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Torino Jazz Festival: le molteplici facce del jazz

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Torino Jazz Festival
varie sedi
22.04-01.05.2016

Non è facile trovare in Italia manifestazioni jazzistiche paragonabili al Torino Jazz Festival.

Il confronto più plausibile è quello con Umbria Jazz. Entrambi i festival infatti sono motivati da un intento promozionale e divulgativo, dalla volontà di far avvicinare a questa musica anche un largo pubblico non specialistico, puntando quindi su nomi e proposte di richiamo in spettacoli di piazza gratuiti.

Non a caso il calendario dell'evento torinese comprende le festività del 25 aprile e del 1° maggio, come Umbria Jazz si svolge a Perugia nel mese di luglio e la sua edizione invernale a Orvieto coincide con le festività di capodanno. Entrambi i festival comunque non rinunciano alla funzione di documentare le più variegate esperienze musicali dell'attualità, organizzando concerti a pagamento (in verità a costi d'ingresso molto contenuti a Torino) in teatri o spazi più raccolti, in cui vengono ospitati esponenti di una mirata ricerca musicale.
Tuttavia l'aspetto che differenzia nettamente la capitale piemontese dalle due città umbre è la vastità del suo centro storico; di conseguenza la rete di spazi di spettacolo/incontro interessati, di istituzioni pubbliche e private coinvolte è assai più estesa. Nello specifico, nei dieci giorni di programmazione di quest'anno si sono susseguiti ben 178 eventi di natura molto varia fra loro.

L'incontro fra il jazz e le altre espressioni artistiche era il tema di fondo sondato dal direttore artistico Stefano Zenni in questa quinta edizione del festival torinese. Il calendario dei concerti è stato affiancato da presentazioni di libri, dall'ampia sezione di cinema, culminata con l'esibizione live di Antonio Sanchez sulla proiezione del film Birdman, dalla lectio magistralis in cui lo stesso Zenni con grande capacità di sintesi e connessioni ha chiarito le origini geografiche e socio-culturali del jazz a New Orleans, e da tanto altro ancora.

Sul versante del connubio fra musica e danza assai opportuno si è rivelato il coinvolgimento del Museo d'Arte Orientale, decisamente l'istituzione italiana più rilevante in questo ambito, che ha ospitato l'incontro fra il percussionista Federico Sanesi, alle tabla, e la danzatrice catalana Nuria Sala Grau nell'empatica e coinvolgente rivisitazione del Bharata Natyam, la più antica delle danze classiche indiane.
Nello spettacolo teatrale "Otto storie poco standard" è stata invece ricostruita la sorprendente origine di altrettanti standard del jazz. I testi, tratti dall'omonimo libro di Luca Bragalini edito da EDT, sono stati rielaborati dalla regista Annalisa Bianco. Partendo appunto dai testi, con grande abilità la mobile voce di Monica De Muro, attraverso la recitazione o il canto, ne ha dato interpretazioni sempre diverse, personali e studiate, evitando di ricalcare gli ingombranti modelli americani. Il misurato supporto di Lello Pareti e Alessandro Marzi (rispettivamente contrabbasso e percussioni) ha contribuito a dare forma ad un progetto singolare e leggiadro, di indubbia godibilità comunicativa.

Nella prima italiana dello spettacolo Ultimo cielo (sopra Gallizio) si è assistito a un singolare tentativo di interconnessione fra musica ed arte visiva. In questo caso la musica scritta da Battista Lena era eseguita dalla Banda Città di Alba Ars et Labor, diretta da Claudio Taretto e affiancata da un quintetto jazz composto da Fulvio Sigurta, Gabriele Mirabassi, Daniele Mencarelli, Stefano Tamborrino e dallo stesso Lena. La componente visiva consisteva in un infinito, colorato e sempre cangiante dripping dell'artista Pinot Gallizio (1902-1964), che scorreva alle spalle dei musicisti in una lenta proiezione orizzontale.

Brani d'impronta popolaresca, dall'incedere di marcia o danzanti, che ricordavano certi temi di Nino Rota, hanno lasciato il posto ad una malinconica ballad, dalle inflessioni vagamente West Coast, a carico del quintetto. Non sono mancate inoltre parti movimentate sotto la conduction di Franck Assimat, sassofonista francese altrimenti inserito nella sezione delle ance. I pregevoli impasti armonici dei fiati della banda hanno inglobato o si sono alternati agli interventi dei solisti, a volte concisi cammei a volte più articolati. Da sottolineare a tale proposito la pronuncia evocativa e flautata della tromba di Sigurtà e il contributo di un Mirabassi esaltante per l'espressività e il puntiglio del suo eloquio clarinettistico. Ne è risultata una suite forse non particolarmente innovativa rispetto a passati lavori di Lena, ma comunque apprezzabile per la varietà delle dinamiche e delle masse sonore, per i diversi umori delle situazioni.

Altra scelta programmatica di questa edizione è stata quella di puntare sul jazz di casa nostra, dando fra l'altro ampia visibilità a gruppi e collettivi torinesi. Della qualità e varietà della presenza italiana una dimostrazione lampante è venuta dalla programmazione del 25 aprile. Dalla mattina alla notte si sono susseguite oltre venti proposte su diversi palcoscenici e, con un po' di affanno, gli orari permettevano di seguirne alcune delle più stimolanti: il quintetto Simone Graziano Frontal, l'inedito duo di Michele Rabbia con l'olandese Marije Nie, formidabile ballerina di tip tap, la pugliese Minafrìc Orchestra, il giovane quartetto Matteo Bortone Travelers, il trio di Massimo Faraò con il sassofonista Kirk MacDonald, il controverso progetto Pulse! (Jazz and the City) di Max Casacci, Daniele Mana ed Emanuele Cisi, il collaudato duo Rita Marcotulli-Luciano Biondini...

Rispetto ai suoi esordi, ho trovato diversa, più consapevolmente strutturata, non necessariamente più entusiasmante, l'apparizione del quintetto di Simone Graziano, che ha riproposto brani tratti dai due CD editi dalla Auand. In grande evidenza è emerso il leader, sia nella costante funzione registica, sia come pianista dalle varie anime: rapsodico e tumultuoso nelle fasi di più esuberante dialogo collettivo, meditativo e ripiegato su se stesso nelle fasi di distensione e nei momenti di raccordo, in cui sembrava coniugare l'intimismo di Satie e uno spirito zen. Gabriele Evangelista (contrabbasso) e Stefano Tamborrino (batteria) nella loro conduzione ritmica sono stati accomunati da una pronuncia selettiva, antileziosa, di una crudezza a tratti aspra. I due sax di David Binney (alto) e Dan Kinzelman (tenore), quasi sempre allacciati durante tutto il concerto in unisoni o veloci scambi fra le loro voci complementari, hanno poi saputo riempire da par loro gli estesi spazi solistici previsti in "Rock Song," l'ultimo brano in repertorio.

Il concerto pomeridiano in Piazza Castello della Minafrìc Orchestra, integrata dal quartetto vocale delle Faraualla, ha costituito una degna e ideale celebrazione del 25 aprile. Un Pino Minafra motivato e comunicativo come sempre, con le parole, un inciso di personale e arguto scat e la pronuncia vibrante della sua tromba ha condotto la formazione in una sorta di empatico comizio musicale, attingendo al repertorio abituale dell'orchestra. Le composizioni, prevalentemente di Livio Minafra e il notevole "Fabula Fabis II" di Nicola Pisani, hanno visto un'interpretazione compatta, organica, entusiastica, senza soste o sfilacciamenti e senza lasciare spazi particolarmente dilatati agli interventi individuali, pur spiccando nei ranghi dell'orchestra strumentisti di grande valore: a tale proposito va ricordato che la sezione ance è composta da Roberto Ottaviano, Gaetano Partipilo, Carlo Actis Dato e Nicola Pisani.

Purtroppo il concerto del Matteo Bortone Travelers è stato fortemente penalizzato dalla collocazione sul palchetto Fringe in Piazza Vittorio Veneto. Fronteggiati da uno stuolo di bambini giocosi e coppie in acceso colloquio, oltre che sfiorati tangenzialmente dalla sfilata dei sostenitori della Juventus neopromossa campione d'Italia, i musicisti, apparentemente imperturbabili, hanno fatto il possibile per concentrarsi. Tuttavia le condizioni d'ascolto non erano certo adeguate alla loro pregevole musica che avrebbe meritato il palco di un teatro.

Alla sera, anziché tornare in Piazza Castello per il progetto Pulse!, si poteva optare per il Circolo Canottieri Esperia, sul Po, ambiente un po' retrò in cui si respira l'aria di una mondanità vagamente aristocratica. Qui il dialogo fra Rita Marcotulli e Luciano Biondini si è retto sull'esperienza e l'affiatamento derivati da anni di frequentazione, senza cadere nella routine. Gli original del loro abituale repertorio sono stati rivisitati accentuando i toni pastosi e fluidi di una colloquialità diretta e poco intimista, che ha puntato sull'essenzialità melodico-ritmica, dando concretezza a suggestioni evocative.
Altrettanta esperienza e affiatamento legano i membri del trio paritario Droplets, in cui la pianista romana è affiancata da Maria Pia De Vito e Michele Rabbia. Il loro concerto, svoltosi la sera precedente nel medesimo locale stipato fino all'inverosimile, è stato caratterizzato da un metabolizzato incrocio di culture e da linee melodiche ora suadenti ora più drammatiche. Il tutto era comunque rivestito da una ricerca sonora sperimentale, a tratti quasi scabra, evidente nell'uso eccentrico delle percussioni, nella voce della cantante esasperata dall'elettronica, nel pianismo a blocchi percussivi da parte della Marcotulli.

Venendo ad alcuni dei nomi stranieri invitati dal festival è il caso di puntare l'attenzione su due gruppi diversi e ospitati in spazi opportuni: il Volcan Trio e il Tim Berne's Snakeoil. Il trio cubano, formato da Gonzalo Rubalcaba, Horacio "El Negro" Hernandez e Armando Gola, ha rappresentato probabilmente la proposta più jazzistica fra quelle presentate sul palco di Piazza Castello e offerte alla curiosità e alla partecipazione di un pubblico più vasto ed eterogeneo di quello degli appassionati di jazz. È evidente che la musica del Volcan Trio vive di un'esuberanza tutta latina; è altrettanto comprensibile che nel contesto torinese, rispetto ad altre recenti apparizioni in teatri o club italiani, il contorno (dall'enfasi dei presentatori alle luci, al volume dell'amplificazione), più delle intenzioni dei musicisti stessi, abbia spinto verso una spettacolarità dai risvolti particolarmente accattivanti.

Diametralmente opposta l'esibizione del Tim Berne's Snakeoil al Teatro Piccolo Regio Giacomo Puccini, destinata a una platea di specialisti. Com'era prevedibile il sassofonista di Syracuse ha condotto il suo quintetto con l'abituale concentrazione verso una performance monolitica. La sua musica, basata su un originale e inscindibile rapporto fra composizione e improvvisazione, ha costruito lunghi, inesorabili crescendo verso apici di tensione emotiva e sonora.
Anche se si sono stagliati trii ben mirati e funzionali (clarinetto oppure piano con batteria e chitarra), l'elaborazione del percorso sonoro si è confermata eminentemente collettiva. Soprattutto all'intreccio fra i clarinetti di Oscar Noriega e il contralto del leader è spettata una portante funzione tematica e strutturale. Ma il ruolo della batteria di Ches Smith, come quello del piano di Matt Mitchell, non è mai risultato quello di un mero accompagnamento; anche la loro azione era finalizzata a conferire un preciso carattere al percorso musicale, ora rimanendo in secondo piano ora emergendo in sussulti di grande forza espressiva. La minuta trama armonica e timbrica riservata alla chitarra di Ryan Ferreira ha fornito invece un sottofondo connettivo vaporoso, a volte straniante, altrettanto caratterizzante.

Almeno altri due concerti meritano una veloce segnalazione. Della tradizione Manouche, altro tema serpeggiante all'interno del festival, il francese Angelo Debarre, supportato dal Miraldo Vidal Quartet, ha dato una versione personale, mai banalmente plateale. Il suo virtuosismo chitarristico non ha teso tanto a stupire su tempi frenetici, quanto piuttosto a coinvolgere con la naturalezza del piglio, la vivacità dinamica e la bellezza della limpida sonorità.
Nella chiesa neoclassica della Gran Madre di Dio, infine, la solo performance mattutina di Dimitri Grechi Espinoza, al tenore e opportunamente in acustico, si è sviluppata fra melismi e frasi ripetute lentamente su vari registri, creando un avvolgente flusso sonoro a ondate, che ha saputo sfruttare sapientemente l'ampio riverbero dello spazio. Armonicamente suggestivi e dagli evidenti risvolti mistici sono risultati gli esiti di una procedura esecutiva e di una poetica che il sassofonista toscano ha già sperimentato in altri contesti analoghi.

Foto
Antonio Baiano.

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