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Paolo Fresu Talkabout di Luigi Onori
di Luigi Onori
Nuovi Equilibri, Viterbo
2006
pagg. 287
euro 25 con DVD allegato
Una “biografia inconsueta”: così l’autore definisce il suo ritratto a due voci, che ha per protagonista Paolo Fresu, jazzista tra i più popolari in Italia e in Europa. Inconsueta lo è per la non comune caratura del trombettista, uomo dai mille interessi che investono mondi diversi: il cinema, il teatro, la letteratura e l’impegno civile.
Scritto da uno dei più autorevoli musicologi italiani, il libro costituisce un’occasione davvero unica per capire a fondo un artista colto e trasversale, dietro la cui tromba lirica ed intensa c’è qualcosa altro e di più: il nomadismo culturale; l’ansia del viaggio come metafora di una continua ridefinizione di sé; gli incontri interetnici intrecciati in tutto il mondo, da Parigi al Sud Africa, dall’India ai Caraibi.
Tredici sono i capitoli di questo interessante saggio/intervista, volti a ripercorrere i principali percorsi artistici dell’artista di Berchidda. A cominciare dalla formativa militanza nelle bande popolari sarde e dal conflittuale rapporto con il conservatorio, passando per lo studio dei suoi modelli trombettistici (Davis e Baker tra tutti) sino agli avvincenti incontri di Time in Jazz, di cui Fresu è da vent’anni il deus ex machina.
Complete sul piano della critica musicale, le informazioni sulla discografia del trombettista presentano il duplice interesse di informare esaustivamente il lettore, fornendogli al tempo stesso gustosi aneddoti su brani e titoli di dischi.
Parlando degli standard, Fresu mette ben in luce un procedimento fondamentale della pratica jazzistica, spesso assimilabile alla creazione artistica cubista: “in realtà si sceglie uno standard non solo perché ti piace; gli standard sono tutti belli, più o meno. Accade, invece, che ad un certo punto avverti che quello standard tu lo stai in qualche modo plasmando. E come se tu lo smontassi e ricostruissi da un altro punto di vista; quando cominci a sentirlo tuo, è come se lo fosse davvero nonostante sia di un altro, ed allora senti la necessità di suonarlo, di suonarlo a lungo, magari di registrarlo più volte. Perché ogni volta comunque, nonostante sia lo stesso materiale, questo materiale assume una forma diversa”.
È poi illuminante (a pagina 80) una nota a margine della pratica jazzistica, dove Onori riscontra nella dimensione musicale di Fresu e dei jazzisti un elemento rituale e socializzante, “in cui ciascuno (pubblico e musicisti) si libera o svela una parte nascosta di se stesso”. Per costruire un rapporto di ricerca interiore e relazionale, che porta a vivere la creazione artistica come un momento di condivisione e socializzazione.
Ed altrettanto importanti sono le considerazioni di Fresu sulla didattica jazz: “quello che cerco di insegnare agli allievi è ciò che in realtà non si trova scritto; nei libri non trovi come rispettare il silenzio nella musica, come lavorare su una progressione, come costruire una frase musicale dal punto di vista architettonico, come impostare un discorso, come essere sul palcoscenico e sentire gli altri musicisti che suonano. Cioè nella musica ci sono degli elementi diversi e c’è un qualcosa che fa la differenza tra il mestiere e l’arte: il mestiere significa conoscere le cose anche molto bene, l’arte significa usare queste cose dandogli una forma estetica e creare una magia, quel senso del racconto che pochi musicisti hanno ed è ciò che fa la differenza per gli artisti che toccano il cuore più degli altri”.
Oltre a togliersi qualche sassolino dalle scarpe (parlando del suo difficile rapporto con il conservatorio), Fresu si produce qui in pregevoli giudizi di valore su colleghi del calibro di Chet Baker, Tom Harrell, Kenny Wheeler e John Hassell, solo per citarne alcuni.
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