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Things We Like: Novembre 2016

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Se state cercando un grande regalo musicale per il prossimo natale, ecco uno dei più dischi più belli e interessanti degli ultimi anni, sopra ogni etichetta, sopra ogni genere.

Before the Dawn, raccoglie lo straordinario ritorno sulle scene "una tantum" di sua maestà Kate Bush, vale a dire la migliore interprete di musica britannica dell'ultimo mezzo secolo. Le ventidue date che la performer inglese ha regalato nell'agosto e settembre 2014 (sold out dopo soli quindici minuti dalla comunicazione dell'inizio della prevendita delle prime quindici date, poi "doppiate" con l'aggiunta di altri sette set) sono state le prime dopo il suo abbandono delle scene del 1979.

A causa dell'immenso numero di richieste, il sito web che raccoglieva le richieste è andato in crash diverse volte.
Uno show "totale" (quasi tre ore di performance all'Hammersmith Apollo londinese) raccontato dai fortunati che sono riusciti a vedere (il sottoscritto è fra coloro i quali non sono riusciti -nemmeno attraverso i classici bagarini -a recuperare un biglietto benché avesse già in mano il biglietto aereo per Londra) con uno strepitoso mix di idee magiche, sbalorditivi effetti visuali e grafici, attenzione ai dettagli nel classico stile di Kate e brillantezze al punto di avere davvero qualcosa da raccontare ai nipotini negli anni a venire.

Lo show ha già raccolto tanti riconoscimenti fra i quali (quest'anno) il prestigioso London Theatre Award, quale unico spettacolo di musica contemporanea senza pari.

Il disco è stato pubblicato il 25 novembre scorso dalla Fish People e distribuito dalla Rhino in tutto il mondo. Versione in 3 CD, oppure 4 LP oppure in download (futuribilmente forse anche in DVD). Lo spirito e il senso dello spettacolo (in senso teatrale) è diviso riprendendo l'idea base dalla quale Kate è partita, unendo due pieces integrali denominate "The Ninth Wave" e "A Sky of Honey." Il focus di connessione fra le due parti (che divide le due pieces) è il brano "King of the Mountains" che chiude il primo CD e fa dunque da ponte verso la seconda parte della suite.

Da buona perfezionista, Kate ha chiamato a sé soltanto grandi professionisti che -in perfetto stile zappiano— risultano immensi esecutori di una lavoro praticamente unico. Ovviamente nulla nel disco è stato ri-registrato, corretto o inondato delle classiche over-dubbing, molto utilizzate nel mondo della musica popolare. Il risultato è un trionfo. Di spettacolo e appunto di gente che comincia oggi a raccontare ai nipotini e di questo lavoro discografico, davvero fra i più seri e completi che mi sia capitato di ascoltare. Pura magia.

Ho scritto queste parole poche volte nella mia esistenza. L'ultima volta, guarda caso, pochi anni fa parlando di un'altra straordinaria testimonianza di classe e bellezza infinita firmata da Kate Bush in un lavoro dedicato al senso e alla filosofia della neve: 50 Words for Snow uscito alla fine del 2011 resta per me infatti uno dei dischi più belli pubblicati negli ultimi cinquant'anni. Non sono rincoglionito... pensare che ai tempi di "Wuthering Heights " o di "Babooshka' non avevo capito l'immensità di quest'artista.

La sensualità e la magia dell'arte musicale. E pensate, cari jazzofili, che (a parte David Gilmour -il quale l'ha scoperta, lanciata e sorretta all'inizio -o Peter Gabriel che l'ha amata in tutti i sensi) anche Miles la riteneva un genio. Immensa. Semplicemente immensa.

E non venitemi poi a chiedere quale, per me, il disco dell'anno. È questo.



Fanno giusto quattro anni fra pochi giorni, l'11 dicembre, dacché se n'è andato. Stiamo parlando di Ravi Shankar, entrato dritto in mondi musicali altri dal suo ormai quasi mezzo secolo fa, sulla scorta del trip indiano di tanti, dai Beatles a Coltrane, poi con le partecipazioni ai festival di Monterey e Woodstock, poi al Concert for Bangladesh organizzato da George Harrison nel '71. A Woodstock, in quel piovoso agosto '69, c'era pure Janis Joplin, che ci avrebbe lasciati poco più di un anno dopo, appena ventisettenne. Ma questa è storia nota.

Perché li incrociamo oggi? Perché del primo ci è capitato fra le mani, a prezzo stracciato, un doppio CD di qualche anno fa, The Very Best of Ravi Shankar (EMI Classics), pot pourri dagli anni Sessanta in poi con materiale anche piuttosto vicino all'universo classico (i primi pezzi vedono la massiccia presenza del violino di Yehudi Menuhin) e altre cose più tipiche del grande sitarista, in particolare un paio di generosi live del 2000 con doppio sitar (il secondo è nelle mani della figlia di Ravi, Anoushka) e le solite percussioni aromatiche tipiche della musica indiana. Insomma: una gran bella rimpatriata fra le braccia di una musica amata da sempre ma frequentata tutto sommato fin troppo di rado.

Janis Joplin, invece, ci è venuta prepotentemente incontro qualche sera fa alla Salumeria della Musica, dove si festeggiavano i vent'anni della rivista L'isola che non c'era, ascoltando Arianna Antinori, un'assoluta forza della natura, un purosangue del palco, la cui vocalità, ma anche la presenza (la chioma leonina, la fisicità prepotente, l'energia sorridente quanto inarrestabile), nonché il repertorio, rimandano copiosamente alla ragazza di Port Arthur. Non sapevamo, ahinoi, che Arianna, romana trapiantata a Vicenza, di Janis è innamorata persa, ampiamente ricambiata dagli altri innamorati della succitata, al punto che nel 2010 le è stata addirittura assegnata la vittoria del contest internazionale organizzato per i quarant'anni dalla morte della Joplin. Arianna ha inciso un primo album e un secondo è in rampa di lancia. Vuoi vedere che ci toccherà riparlarne?

Claudio Bonomi

Lo scrittore francese Aymeric Leroy ha impiegato anni per ricostruire la storia di uno dei movimenti musicali ai confini del rock più originali del secolo scorso. Un movimento nato alla fine degli anni Sessanta che prende il nome di scuola di Canterbury e che ha avuto trai suoi esponenti gruppi come Caravan, Soft Machine, Gong, Hatfield and the North e National Health, creatori di un mélange stilistico tra pop, psichedelia e avanguardia jazz quasi inclassificabile e che affascina ancora oggi migliaia di appassionati.

La scuola di Canterbury (L'école de Canterbury), ovvio, anche il titolo di questo tomo di quasi 800 pagine edito quest'anno dalla casa editrice Le Mot et Le Reste: questa prima edizione è in francese, ma ne è in preparazione una in inglese. Sarebbe bello pensare anche a un'edizione italiana, ma è davvero osare troppo.

Detto questo, il lavoro di Leroy è encomiabile almeno per due motivi. Il primo l'abbiamo già accennato: si tratta di un compendio estremamente accurato e ogni fase della cronologia canterburiana -si parte dalla preistoria, gli anni 1961- -1965, per arrivare agli anni Duemila -è tracciata con competenza e ricchezza di particolari, anche inediti riguardo la vita dei gruppi fondatori del movimento compreso le loro mille ramificazioni in altrettanti progetti musicali. Non manca, a tal proposito, un buon corredo fotografico in bianco e nero con alcune immagini mai viste. Il libro potrebbe essere in un certo senso la trasposizione letteraria dell'albero genealogico della scena canterburiana che il buon Pete Frame, specialista in "rock family trees," aveva disegnato nel 1973 per il magazine musicale ZigZag per accompagnare un'intervista a Kevin Ayers, membro dei Soft Machine prima maniera. L'autore, infatti, non dà nulla per scontato e le relazioni "incestuose" tra i diversi membri di questa "grande famiglia" sono raccontate dando, quando possibile, la "parola" ai protagonisti o a "testimoni oculari." Secondo, Leroy utilizza un linguaggio chiaro, mai autoreferenziale, non magniloquente e, soprattutto, senza fare sfoggio di terminologie da professore del conservatorio che servono spesso solo a confondere le idee. Una prosa sobria, ma estremamente efficace e accessibile. Come dovrebbe essere appunto quella di un libro di divulgazione musicale.

Dunque, una strenna perfetta per il vicino Natale. Ah dimenticavo, la prefazione è dello scrittore Jonathan Coe, da sempre un fan di Canterbury.



Profilassi e cura orchestrale dei sintomi da stress elettorale

Chi ha avuto la sfortuna di vivere negli Stati Uniti durante la virulenta campagna elettorale avendo la fortuna di essere a New York nei giorni delle presidenziali ha potuto beneficiare di una sequenza serrata e veramente straordinaria di concerti per orchestre jazz che erano ispirati proprio da questo suffragio e che hanno offerto conforto prima contro la tensione da incertezza circa l'esito della votazione e poi contro lo stupore e l'angoscia del risultato.

Ad aprire la serie, a pochi giorni dalle elezioni (3-6 novembre 2016), la leggendaria Liberation Music Orchestra presso il Jazz Standard. L'ensemble fondato da Charlie Haden come veicolo di protesta politico durante fasi controverse della storia statunitense e mondiale (la guerra in Vietnam per il disco omonimo d'esordio del 1969 (Impulse!), le vicissitudini politiche e razziali di Cile, El Salvador e Sud Africa per Ballad of the Fallen del 1982 (ECM) e Dream Keeper del 1990 (Blue Note), e la guerra in Iraq per Not in our Name del 2005 (Verve)). Fresca della pubblicazione del quinto disco in studio (sesto se si conta il live Montreal Tapes del 1999 (Verve)) in poco meno di cinquant'anni di vita, Time/Life (Impulse!) -uno dei vertici discografici del 2016 -, e forte degli arrangiamenti e della direzione di Carla Bley, l'altra guida spirituale dell'ensemble, la LMO ha incantato per forza e profondità. Dopo anni di silenzio, coincisi con la presidenza Obama, evidentemente la LMO non era rimasta insensibile ai nuovi venti che battevano negli Stati Uniti, e in particolare nel mid-west di Charlie Haden, che senz'altro l'avrebbe voluta di nuovo sul fronte. Vista l'aria che gira, c'è verso che sentiremo la LMO piuttosto frequentemente nel prossimo futuro.

La sera delle elezioni (8 novembre), sempre al Jazz Standard, di scena l'Orchestra di Ted Nash, che da poco ha pubblicato l'ambiziosa Presidential Suite (Motema Music), di cui abbiamo ampiamente trattato a parte (v. la recensione di Angelo Leonardi). Musica sontuosa, arrangiamenti eleganti, interventi solistici misurati ma pregnanti, e lucida direzione da parte di Ted Nash per un progetto di grande energia. Tra un brano e l'altro, come sul disco, alcuni discorsi sulla libertà di grandi leader del passato, da Kennedy a Mandela, recitati da vari componenti dell'Orchestra (forse l'unico punto debole del concerto rispetto al CD, dove a recitarli c'erano Glenn Close e altre voci ben più forti ed autorevoli). Man mano che i risultati delle elezioni arrivavano in sala, grazie alla presenza di due giornalisti di spicco come Brooke Gladstone della National Public Radio e Fred Kaplan del New York Times e di Slate.com, le parole di quei discorsi presidenziali acquistavano una connotazione tra il grottesco e il fortemente nostalgico. Alla fine del concerto, nonostante i tentativi di Gladstone e Kaplan di non rovinare il morale del pubblico, l'esito era oramai chiaro.

La sera dopo le elezioni, con una New York in stato confusionale (le strade ed i locali di Manhattan erano inusitatamente semi-vuoti) la Michael Leonhart Orchestra era in dubbio se cancellare il concerto programmato da tempo alla Rockwood Music Hall. Fortunatamente Leonhart ha deciso di mantenere la data e, suonando di fronte ad un pubblico di pochi fedeli, ha guidato quello che al momento è forse il large ensemble più accattivante sulla scena newyorchese. Le partiture creative, faraoniche e allo stesso piene di humour, di Leonhart (da tempo arrangiatore in voga per progetti ambiziosi dal Lovers di Nels Cline alla sezione fiati degli Steely Dan) offrono eccellenti suite originali (che rendono omaggio al blues della Chess Records come al Wu Tang Clan) e portano nuova linfa a una eclettica serie di pezzi storici come "Milagre dos peixes" di Milton Nascimento, "Mr. Green Genes" di Frank Zappa, "Lonely Woman" di Ornette Coleman, "Afrodesia" di Kenny Dorham o "Big Bottom" da Spinal Tap. Con una formazione di diciassette elementi che di concerto in concerto vede in azione il fior fiore della scena newyorchese, da Erik Friedlander a Donny McCaslin, Daniel Freedman e lo stesso Cline, la Michael Leonhart Orchestra è un'inarrestabile gigante orchestrale oltre che il perfetto antidoto per gli election blues (per rispecchiare il clima post-elezione Leonhart aveva approntato l'arrangiamento della colonna sonora di un classico dell'horror, "Psycho," scritta da Bernard Hermann).

Giusto un paio di giorni per metabolizzare quanto avvenuto, e a chiudere il poker orchestral-elettorale ci ha pensato l'11 novembre l'Awakening Orchestra di Kyle Saulnier presso lo Shapeshifter Lab, il club gestito da Matthew Garrison. In un periodo particolarmente prolifico per gli ensemble di grandi dimensioni, la Awakening si distingue per ambizione e per le interessanti composizioni originali del suo leader. Il concerto, tuttavia, si è aperto con "Throughout" di Bill Frisell, nell'arrangiamento di Carla Bley per la Liberation Music Orchestra, con la quale la Awakening condivide un paio di membri (gli eccellenti trombettisti Seneca Black e David Smith). Un'ideale, ma involontaria, chiusura del ciclo di concerti iniziato proprio con la LMO sei giorni prima. Il nucleo del concerto, tuttavia era costituito da "ethos, pathos, logos," l'ultimo capitolo di "Election Year" un Work in Progress sinfonico presentato in tre serate allo Shapeshifter a partire dallo scorso luglio, e composto in real time per riflettere il clima politico prevalente. La Awakening si conferma come una delle grandi promesse per i prossimi anni e aspettiamo con interesse il nuovo CD Atticus Live -The Music of Jesse Lewis (Biophilia Records)

Pensieri liberi in chiusura. Per l'italiano medio, armato di atavico cinicismo politico, immaginare un tale dispiegamento di forze artistiche legati ad eventi politici di casa nostra può fare specie. Ve l'immaginate il Sousaphonix di Ottolini o l'Italian Instabile Orchestra che incidono un disco sulle elezioni del primo ministro italiano? Ma negli Stati Uniti, dove, nonostante le vicissitudini degli ultimi anni, continua ad esistere un rispetto delle istituzioni idealistico e per molti versi illusorio, il coinvolgimento civico di questi artisti non desta sorrisi e ammiccamenti ma l'ammirazione che i loro esiti artistici giustificano. Dopo tutto, proprio nei periodi di maggiore turbolenza politica, le comunità artistiche tendono a rivitalizzare il proprio impegno sociale e ruolo aggregativo, lasciando tracce fondamentali, dalla Zulu Nation di Afrika Bambataa al Red Wedge anti-tatcheriano. Purtroppo, o per fortuna, ci possiamo aspettare grandi cose dalla scena jazzistica statunitense negli anni a venire.



Elogio di Paul Desmond
Capita d'imbattersi in singolari coincidenze, nei nostri percorsi musicali. Non le sincronicità di cui parlava Carl Gustav Jung ma semplicemente delle relazioni casuali. Significative e fruttuose però, quando fanno rileggere gli ultimi frammenti di vita di Paul Desmond. Per motivi che sarebbe lungo raccontare, l'ultimo assolo del grande sassofonista (in una canzone di Art Garfunkel), si connette nel nostro vissuto quotidiano con l'ascolto del suo ultimo suo album pubblicato prima della morte: The Paul Desmond Quartet Live, registrato tra il 25 ottobre e il 1 novembre 1975.


Desmond fumava tre pacchetti di sigarette al giorno. Quando a 51 anni gli fu scattata la foto per la cover aveva già un tumore ai polmoni in stadio avanzato. Ma non lo sapeva perchè il male gli fu diagnosticato qualche mese dopo, nell'estate 1976. Quella copertina è inquietante per i segni premonitori e raffigura i tratti tipici della sua personalità: ironia e signorile imperturbabilità.

Ted Gioia ha già commentato nel suo libro "L'arte imperfetta" quella singolare copertina e lasciamo a lui la descrizione: "Desmond è ritratto seduto da solo in un club all'ora di chiusura. Le sedie sono impilate sui tavoli e Desmond è pronto ad andarsene, con una valigia—o forse una custodia di sax—accanto a sé. L'artista sta fumando una sigaretta (...) Se si guarda bene, sulle bretelle di Desmond si notano dei piccoli teschi con le ossa incrociate. Questi dettagli, insieme al titolo ironico dell'album e al sorriso triste di Desmond, sono decisamente inquietanti."

Voce chiave del quartetto di Dave Brubeck, il sax di Paul Desmond (pensiamo solo al successo planetario di "Take Five") è stato uno dei più ascoltati entro e fuori il mondo del jazz, ma verso il successo egli manifestò distacco, concentrato com'era solo sulla musica. Il suo volto era sotto i riflettori ma non appariva. Osservava se stesso e gli altri con ironia: "Io sono quel sassofonista del quartetto di Dave Brubeck—disse—col quale sono stato associato dai tempi immediatamente successivi alla guerra di Crimea. Voi potete riconoscermi dal fatto che qundo non suono (cosa che mi succede molto spesso) mi appoggio al piano. (...) Ho vinto parecchi premi come il solista di contralto più lento del mondo e anche un premio speciale nel 1961 per la mia tranquillità."

Aveva una laurea in letteratura inglese ma non se ne servì. "Non sono diventato scrittore —diceva-perché trovo ispirazione solo in spiaggia ma la macchina da scrivere mi si riempe di sabbia." Anche quando gli fu diagnosticato il tumore reagì con eleganza: "Per fortuna ho il fegato in ottime condizioni, uno dei migliori del nostro tempo."

Con Lee Konitz fu tra i primi a non seguire lo stile di Charlie Parker e si differenziò dal primo per il fraseggio liricamente contemplativo, le linee melodiche sinuose, il timbro luminoso e sottile. La sua ultima testimonianza registrata, due mesi prima di morire, fu nel brano di Art Garfunkel "Mr. Shuck 'n Jive" per l'album Watermark. Un titolo che singolarmente riconduce ancora a Desmond. Fu la sua prima e ultima partecipazione nel mondo della pop music. Ascoltiamolo.

Leggendo l'ultimo lavoro di Stefano Zenni, Che razza di musica. Jazz, blues, soul e le trappole del colore, ci si rende conto da un lato quanto siano appesantite da pregiudizi gran parte delle concezioni correnti sull'identità del jazz, dall'altro quanto sia complicato far piazza pulita per provare a costruirne una (comunque transeunte) che ne sia quanto possibile libera.

Che quello di "razza" sia un costrutto desueto e destituito di fondamento, così come lo è quello di "colore della pelle," è ben noto; che alla nascita e all'affermazione del jazz delle origini abbiano contribuito -oltre agli africano-americani— in modo tutt'altro che marginale anche i creoli e i sudamericani, gli ebrei e gli italo americani (che si contano a decine tra i pionieri, al punto di essere due su cinque in quello che passa per essere il "primo disco di jazz" a essere stampato) è anche risaputo; e tuttavia si continua a parlare di "musica nera," reiterando pregiudizi già superati e in questo modo, di fatto, riconfermandoli dopo la loro caduta.

Il problema è che la mitologia è difficile da sradicare e che proprio questo vuol fare il libro di Zenni, "strappare il velo del mito per guardare negli occhi la caotica realtà dei rapporti razziali nella musica popolare africano americana." Ma farlo vuol dire appunto togliere a molti le abituali chiavi con cui leggere la realtà, perfino obbligare a un cambiamento di linguaggio, cose di solito poco gradite, oltre che complesse da attuare.

Comunque sia, Che razza di musica inaugura -o almeno dovrebbe inaugurare -una riflessione importante sull'identità che ha oggi quella musica che prende il nome di jazz. Una riflessione che non mi pare finora si sia veramente aperta (la mia sensazione, non so quanto corretta, è che il libro di Zenni sia stato un po' snobbato tra gli appassionati e gli addetti ai lavori) e che potrebbe avvalersi -in modo affatto diverso -anche di un altro interessantissimo libro che ho appena finito di leggere: Eseguire l'inatteso. Ontologia della musica e improvvisazione di Alessandro Bertinetto.

In questo caso si tratta di un'opera che riassume l'ampio dibattito che da qualche anno si è creato tra i filosofi sul tema dell'improvvisazione e che ne discute in modo assai elaborato lo statuto oggettuale, i presupposti estetici, la sua normatività interna e via discorrendo. Anche qui, sono molti i cliché e i pregiudizi da svelare e scalzare. Ma per farlo, accanto agli studi dotti e ben informati, serve ancora una volta un dibattito -si badi, non da fazine, ma attento e ponderato -che speriamo si avvii. Per il piacere di comprendere meglio la musica che amiamo, ma anche per aprire un diverso versante attraverso il quale far parlare di lei, della sua complessità, ricchezza, innovatività -in una parola sola, della sua bellezza.



La frequentazione dei grandi, anche sporadica ma possibilmente regolare, aiuta a tornare sull'attualità con sguardo sempre rinnovato. Non è un concetto granché originale, ma molto spesso si dimentica di metterlo in pratica, per il tempo che manca e le cose nuove che si accavallano in sala d'attesa.
Per esempio, mi piace tornare spesso su un piccolo libro, che immancabilmente mi ripaga del tempo ad esso accordato, alimentando nuovi spunti di riflessione. Si tratta di "Poetica della Musica": una raccolta di conferenze che Igor Stravinskij tenne all'Università di Harvard. La mia copia è pubblicata in italiano da Edizioni Curci, 1995.

Da questo libretto lungo poco più di cento pagine, propongo un paio di paragrafi, dedicati alla libertà nella creazione artistica: "(l'immaginazione) non è soltanto la madre del capriccio, ma la forza che serve e rifornisce la volontà creatrice.
La funzione del creatore è di vagliare gli elementi che ne riceve, poiché è necessario che l'attività umana imponga a se stessa i propri limiti. Più l'arte è vagliata, limitata, elaborata, più essa è libera.

Per quel che mi riguarda, io provo una specie di terrore quando, al momento di mettermi al lavoro e innanzi alle infinite possibilità che mi si offrono, ho la sensazione che tutto mi sia permesso. Se tutto mi è permesso, il meglio e il peggio, se nulla mi oppone resistenza, ogni sforzo è inconcepibile, io non posso appoggiarmi a nulla per costruire e quindi ogni impresa sarebbe vana."

Sono riflessioni che a prima vista sembrerebbero lontane dall'atteggiamento che sostiene l'improvvisazione. In realtà anche il grande improvvisatore ha necessità di porre limiti alla propria libertà. A maggior ragione, non gli è permesso il terrore di fronte alle infinite possibilità che gli si offrono. Terrore che è possibile solo nella creazione a tavolino, davanti a un foglio bianco. Non davanti a una platea, che attende di condividere la musica con chi la crea, in tempo reale.

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