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Paolo Fresu: i mille volti di un musicista completo
Stiamo parlando ovviamente di Paolo Fresu. Su di lui non mancano certo le informazioni di ogni genere (numerosi Cd e concerti, ma anche libri, recensioni, interviste, articoli...), tanto che secondo alcuni rischia di apparire sovraesposto. Anzi lui stesso, in un intervento recentemente pubblicato sul "Giornale della Musica," ha denunciato il fenomeno della proliferazione abnorme, inevitabile e incontrollabile (e talvolta controproducente) di "post" su di lui inseriti da chicchessia su Facebook. Personaggio pubblico quindi, costantemente sotto i riflettori; nell'intervista che segue ho cercato di affrontare temi specifici, recenti, entrando anche nella sfera privata.
All About Jazz: Paolo, tu sei l'ideatore, l'animatore e direttore artistico del festival Time in Jazz di Berchidda fin dalla sua nascita. Puoi sintetizzare la filosofia di questo importante appuntamento, che è giunto alla ventiduesima edizione e che ai concerti affianca molte iniziative collaterali, anche di carattere sociale?
Paolo Fresu: Quando nacque Time in Jazz nel lontano 1988 eravamo coscienti del fatto che questa manifestazione si sarebbe radicata in un piccolo centro ad economia agro-pastorale lontano dal mare e dunque non a vocazione turistica. L'unico contatto con il jazz ero io in quanto musicista e dunque, per portare pubblico in un paese isolato con meno di tremila anime, era necessario caratterizzarci grazie ad una programmazione diversa rispetto ad altre realtà festivaliere sia italiane che europee.
Da allora il festival si è sempre permeato del mio pensiero artistico e dunque, nell'arco degli anni, si è mosso a 360° nelle musiche (jazz e affini) e successivamente nelle arti con i suoi plurilinguaggi. I caratteri salienti sono sempre stati la produzione di progetti originali, l'apertura delle proposte, un'attenzione particolare verso il jazz europeo ed italiano, non dimenticando gli artisti isolani. Si è invaso il campo delle arti visive, del cinema (ma anche di danza, letteratura, poesia, fotografia, scultura...) e, per quanto riguarda le localizzazioni, sono stati coinvolti luoghi 'altri,' portando i concerti nelle chiese campestri, nella natura, sulle navi, sui treni...
Ma da diversi anni Time in Jazz è diventato anche un fenomeno di costume che porta in paese migliaia di giovani da tutta l'Italia e che vengono lì non solo per sentire del buon jazz, ma spesso solo per incontrarsi e riconoscersi in qualcosa. Trovo che questo sia un fenomeno molto interessante e che dunque il festival, per la sua capacità attrattiva, sia un ottimo strumento per parlare e per riflettere anche sul sociale. Il nuovo corso legato all'ambiente è la giusta risultante di questo.
AAJ: A mio parere l'aspetto più singolare e qualificante è il pubblico migrante, attento e di ogni età, che segue i concerti mattutini e pomeridiani nelle suggestive località naturalistiche o monumentali fuori Berchidda.
P.F.: Sì, credo anche io che questo sia un aspetto particolare del festival e dunque vincente. Molti dei concerti più belli si programmano nelle Basiliche sperdute tra le greggi, nei boschi o comunque in luoghi particolari dove il contatto con gli artisti e con la natura è fondamentale. Ciò permette non solo di incontrare la musica in maniera inusuale e di scoprire luoghi nuovi, ma anche di reinterpretare il pensiero sonoro ed il meccanismo di fruizione della musica. Vedo i musicisti arrivare in quei luoghi sperduti prima spaventati per poi ripartire felici ed un po' increduli. Perché le suggestive località naturalistiche o monumentali divengono i veri protagonisti del festival dando alle performance un sapore unico e indimenticabile.
In genere in questi luoghi portiamo piccoli gruppi mutuati da quelli più 'grandi,' che magari la sera prima si sono esibiti sul grande palco centrale. Capita spesso che questi momenti risultino addirittura più belli di quelli della sera prima e diventino unici e particolarmente preziosi in quanto irripetibili. In pratica è il luogo che impone, sia ai musicisti che al pubblico, un diverso livello di attenzione, invitando alla creatività.
AAJ: C'è però anche un'altra faccia del festival, vale a dire le due serate ferragostane in cui il tipo di proposta, il livello dell'amplificazione, la durata dei concerti e la quantità di pubblico nella Piazza di Berchidda sembrano privilegiare la festa collettiva e lo spettacolo.
P.F.: Ho sempre pensato ad un festival come ad una grande festa e alla musica come potente strumento comunicativo. In un festival come il nostro, con più di 40 concerti, ci sono diversi momenti e la musica cerca di coprire un grande registro di sonorità e di tipologie progettuali. Per me la musica deve essere emozione e quindi l'obbiettivo è quello di emozionare ed anche, in alcuni casi, di divertire. Musica per tutti i gusti dunque, ma sempre di qualità, per un festival che, a detta degli stessi artisti, ha uno dei pubblici qualitativamente più alti d'Europa. Ciò ci ha permesso in tutti questi anni di programmare senza alcuna remora e con coraggio, sapendo che la gente viene numerosa perché si fida di noi. Ci sono dunque momenti di ricerca, altri di profondità e ci sono anche momenti ludici ed aggreganti. Ciò accade in particolare durante la festa finale del 15 agosto quando tutti i nostri volontari (oltre 120), davanti a migliaia e migliaia di persone, prendono possesso di quel palcoscenico che per diversi giorni è stato il regno magico ed irraggiungibile degli artisti.
Time in Jazz continua a vivere perché c'è dietro quell'umanità di gente che ha dato l'input all'edizione del 2008 dedicata all'Architettura, intesa anche come architettura di genti dunque. La festa liberatoria (e propiziatoria) del 15 agosto va quindi verso tutti, anche verso quelli che magari non amano particolarmente questa musica, ma ne comprendono il messaggio sociale ed umano.
Mi sembra che, in questo modo, si possa proseguire il grande percorso intrapreso dal jazz nel secolo scorso, visto che è musica dinamica e in divenire, capace di dialogare con la realtà che ci circonda.
AAJ: Ci puoi dare qualche dato numerico (finanziamenti, biglietti venduti, pubblico, artisti invitati...) dell'ultima edizione?
P.F.: Numero di concerti: 47.
Numero di performances: 18.
Conferenze, letture e mostre: 16 + 1 rassegna di cinema.
Biglietti venduti: circa 10.000.
Spettatori complessivi: circa 35.000.
Artisti presenti: 213.
Numero di volontari: 130.
Comuni coinvolti: 11.
Numero luoghi utilizzati: 37.
Finanziamenti: circa 450.000 Euro di cui il 30% da sponsor privati.
Indotto economico sul territorio: circa 1.500.000 Euro.
AAJ: Ci puoi già anticipare qualcosa di Time in Jazz 2010?
P.F.: L'edizione numero 23 proseguirà il cammino intrapreso quest'anno con i quattro temi degli elementi. Dopo l'Acqua indagheremo sull'Aria e cercheremo di essere ancora più attenti all'ambiente e al problema delle energie alternative. Procederemo negli anni futuri con i temi della Terra e del Fuoco. Time in Jazz diventa dunque e sempre di più un festival di musica e di arte biologico ed eco-sostenibile.
Naturalmente non siamo stati mai troppo 'talebani' ed il tema è un pretesto per muoverci verso una direzione che suggerisce ed invita a molte ramificazioni. Per me l'aria è quella che si respira, lo sono gli strumenti a fiato, ma lo è anche l'aria in quanto composizione del barocco. Dunque sarà un festival a cavallo tra vento e brezze dove l'aria sulla quarta corda di Bach potrebbe diventare motivo conduttore e/o suggeritore da legare ad ottoni, corde, archi e voci passando magari per strumenti inusuali come le Onde Martenot o il Theremin...
Tutto è comunque ancora da inventare e, come si dice da noi "In caminu s'acconzat barriu," che significa più o meno "Il carico lo si aggiusta cammin facendo...". Il percorso è solo all'inizio ed è necessario un intero anno per arrivare al traguardo ferragostano; la macchina è già in movimento nonostante l'edizione sull'Acqua sia appena trascorsa. Lavorare seriamente ad un festival significa costruire una partitura che è fatta non più di note ma di artisti e di progetti e ciò richiede attenzione, amore e dedizione verso la propria partitura.
AAJ: Nel 2009 hai assunto anche la direzione artistica del festival di Bergamo. Che bilancio puoi trarre di questa edizione e cosa ci puoi anticipare dell'edizione 2010?
P.F.: Il bilancio è per me positivo. Soprattutto perché, al di là della programmazione nel prestigioso Teatro Donizetti, molti concerti sono stati portati in altri spazi della città coinvolgendo un pubblico più ampio (anche giovane) e diversi musicisti locali. L'idea di festival come la concepisco io si è perciò concretizzata ed attende di essere sviluppata nel 2010.
Intanto abbiamo spostato il festival nelle date tra il 19 ed il 21 marzo: dunque sarà dedicato alla primavera! Proseguiremo in questo percorso di apertura e ci sarà una maggiore presenza di musicisti americani con qualche 'big,' vicino a diversi esponenti sia europei che italiani e bergamaschi. Inoltre confermeremo il 'focus' su un grande musicista italiano e, novità del 2010, ci dovrebbe essere per la domenica del 21 marzo una maratona dedicata ai Conservatori italiani in collaborazione con il Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca.
AAJ: Entriamo più nel privato: nel gennaio 2008 è nato Andrea, il tuo primo figlio, che ha sicuramente stravolto gli equilibrii affettivi ed organizzativi della tua vita quotidiana. Questo ha influito in qualche modo anche sulla sfera creativa?
P.F.: Credo abbia influito parecchio. Oggi, grazie alla nascita di Andrea, mi trovo diverso: forse più maturo e più attento a ciò che mi circonda. Essendo io molto emozionale penso che tutto questo si riversi inevitabilmente nella musica e nel mio rapporto con il prossimo.
Di certo Andrea ha fatto bene a me e alla mia musica. Cerco di stare più in casa con lui e con mia moglie Sonia, pur sapendo che la mia vita si divide tra gli affetti e la creatività; sono perciò cosciente che potrò dare molto al piccolo Andrea se io sarò ricco dentro. Molta di questa ricchezza viene attraverso la musica e grazie a ciò che la musica mi ha insegnato.
AAJ: Nell'ultimo anno che tipo di musica hai avuto occasione di ascoltare dal vivo o su CD? Cosa ti ha colpito particolarmente?
P.F.: A casa ascolto musica praticamente tutto il giorno. In genere dedico buona parte del tempo ai numerosissimi CD che mi mandano (allievi, amici, promoters...) e che io sento con attenzione. Solo successivamente passo alle cose che mi interessano per un ascolto non professionale: qualche CD suggerito da un amico del quale mi fido, qualche CD (raramente...) che compro io stesso e soprattutto i classici del passato. La verità però è che non ascolto moltissimo jazz, ma piuttosto musica classica (dal barocco al contemporaneo passando naturalmente per Bach) ed un po' di musica meticciata. Poco rock e poco pop se non per necessità.
Cosa mi ha colpito in questi ultimi ascolti? Tra i CD ricevuti un lavoro di Mirko Signorile (ma potrei citare diversi altri giovani sia italiani che europei...), l'ultimo CD ECM di John Hassell, Last Night the Moon Came Dropping Its Clothes in the Street e Whit a Buzz in Our Ears We Play Endlessly dei Sigur Rós.
AAJ: La tua attività artistica è sempre frenetica e si esprime con diversi mezzi. Cosa ci puoi dire del libro edito da Feltrinelli e del CD che la ECM pubblicherà in novembre?
P.F.: Sono molto contento del libro, che uscirà il 21 ottobre. Si intitola "Musica dentro" ed è una sorta di biografia anomala dove si parla di me, dei miei inizi, della scoperta del jazz, di Miles e Chet, ma anche di lingua, del complesso rapporto con la musica tradizionale, del Vocabolario di mio padre, degli standard, della didattica, dei viaggi, della filosofia del suono e del silenzio...
Dopo "Talkabout," l'opera di incredibile profondità scritta da Luigi Onori per i tipi di Stampa Alternativa, sentivo il bisogno di raccontare io stesso la mia storia ed il mio rapporto con la musica e con il jazz (che mi ha cambiato la vita) in un modo semplice e spontaneo che potesse arrivare a tutti e spero anche a quelli che di jazz non si occupano e che poco lo conoscono.
Il CD per la ECM si intitola Chiaroscuro ed è in duo con il chitarrista Ralph Towner. Si tratta della mia prima vera collaborazione con la prestigiosa etichetta di Manfred Eicher e sono molto soddisfatto perché è un disco rigorosamente acustico. Ci sono molte composizioni di Ralph, alcuni brani improvvisati e uno standard famoso di cui non rivelo il titolo. È un progetto al quale sia noi che Eicher teniamo molto e che, tra la fine di quest'anno e la prima parte del prossimo, girerà prima in Italia, poi in Europa e successivamente negli Stati Uniti.
AAJ: Le tue collaborazioni musicali, consolidate o occasionali, sono numerosissime: dal PAF trio alla Kocani, dal duo con Uri Caine ad una lunga serie di altri duetti improvvisati, dal tuo quintetto storico all'Alborada String Quartet, da Carla Bley a Maria Schneider... senza dimenticare le colonne sonore. Ritieni che sia più importante conservare una tua identità stilistica costante, oppure operare di volta in volta una trasformazione espressiva, interagendo e adattandoti ai vari contesti?
P.F.: Penso sempre di più che sia necessario, pur muovendosi in contesti diversi, conservare la propria identità stilistica, cercando nello stesso tempo di adattarsi cercando i punti di connessione e di contatto. In primo luogo attraverso il suono - il più possibile personale - che rappresenta il nostro racconto intimo e la nostra voce. Se siamo in grado di non modificare più di tanto il nostro suono vuole dire che saremo in grado di passare attraverso progetti diversi, contribuendovi senza dover mettere un vestito nuovo di volta in volta. La personalità prima di tutto quindi e poi la capacità di relazionarsi con gli altri, portando il proprio pensiero e la propria idea, né imponendola né cambiandola.
AAJ: Ci sono collaborazioni che rimpiangi di non essere riuscito a realizzare? O altre che desideri e pensi di poter concretizzare in futuro?
P.F.: No. Ciò che non è stato possibile fare lo si dimentica se si è fatto di tutto per arrivarci. A volte e nonostante tutto non si riesce a raggiungere certi obiettivi: pazienza dunque e nessun ripensamento o rimpianto.
Ci sono molti progetti che serbo nel cuore e che vorrei portare a termine. Non ultimo quello sulla musica barocca che finalmente inizia a vedere una luce. In piccola parte lo si è realizzato quest'estate assieme al gruppo da Camera dei Virtuosi Italiani sulle Dolomiti, ma ha ancora necessità di crescere ed è possibile che nel 2010 potrà raggiungere la sua forma definitiva.
Ci sono poi molte altre idee ed un progetto folle per il 2011 del quale non parlo ancora per scaramanzia... E poi vorrei suonare con molti musicisti che amo, ma siccome sono fatalista penso che le cose debbano accadere da sole. E' come quando si cerca forzatamente una compagna per la vita... in genere la si trova quando non si ha voglia (o più voglia?) di cercarla.
AAJ: Come molti tuoi colleghi, negli ultimi anni ricorri in modo sempre più sistematico all'elettronica. Secondo me non si tratta più solo di un ausilio, di un arricchimento timbrico, ma di un mezzo che trasforma radicalmente la visione strutturale e del quale, almeno in certi contesti, non si può più fare a meno. Come imposti il tuo rapporto con l'elettronica?
P.F.: Il mio è un rapporto conflittuale, perché sono cosciente del fatto che l'elettronica può prendere il sopravvento sul musicista. Personalmente la uso molto nei contesti piccoli e sempre meno, ad esempio, con il Quintetto o in formazioni ancora più ampie. Come per il computer uso l'elettronica per ciò che mi serve e con parsimonia pur sapendo che potrei fare mille volte di più.
Come principio preferisco sempre il suono acustico e all'origine comprai le macchine elettroniche per avere un suono più bello e soprattutto affinché così potesse essere sempre lo stesso. Solo dopo scoprii che quelle stesse macchine potevano darmi altre opportunità attraverso l'uso dell'effettistica e mi sono appassionato. Nonostante le usi da tanti anni ho però un rapporto quasi arcaico con questi mezzi e mi piace così. Nel senso che la timbrica di un harmonizer o di un delay mi riporta verso l'ancestralità e la primitività della musica più che proiettarmi verso il futuro. Un senso ancestrale e primitivo che sa di Africa e di Oriente; quasi un rapporto mistico con il suono che deve essere sporco ed imperfetto. Per questo la uso cercando di farne un utilizzo spurio e facendo sì che il mezzo sia solo un arricchimento della tavolozza timbrica ed un elemento suggeritore per la parte creativa.
Di certo ci sono progetti nei quali non se ne può fare a meno perché nascono con quella idea sonora, mentre ci sono progetti principalmente acustici nei quali un tocco di elettronica può arricchire pur non risultando necessaria o fondamentale.
AAJ: Da anni in concerto suoni più il flicorno che la tromba, direi forzandolo a volte in una gamma dinamica e timbrica che si avvicina a quella della tromba. Per quali ragioni o in quali casi prediligi il flicorno?
P.F.: Non ho idea. Lo giuro. Ho iniziato in banda suonando la tromba, poi mi sono appassionato alla tromba con la sordina ascoltando Miles Davis e solo successivamente ho scoperto il flicorno come molti. All'origine mi piaceva il suono scuro quasi a contraltare di quello più chiaro della tromba e di quello femminile della Harmon mute. Poi ad un certo punto ho quasi eliminato la tromba aperta e mi sono concentrato sul flicorno e sulla sordina: due strumenti quasi estremi.
In realtà però la tromba è ricchissima di sonorità diverse e la sto usando sempre di più. Anche se in genere non nei brani troppo veloci dove prediligo il suono più scuro del flicorno, che a volte uso, come tu hai detto, in una gamma dinamica e timbrica che si avvicina molto a quella della tromba. Insomma, alla fine non mi piace troppo il suono classico del flicorno e mi interessa invece forzarlo affinché si possa ottenere un suono più modulato e personale.
Foto di Claudio Casanova (Fresu, Caine/Fresu), Vittorio Albani (Towner/Fresu), Adriano Mauri (prima foto di Berchidda) e Roberto Cifarelli (seconda foto di Berchidda).
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