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Shir haShirim, Il cantico dei cantici
e
"Aperitivo in Concerto"
Teatro degli Arcimboldi - Milano - 24.09.2008
Era scritto che prima o poi le strade di John Zorn e Lou Reed si sarebbero incrociate. Al di là dei distinguo, dei diversi ambiti di appartenenza, delle generazioni che li separano, delle enormi distanze, c’è molto in comune tra i due figliocci dell’underground newyorchese. Ultimamente, poi, ci si sono messe di mezzo anche le comuni radici ebraiche, radici che l’ex leader dei Velvet Underground, vale la pena ricordarlo, non ha mai particolarmente coltivato.
Vale la pena ricordarlo perchè, in fondo, la capacità di vendersi e rivendersi, riciclarsi e, non si è mai capito con quale grado di malizia, reinventarsi, il trasformismo, per citare il titolo di un celebre disco del nostro, è sempre stato uno dei tratti del personaggio Reed (Lester Bangs ci perdeva le nottate). Tutte doti che certo non fanno difetto nemmeno a mister Tzadik, che sul culto delle sue prolisse mistificazioni (il cinquantesimo compleanno, la musica giapponese, i filmworks, la radical jewish culture e chissà cos’altro ancora), ha costruito le proprie, meritatissime, fortune.
Pensieri in libertà prima e dopo il concerto degli Arcimboldi di Milano.
Prima perchè qualche pregiudizio, lo ammetto, me lo sono portato da casa.
Dopo perchè il tanto celebrato Cantico dei cantici, musicato con gli special guest Lou Reed e Laurie Anderson, il suggello all’arte zorniana, come lo definiva pomposamente la locandina dello spettacolo (sulla quale campeggiava il volto di Reed e non quello di Zorn), si è rivelato una solenne delusione.
Formula piuttosto semplice quella pensata per la performance: un coro femminile di cinque elementi, due voci recitanti (Reed e la Anderson nella parte dei due amanti), un inutile direttore d’orchestra (Zorn, impegnato a muovere a intermittenza gli indici per scandire i turni di lettura delle due impacciate super star). Di ottima fattura alcuni passaggi del quintetto vocale, in cui è emerso il lato masada della scrittura zorniana: abbondanza di spezie ebraiche, profondo afflato mistico, palpabile senso della religiosità. Il tutto a far
da cornice alle declamazioni non particolarmente ispirate della coppia Reed-Anderson, che ha recitato in inglese - sensuale lei, tenebroso e sbiascicato lui - la singolare preghiera di Salomone dedicata all’amore. Non sono mancati i guizzi, soprattutto quando il cantato ha preso il sopravvento sul recitato, ma nel complesso i quaranta minuti sono trascorsi all’insegna della ripetitività di formule e meccanismi, con un’evidente limite nella mancanza di fluidità nei raccordi tra i vari movimenti della suite. Poco altro da puntualizzare, se non che i fan di Reed se ne saranno andati imbestialiti (o tutt’al più straniti), mentre quelli di Zorn avranno lasciato la sala con la certezza che nel filone jewish sono state raggiunte ben altre vette (Kristallnacht, Bar Kokhba, Electric Masada).
Significativa la reazione del pubblico al termine dell’esibizione, con gli applausi che si sono fatti palpabilmente più intensi quando Zorn ha introdotto le cinque graziose coriste.
Decisamente più intrigante la prima parte della serata, in cui sul palco sono saliti Marc Ribot, Greg Cohen, Kenny Wollesen - per l’occasione al vibrafono - e l’arpista Carol Emanuel. Un quartetto da camera - Ribot impugnava la chitarra classica - che ha interpretato una manciata di composizioni scritte come prologo, o prima parte, del Cantico dei cantici, ma che avrebbero potuto benissimo essere tratte dal secondo Book of Angels. Tutto nel canone classico del genere, con le sei corde del tenebroso Ribot cariche della solita tensione emotiva - quanto cuore in quella chitarra - e la new entry Emanuel a donare eterea, angelica, leggerezza al jewish sound dell’inedita formazione. Impeccabile, come al solito, il contrabbasso di Cohen, dotato di un senso ritmico unico e di un raffinatissimo timbro, mentre Wollesen si è rivelato vibrafonista ispirato e mai banale. Attendiamo con ansia una testimonianza discografica, che, ne siamo sicuri, arriverà.
Foto di Roberto Cifarelli
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