—spesso affidati al piano di Magrini —, libertà improvvisativa—nei quali emergeva Alessi—, passaggi esplosivamente irruenti—affidati agli ottimi assoli di Alessandrini—, brani più melodici tra la ballad e la narratività mediterranea. Il tutto però reso omogeno da un'identità precisa e, soprattutto, ben raccolto attorno a un suono molto ben definito.

Un'ora più tardi, è stato il trio di Rita Marcotulli a concludere la giornata con un concerto in cui si coniugavano virtuosamente creatività e leggerezza, virtuosismo e comunicazione. Accanto alla pianista romana giostravano Ares Tavolazzi al contrabbasso e Alfredo Golino alla batteria, ovvero il Tri(o)Kala, del quale è appena uscito l'ultimo CD, Indaco Hanami. In programma composizioni originali della Marcotulli—molto bella quella dedicata al pianista Bobo Stenson—e brani più diversi tratti da ogni genere musicale, con spazio anche per i Beatles e Pino Daniele. Ora, di fronte a questo genere di materiali è quasi fatale che ci si perda nell'agiografico, quando non nella "marchetta": ebbene, in questo caso niente di tutto ciò, perché la raffinatezza della pianista alla tastiera—impressionanti non solo le invenzioni sui temi, ma anche la varietà timbrica e il controllo della dinamica, con alcuni brani potentemente percussivi e altri lievissimi e soffusi—così come l'attenzione che i tre ponevano all'interazione, ha trasformato ogni brano in una piccola perla. Leggera e giocosa, certo, ben lontana dalla ricerca di D'Andrea della sera precedente, ma non per questo banalmente "piaciona." Alcuni virtuosismi non fini a loro stessi della pianista, il divertito modo in cui Tavolazzi la inseguiva, le sottolineature dei suoi passaggi esercitate da Golino alla batteria, procuravano un piacere di ascolto che andava ben aldilà della rilettura del tema noto al pubblico. Unire il rigore creativo alla immediatezza comunicativa, come si sa, non è facile; stavolta alla Marcotulli e al suo trio è riuscito benissimo: chapeau!

Il festival si è poi concluso la domenica con altri eventi, fino alla festa conclusiva all'Anfiteatro delle Cascine, dedicata alla memoria di una figura importante per la musica a Firenze, Freddie Villarosa, che aveva al centro Don Karate di Stefano Tamborrino.

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